Era un piacere andare a trovare Marcello nel suo studio al Forte Inglese. Per lui credo fosse una pausa ben accetta dell’ozio creativo. Per i suoi visitatori l’occasione di conversazioni divaganti, scherzose ma anche acute e profonde.
Era sempre lì, in quel luogo meraviglioso, da solo: sue opere appese, appoggiate al muro, impilate, tavolacci polverosi, cavalletti, tavolozze, colori, pennelli e spatole e quadri in lavorazione, scaffali sgangherati traboccanti di libri, libri d’arte e libri squinternati, libri degli argomenti più vari, ritagli di giornale, penne e matite, fogliacci scarabocchiati, brogliacci, cianfrusaglie, appesi al muro schizzi, disegni manifesti di mostre, riproduzioni di capolavori, pagine di quotidiano, immagini curiose. Stanzone rettangolare, volta a botte in parte coperta da un telo, a protezione dell’umidità, muri scrostatati, finestra – bocca di luce in alto sul fondo.
Ma quella volta eravamo andati per comprare un quadro.
«Scegliete quello che volete». I quadri finiti, ci faceva vedere, erano conservati in maggior parte in un’altra stanza in penombra, al di là del corridoio. La scelta era abbondante, varia, abbracciava tutte le epoche vissute da quando si era riconosciuto pittore. Impietoso con se stesso poneva un limite a ritroso, invitandoci a considerare solo opere successive a una certa data, la soglia oltre la quale si era sentito artista maturo. Ma erano comunque tutti quadri inconfondibili, a suo merito questo va detto: a colpo d’occhio, dovunque si vedesse una sua opera, si poteva dire «questo è Marcello D’Arco».
Nello scegliere un quadro, si possono seguire consigli dell’autore, si può seguire il proprio gusto, si può restare disponibili alla sensazione del momento. La rosa si restringeva. Ma a un certo punto abbiamo detto: «Vogliamo questo».
«Questo no. È l’unico che non posso vendere. Non è disponibile».
Era un quadro “fuori serie”, un’opera che forse più di ogni altra, almeno fino a quei giorni, 2004, conteneva l’essenza dell’arte di Marcello D’Arco. “Conteneva” alla lettera, perché l’arte, la cifra distintiva dell’autore, in quell’opera non si mostrava dispiegata, ma solo allusa, affidata ai pochi, ai minimi segni indispensabili. In questo stava e sta il fascino di questo quadro.
Un quadro che il pittore aveva dipinto per sé. come un promemoria dei propri colori, delle proprie fonti di ispirazione, delle proprie forme.

Un’opera forse neanche finita, certo non rifinita. Ma si sa che il lavoro attorno all’opera termina, per l’artista, nel momento in cui l’autore non ha più bisogno di lavorarci, o nel momento in cui non riesce più a lavorarci. Così quell’opera appariva perfettamente finita. E accanto alle altre inequivocabilmente differente: in quell’opera, le altre erano riassunte e anticipate, ridotte all’essenziale.
«Vogliamo questo. Dacci questo». «Non lo vendo. Non posso venderlo. Deve stare qui». Marcello faceva sul serio. Ma poi dopo una lunga trattativa, che era anche un gioco tra amici, cedette. Purché l’opera fosse convenientemente esposta nella nostra casa di Milano, ci disse.
«Che titolo ha?». «Bandiera rossa al Forte Inglese».

Forte Inglese: l’ultimo elemento del complesso sistema difensivo mediceo, eretto nel 1700. Da tempo Marcello D’Arco era rimasto l’unico inquilino del Forte. L’unico abitante della prestigiosa struttura semiabbandonata, in parte ormai diroccata. Alla fine, quasi un occupante abusivo.
Di quel luogo, Marcello era rimasto il padrone segreto, in qualche modo anche il custode. La sua presenza manteneva vivi quegli spazi – non solo lo stanzone che era il suo studio, ma tutti gli spazi ancora agibili del Forte. Stanze all’altro lato del corridoio. Cortile interno. Contrafforti che si affacciano sul mare aperto, sulla destra lo Scoglietto.
A volte invitava lì amici, a incontri serali. Cibi frugali, vino, chiacchiere, risate, fino a notte fonda.
Quando Marcello, con un sorriso complice e quasi sottovoce, mi disse qual era il titolo del quadro, colsi la rivendicazione autobiografica, la fedeltà a una storia personale, il gioco del bastian contrario, il trionfo, tramite l’arte, dell’impossibile. Ma non colsi allora, subito, quello che mi appare invece in modo cristallino guardando il quadro. Il titolo parla perfettamente dell’immagine. Lo sfondo rosa serve a dar risalto al rosso netto della bandiera. Il Forte Inglese è il luogo identitario dell’artista. La bandiera – l’asta appoggiata in precario, impossibile equilibrio su un angolo delle mura, o forse misteriosamente conficcata nel muro, o appoggiata in bilico sul parapetto – è una firma.
Così ora mi piace immaginare che quelle notti di amichevole baldoria – per motivi personali ne ricordo una, subito dopo il ferragosto 2001 – fossero protette da una bandiera rossa piantata in un qualche modo bislacco in un anfratto di quelle mura, sopra di noi.
Per Marcello D’Arco pittore Portoferraio è sempre stata il tópos, il luogo ideale. Il luogo nel quale si dipinge, e allo stesso tempo il luogo che si dipinge. È il luogo dove l’artista, dipingendo il luogo, dipinge l’arco della propria vita personale. Ci sono certe sue prime opere quasi naif dove, come lui stesso diceva, Portoferraio è rappresentata in modo infantile. Sono opere, non a caso, realizzate nel tempo in cui Marcello era un infante della pittura. L’arco della città, la Calata che va dal molo del Gallo alla Linguella è rappresentato il forma schiacciata, distorta. Quasi a segnalare in modo volutamente enfatizzato la difficoltà del racchiudere la prospettiva su una limitata superficie piana.
Effettivamente, poche conformazioni geografiche e topografie urbane sfidano, come quella di Portoferraio, la rappresentazione pittorica.
Poi la rada inizia a popolarsi di barche, navi, anche sottomarini, e la pittura di Marcello D’Arco si incammina verso la maturità.


Guardando dall’alto, da via della Regina, così come mi invitava a osservare l’orientamento della prua delle barche e delle navi nei giorni di scirocco, mi indicava le invisibili linee di tensione, le volumetrie, le cubature alle quali poteva essere ridotta la struttura urbana.
Ogni sua opera mette a fuoco un singolo dettaglio di questa visione – eppure rimanda misteriosamente, efficacemente al tutto. Letture sempre consapevolmente parziali, le opere di Marcello D’Arco ci appaiono sempre come rinvii, richiami all’irrappresentabile struttura complessiva. Perché la mente e il cuore di Marcello vedevano, avevano sempre presente questa struttura: la rete che connette.
Non solo i Forti, ma quella mescolanza, quella ibridazione tipica di Portoferraio. Della città ideale totalmente progettata dagli architetti per Cosimo de’ Medici si riappropriano i portoferraiesi che scoprono spazi abitativi, riattano, riusano e aggiungono. E poi la città ripensata in pochi mesi dal genio di Napoleone.
Così il Forte Stella si riempie di edifici, e ai lati delle agevoli scale di marmo rosa che salgono verso i Forti si ricavano vicoli e cortili e impensabili giardini.
In tempi di muri scrostati, di degrado strutturale, ambientale e perfino umano, gli stessi edifici pubblici malamente mantenuti; in tempi in cui tanti luoghi bellissimi e ricchi di storia, basta ricordare gli Arsenali, sono tristemente vuoti e chiusi, e le aree verdi prive di cura sono invase dai topi, l’immagine della città conservata da Marcello D’Arco ci è di conforto.
Marcello mi mostrava come le forme del panorama urbano potevano essere ridotte a corpi, volumi, figure geometriche solide: fughe di cubi, parallelepipedi.
Così è quella prospettiva che Marcello mi indicava come esemplare della complessità dell’immagine di Portoferraio: i profili angolari, i tagli diagonali che attraversano l’immagine, i volumi sovrapposti delle case, come si vedono dal mare, su a salire dal Grigolo fino al Forte Stella, case arroccate, che sconfinano nel nero della roccia sporcata dal bianco dei gabbiani, nel verde segnato da agavi. E sopra i mattoni del Forte, fino al faro in alto.
Le forme sembrano resistere comunque alla rappresentazione, perché appaiono sempre sorprendentemente differenti appena lo sguardo si sposta; differenti se osservate al livello, se osservate dall’alto o dal basso. Eppure Marcello D’Arco, pittore, sapeva fissare queste forme su tavole e tele.

Ho scritto un testo per una mostra di Marcello D’Arco, nel settembre 2016.
Scrivevo: ecco così nei suoi quadri Portoferraio come cascata di volumi cubisti, giù verso il mare. Portoferraio sporta sull’acqua, ma serrata nei bastioni a picco sull’acqua. Città protetta, segreta. Città osservata da prospettive inusitate, vista dall’alto come astronave – ben prima che banali droni permettessero sguardi dall’alto, l’artista aveva saputo immaginare.
I blocchi crollanti sono una prosecuzione, senza soluzione di continuità, di forme geometriche di colore: i colori del cielo e del mare confusi con il rosa e il giallo delle case di Portoferraio, con l’ocra e il mattone delle fortificazioni.
Non crediamo sia irrilevante il luogo dove Marcello D’Arco ha creato le opere: il suo studio al Forte Inglese apparteneva pienamente a questa scena urbana, alla Portoferraio medicea, al porto senza uguali. Con sempre presente un qualcosa di fatiscente, non per questo meno nobile. La volta a botte dello studio, la luce dalla finestra sul fondo: il luogo era consono alla generazione di queste opere, di queste immagini della città. Non ripetizioni, ma variazioni. Perché lo sguardo è sempre errabondo, e cambia la luce con il trascorrere delle ore e con il mutare del clima. Città che è sempre anche città interiore. Luogo del ricordo e del sogno.
Ma vicende della vita hanno allontanato Marcello D’Arco da quel luogo. E quindi da questa Portoferraio immaginata e fermata sulla tela.

Allora, scrivevo, Marcello D’Arco fu costretto a ricominciare, dipingendo in un altro luogo, cercando immagini diverse.
Ecco dunque Il sogno del geometra. Opera anomala nella produzione di Marcello D’Arco. Momento di passaggio.
I colori del cielo e del mare sono qui presenti nella forma strutturale più semplice: strati sovrapposti. La spiaggia, la terra, è il lieve strato di colore in basso, sul quale si appoggia la costruzione.
Lo sguardo del geometra misteriosamente rivolto a occidente, oltre l’invisibile Capo Bianco è, possiamo immaginare, anche lo sguardo di Marcello D’Arco che esplora un nuovo, diverso modo di conoscere il suo mondo.
Successivamente Marcello D’Arco fu costretto ad altre interruzioni. Riprese per un’ultima volta a dipingere, in un piccolo studio in un luogo più familiare, domestico, in un luogo dove, dall’alto, poteva osservare distesa per intero sul mare la strana forma spiraleggiante di Portoferraio.
Non ho visto nessuna delle sue opere dipinte in questo luogo. Ma non credo che la loro essenza possa essere cambiata.
Idealmente, sono sempre presenti il cielo e il mare e i tetti di cotto, i muri delle case dipinti di rosa e di giallo paglierino, i mattoni e le pietre dei Forti. Ma trasfigurati come solo Marcello sapeva fare.

Torniamo così al rosa di Bandiera rossa al Forte Inglese. Marcello D’Arco lascia da parte come non necessario il giallo paglierino. Smorza anche il rosso dei tetti. Concede tutto il peso della rappresentazione al rosa delle facciate.
Accompagna il rosa con tutti i toni del blu, del cobalto, dell’azzurro e del celeste – i colori del mare e del cielo. E poi i toni del colore delle fortezze nelle diverse ore della giornata: bruno, marrone, grigio.
Ritroveremo questi colori in tutti i dipinti successive. Quadri più luminosi, gioiosi, quasi sempre, e anche di più facile lettura.
Ma credo che Bandiera rossa al Forte Inglese resti lo snodo dell’intera opera. Compendio estremo e prefigurazione delle opere future.
Qui i colori sono esposti come un programma, come in una tavolozza.
Guardiamo: azzurro che trascolora nel grigio, celeste che chiama a contrappeso il rosa, rosa che sfuma nell’azzurro che sfuma verso il grigio, come il rosa delle case volte verso il mare, rosa stinto sui muri esposti all’umidità e alla salsedine.
Un freddo blu cobalto da un lato, una colata di blu intenso e luminosa messa lì come strato materico sovrapposto, quasi ripensamento, aggiunta o provvisoria notazione.
Tutti i toni del marrone, i bruni, i toni scuri, il grigio, a dirci della fortificazione che resiste stabile al trascorrere del tempo.
E il rosa che occupa la scena, che chiarisce il senso della narrazione.
E infine tutto converge verso il rosso della bandiera.

C’è il colore, e c’è il disegno.
In Bandiera rossa al Forte Inglese, molto più che in opere precedenti e successive, mi sembra D’Arco lasci evidente il disegno. E cioè lasci traccia evidente, di per sé parlante, del processo creativo, processo che di solito, anche involontariamente, gli artisti tendono a occultare nell’opera destinata al pubblico. Così fa di solito anche il pittore Marcello D’Arco: occultare con strati superiori di pittura, con rifiniture, la trama del disegno.
Qui è tutto lasciato alla vista. Segni netti tracciati con una riga separano le campiture di colore. Quasi come ritagli messi insieme di un papier collé.
Nella sua apparente provvisorietà, ben più che in altre opere, resta così intellegibile, anche sul piatto della tavola, la previa, retrostante complessa comprensione – rete multidimensionale di punti – dello stato del mondo ritratto, ricondotto a sintesi nell’opera.
Mi sento in debito, come credo sempre accada con gli amici scomparsi, di conversazioni mancate.
Una riguarda proprio il dibattito tra supremazia del disegno sul colore o del colore sul disegno.
Non ho mai provato a parlare con Marcello di Ingres, del suo intendere il disegno come indispensabile mezzo per progettare l’espressione, le forme, il piano. Avrei voluto parlare con Marcello – Marcello non era particolarmente propenso al plen air, lavorava nel suo studio – di come gli impressionisti rimossero quel disegno che Ingres considerava indispensabile.
Avrei voluto parlare di più con Marcello a proposito di cubisti ed espressionisti. E del senso misterioso che sta dietro la scelta di diversi pittori – Marcello D’Arco compreso – che scelgono di mostrare sulla tela la finestra, con le imposte semiaperte, che si affaccia sulla scena ideale che l’artista ama osservare.
E avrei voluto chiedergli di Kokoschka, della sua trasfigurazione della prospettiva. Perché anche Marcello D’Arco trasfigurava la prospettiva. Anche se le pennellate e i segni rettilinei e angolari, gli spigoli netti di Marcello appaiono lontanissime dalle pennellate arricciate, ondulanti di Kokoschka.
Marcello partiva sempre, credo, dal disegno – ma non gliel’ho mai chiesto con la giusta precisione. Un disegno sicuramente memore delle tavole disegnate, quasi mezzo secolo fa, dai progettisti dei Forti: Giovan Battista Belluzzi detto il Sanmarino, Giovanni Camerini, Bernardo Buontalenti.
Di questo sì abbiamo parlato e anche scritto qualcosa insieme: si può osservare la contiguità storica, progettuale, e anche puramente estetica tra le fortificazioni portoferraiesi e quelle dell’Avana, di Vera Cruz, di Cartagena, di Cumaná, e di altri luoghi ispanoamericani che mi è capitato di visitare. Tutte fortificazioni progettate da una stessa scuola di architetti romagnoli. Ma forse neanche di questo abbiamo parlato abbastanza. E in ogni caso ho mancato di chiedergli qualcosa di più sul legame tra questi progetti e i suoi disegni. Anche se ricordo di averlo visto disegnare a penna, con tratti sicuri e veloci, una certa angolatura del Forte Falcone.

Resto suo debitore di una certa citazione del Pindemonte che mi aveva chiesto di trovargli, e che non gli ho mai trovato. E mancano le conversazioni al riguardo di una Portoferraio possibile, di una isola d’Elba possibile, viva non solo d’estate come spettacolo per visitatori distratti.
E qui non posso fare a meno di ricordare la parallela vita del Marcello D’Arco non solo giornalista, ma direi storico, narratore, attento alle vicende delle grandi stagioni gloriose medicee e napoleoniche, ma attento anche alla storia minuta, al ricordo di personaggi eccentrici, e al passaggio, non del tutto felice, dalla Portoferraio di anteguerra, centro industriale sede delle acciaierie Ilva, alla Portoferraio di oggi, vocata al turismo stagionale.
Mi mancano le chiacchiere e i pettegolezzi, i caustici giudizi su lobby dominanti e anche le speranze che – dietro l’arguzia, il gusto per la satira – nonostante tutto si rinnovavano alla nomina di ogni nuovo sindaco.
Resto suo debitore di una certa citazione del Pindemonte che mi aveva chiesto di trovargli, e che non gli ho mai trovato. E mancano le conversazioni al riguardo di una Portoferraio possibile, di una isola d’Elba possibile, viva non solo d’estate come spettacolo per visitatori distratti.
E qui non posso fare a meno di ricordare la parallela vita del Marcello D’Arco non solo giornalista, ma direi storico, narratore, attento alle vicende delle grandi stagioni gloriose medicee e napoleoniche, ma attento anche alla storia minuta, al ricordo di personaggi eccentrici, e al passaggio, non del tutto felice, dalla Portoferraio di anteguerra, centro industriale sede delle acciaierie Ilva, alla Portoferraio di oggi, vocata al turismo stagionale.
Mi mancano le chiacchiere e i pettegolezzi, i caustici giudizi su lobby dominanti e anche le speranze che – dietro l’arguzia, il gusto per la satira – nonostante tutto si rinnovavano alla nomina di ogni nuovo sindaco.


La sua opera non poteva che nascere dentro Portoferraio. Dal suo studio al Forte Inglese – studio che gli fu dolorosamente sottratto – poteva osservare da un angolo strano la città, mentre vi era comunque immerso: le mura del Forte, le stesse pareti del suo studio, facevano parte del mondo che narrava e tramandava dipingendo. Era, naturalmente, anche un viaggio nella memoria personale. Muri, volumi architettonici, cielo e mare: credo che dipingere così, scene senza persone, fosse anche un modo per mantenere pulita la memoria, l’Argòos limèn dove sbarcarono gli Argonauti di Giasone, l’insediamento etrusco, la Fabricia romana, la Ferraia medievale, ma soprattutto, per Marcello, la città rifondata da Cosimo de’ Medici nel 1458. La Portoferraio di Marcello D’Arco è sempre anche Cosmopoli: allo stesso tempo celebrazione di Cosimo, e prototipo della città ideale totalmente progettata come simbolico luogo rinascimentale di benessere – il cosmo: ordine, armonia, bellezza, opposto al caos della materia informe, dell’insensatezza sociale e politica.
In questo senso, viviamo tutti a Portoferraio, e l’opera di Marcello D’Arco parla a tutti noi. Ci parla di un luogo dove stare in pace, in sintonia con se stessi. Così stava Marcello nel suo studio, a pensare, a leggere e a scrivere, e a tentare nuove forme con matite e pennelli – e talvolta con legni, quasi al modo di uno scultore. Forme portoferraiesi e potrei dire ‘cosmopolitane’, ricerche di un ordine antico e senza tempo nel disordine di oggi, salvaguardia nel ricordo di forme pure, conservate pulite nella memoria, al di là del decadimento dettato dal tempo e anche purtroppo causato dalla trascuratezza e dal degrado urbano. E del chiasso turistico estivo – che Marcello esemplarmente riassumeva nel muoversi incongruo, in quelle strade antiche, del falso trenino carico di visitatori stranieri e distratti.
Marcello D’Arco conserva per noi la forma immacolata della città. Semplificazione estrema della geometria, spoglia di ogni barocchismo; abissale apertura sulla complessità: angoli infiniti, invisibili cisterne sotterranee sopra le quali si eleva possanza delle fortificazioni immerse nel verde, armoniosamente emergenti dai rilievi delle colline che si affacciano sul mare: tutto questo narrato con il minimo possibile dei segni.
E Marcello conserva allo stesso tempo, tramite la sua pittura – ci interessi o no, sappiamo vederla o no – la forma immacolata del suo essere, la sua storia personale ripulita di ogni bruttura, quella storia che per vaghi accenni mi raccontava in quel pomeriggio alle Prade.

Così, Bandiera rossa al Forte Inglese assume il valore emblematico della sintesi. Il titolo, di per sé paradossale e ironico ricordo di giovanile impegno politico che sogna l’impossibile, le campiture piatte stese sul supporto, i colori essenziali della città: il blu, i toni del bruno, il grigio, lo spazio lasciato al rosa: sul quale, meglio che su qualsiasi altro sfondo, può stagliarsi il rosso della bandiera.
In Bandiera rossa al Forte Inglese Marcello dipinge il luogo dove sta bene, il luogo dove sta ora mentre dipinge. È un autoritratto. È una meta-opera. Per questo, nelle intenzioni, il quadro che non poteva essere né venduto né regalato.
Ospitando da tanti anni l’opera in casa mia, non posso fare a meno di contraccambiare, ricordando Marcello con queste parole, scomparso l’anno scorso.
