Ci sono due tipi di etologi: quelli da laboratorio e quelli che lavorano sul campo. Posti di fronte al problema della comunicazione negli animali non umani i primi lo hanno affrontato tentando di insegnare ad alcune scimmie antropoidi a comunicare con linguaggi affini a quello umano; i secondi, più proficuamente, si sono invece preoccupati di capire come gli animali sociali comunicano fra di loro. E si sono trovati di fronte a un mondo tanto ricco e complesso quanto sconosciuto. Nel bel libro di Carl Safina Al di là delle parole, dedicato a queste esplorazioni oltre l’umano, ricorre spesso una frase: «non lo sappiamo», a ribadire quanto di ignoto ci sia nelle menti non umane in generale, e in particolare nel poliverso dei linguaggi non verbali che esse hanno sviluppato. Un poliverso così pervasivo da esser rimasto radicato perfino in quell’unica specie animale che negli ultimi millenni se ne è staccata concentrando l’idea di comunicazione su una forma fortemente simbolica quale è il linguaggio verbale, tanto da considerarlo troppo spesso sinonimo di linguaggio in quanto tale. Solo nel XX secolo, e con la crescita delle comunicazioni di massa, altre forme di comunicazione sono riemerse dal profondo della memoria, quella visiva innanzi tutto. Forme più dirette, perché non mediate da codici simbolici appresi culturalmente; forme tali da assumere sembianze insidiose quando a usarle è la pubblicità o la propaganda, ma anche stimolanti e profonde quando a usarle è un artista creativo, un insegnante oppure uno psicoterapeuta. Quest’ultimo è il caso che qui ci interessa, punto di arrivo di questa premessa e di partenza della nostra riflessione su una particolare forma di psicoterapia basata su una modalità di interazione che prescinde, appunto, dal linguaggio verbale. A essa, e alla figura della psicoterapeuta Eva Pattis Zoja che ne è l’ideatrice, è dedicato il film documentario di Andrea Deaglio Un milione di granelli di sabbia, che esploreremo ora insieme all’autore.
Filippo Schillaci – A prima vista si direbbe un gioco per bambini, e anche se fosse solo questo già non sarebbe cosa da poco perché sappiamo bene quanto di importante e creativo per i bambini ci sia nel gioco1. Ma è anche qualcosa di ulteriore. Descriviamolo, innanzi tutto: c’è una cassetta in cui è disposto uno strato di sabbia, e ci sono dei pupazzetti, dei modellini di automezzi, di oggetti domestici e di ogni altro genere che il bambino organizza sulla sabbia in modo da creare delle scene, come farebbe se stesse giocando con la classica casa delle bambole. E forse il sandwork espressivo (così è stato chiamato) è anche questo, è anche un gioco, ma è soprattutto qualcosa che, attraverso le mentite spoglie del gioco, mira a toccare corde interiori più profonde e sofferte. Stiamo parlando infatti di una forma di psicoterapia elaborata pensando a bambini reduci da esperienze fortemente traumatiche, tali da lasciare in loro uno stato di persistente disagio sociale che si manifesta fra l’altro nel negarsi al mondo delle parole. È un modo per aggirare questa negazione, per superare questa barriera aprendo una via che consenta loro di esprimersi altrimenti, quindi attraverso figure, attraverso immagini. Prima di approfondire questo discorso però vorrei andare un momento a monte del film e chiederti com’è che sei arrivato a questo tema, come hai conosciuto la dottoressa Pattis e quindi cosa ti ha portato a questo film.

Andrea Deaglio – Mi ha portato a conoscere la dottoressa Pattis e la terapia della sabbia la storia degli yazidi, una popolazione che nell’agosto del 2014 è stata vittima di un genocidio, nel nord dell’Iraq, da parte dell’ISIS, e della quale in Italia sapevamo sostanzialmente poco o nulla; io stesso ho sentito nominare gli yazidi per la prima volta in quella occasione. Le donne yazide sono state imprigionate dai miliziani dell’ISIS e rese schiave insieme ai loro figli e alle loro figlie. Quando poi i miliziani si sono ritirati hanno lasciato sul campo migliaia di donne e bambini completamente traumatizzati. È così che ho incontrato e conosciuto la dottoressa Pattis che con loro aveva avviato il programma di recupero basato appunto sulla terapia della sabbia, la quale consentiva di superare le difficoltà che una psicoterapia convenzionale, basata sulla comunicazione verbale, avrebbe presentato, innanzi tutto per via della barriera linguistica, che è il primo punto dove una terapia non verbale può essere efficace, ma soprattutto perché, come si poteva pensare di chiedere a queste persone di parlare di quanto era loro accaduto? Ecco, il sandwork espressivo nasce soprattutto dal constatare che di fronte a traumi così grandi il verbale non funziona.


F.S. – E da questo è nato il film, che poi hai esteso ad altri eventi: il terremoto che nel 2008 ha colpito la regione del Sichuan in Cina e la guerra in Ucraina. Allora, cerchiamo di entrare più in profondità dentro questo metodo. Io ho trascritto alcune frasi che mi sono sembrate importanti per la sua comprensione. A un certo punto la dottoressa Pattis dice: «il trauma psichico è come una frattura che impedisce ai sentimenti di emergere. Il trauma ostacola la capacità di raccontare. (…) Ascoltare, cogliere qualcosa di ancora sconosciuto». E poco dopo una sua collega tedesca, conversando con lei aggiunge: «Creare un’immagine, dar forma al mio mondo interiore: con le miniature posso creare il mio mondo. Qualcosa può uscire senza che io debba parlare o sentirmi sotto pressione. E forse entrare in contatto con l’indicibile.». In queste frasi ci sono due elementi che secondo me sono molto importanti, e che hanno un ruolo centrale nel tuo film. Intanto l’importanza, la profondità della comunicazione non verbale. Comunicare attraverso immagini, che poi in tutt’altro campo e dunque in tutt’altro modo, è quello che facciamo anche noi, perché il sandwork è qualcosa che funziona io credo un po’ nello stesso modo in cui funzionano cinema e fotografia; questi bambini creano delle messe in scena delle loro esperienze e allo stesso tempo cercano poi di superare queste esperienze creando delle messe in scena alternative, o meglio che vanno oltre, che sono delle vie di fuga, di uscita, sono altri mondi rispetto a quella esperienza traumatica da cui si parte. La seconda cosa importante, che dicono entrambe, è la possibilità di «cogliere qualcosa di ancora sconosciuto», «entrare in contatto con l’indicibile», cioè riuscire a cogliere il manifestarsi di qualcosa che le parole non riescono a esprimere ma che emerge attraverso questo linguaggio non verbale che a quanto pare riesce a entrare più in profondità nell’animo di queste persone. Dimmi se ho compreso bene il senso di questo lavoro che la dottoressa Pattis fa.




A.D. – Perfettamente direi. Per me l’immagine che spiega meglio di tutte questo concetto, e che mi ha convinto ad andare oltre gli yazidi e seguire la dottoressa Pattis nel suo lavoro, è quella della Barbie che lei mi fece vedere per spiegarmi come funzionava il suo metodo. In quel caso una bambina vittima di abusi sessuali aveva posizionato sulla sabbia una Barbie circondata da ragni e scorpioni, con un ragno addirittura addosso, e delle piccole bottiglie di liquore vicino. Una bambina è presente sulla scena ma girata di spalle, è dunque presente ma non vede, non può vedere. Si trattava di una bambina molto piccola, quindi priva degli strumenti razionali e verbali per entrare in contatto con qualcosa che lei non poteva neanche sapere cos’era, per capire che cosa le stava succedendo e dunque raccontarlo a parole, invece attraverso il sandwork ha potuto in qualche modo esprimerlo e questa era la dimostrazione di come questo strumento potesse funzionare.

F.S. – Poi sei andato ancora oltre perché in realtà in questo film racconti due storie parallele, quella della dottoressa Pattis è una, e poi anche quella di un’altra donna, Therese, che verso la fine scopriremo essere sua madre: Therese, che è stata giovane durante la seconda guerra mondiale e che ha perso il suo fidanzato in guerra. Queste due storie che scorrono parallele durante il film a un certo punto convergono quando Eva racconta di Therese a un’altra sua collega, ucraina, che in quel momento sta vivendo una storia molto simile perché anche lei ha il marito in guerra. E nelle parole finali udiamo poi Eva trarre il senso di questa storia e in qualche maniera rapportarla alla sua esperienza, sfociata nel sandwork. Ecco, parlami un po’ di questo parallelismo, di queste due storie che convergono, specchiandosi l’una nell’altra.

A.D. – La storia della mamma di Eva è venuta fuori quasi come un incidente di percorso perché è nata durante l’epidemia di COVID e il lockdown, che ci annullò un calendario di riprese presso comunità yazide a Norimberga, in Germania. Siamo così rimasti fermi a lungo, e questa è stata l’occasione per entrare in qualcosa di suo, di privato. Avevamo l’idea di coinvolgere in maniera più diretta e intima il personaggio del film, e la storia di Hermann e Thèrese è venuta fuori davvero grazie al film: Eva legge queste lettere per la prima volta durante le riprese. Lei infatti sapeva che sua madre aveva questa scatola che aveva portato con sé per tutta la vita, sapeva quale era il contenuto ma non c’era mai andata dentro, in profondità. È stato durante il film che ha avuto l’occasione, l’opportunità di farlo e così è venuta fuori questa vicenda che dà un po’ il senso del suo fare oggi questa attività. Lei dice a un certo punto: avevo questa madre con un dolore così grande, che era un silenzio, che era un’assenza, che era un peso e io avrei sempre voluto in qualche modo consolarla. E quindi dal desiderio di consolare sua madre nasce la sua attività di psicoterapeuta.
F.S. – Che dunque trae origine proprio dalla sua vita personale.
A.D. – Sì, diciamo che nella sua vita personale ha trovato la motivazione della sua scelta. Ed è una cosa che ricorre nelle storie di ognuno di noi, le vie che decidiamo di imboccare tante volte sono in risposta a un trauma che si è generato nella nostra infanzia e che finisce col governare in qualche modo la nostra vita determinando le nostre scelte in maniera inconscia.

F.S. – È ciò che lei esprime verso la fine quando dice: «Forse ora intravedo un filo fra tutte queste cose. Il trauma si trasmette di generazione in generazione e scrive la storia dell’umanità. Il dolore non espresso contagia gli altri e si riproduce come se avesse una vita autonoma. Il mio bisogno di comprendere, l’ossessione di rimediare mi hanno portata lontano. Quando in realtà era tutto qui, in questo luogo. In questa casa.»

A.D. – Esattamente. Io ero nuovo alla psicologia; non l’ho mai studiata né me ne sono mai interessato particolarmente, quindi per me tutto è stato una scoperta. E in particolare lo è stata questa idea molto forte, molto viva, molto importante che è appunto l’essere il dolore contagioso, la sua capacità di irradiarsi fino a pervadere il tessuto sociale. Il trauma bisogna in qualche modo guarirlo, ed è il motivo per cui noi nella nostra civiltà abbiamo una serie di rituali come ad esempio i funerali che servono a mettere un punto, a fare in modo che il dolore si fermi da qualche parte.
F.S. – Questo è un film in cui le parole hanno un ruolo descrittivo molto rilevante, nonostante parli di qualcosa che appartiene a tutt’altra modalità di espressione, però ci sono tre momenti in cui tu abbandoni le parole e ricorri al puro montaggio. Sono momenti in cui vediamo un rapido alternarsi di immagini del sandwork e fotografie della madre, in cui le due realtà si fondono; in particolare mi ha colpito la rapidità del secondo e del terzo di questi momenti in cui ciascuna immagine non è percepibile singolarmente, perde la sua individualità acquistando un significato ulteriore che le viene dalla relazione con l’insieme. Questi sono due momenti secondo me molto efficaci in cui realizzi un complemento, un completamento delle parole conclusive, che ho citato prima, della dottoressa Pattis, una rappresentazione o messa in scena filmica di esse attraverso la pura forma cinematografica.
A.D. – Sì, con Enrico Giovannone, il montatore, abbiamo deciso di lasciare spazio, in alcuni momenti, a questo rapido succedersi di immagini in cui l’alternarsi dei casi che Eva ha seguito e portato avanti attraverso i lavori fatti sulla sabbia, e delle immagini invece di sua madre e della storia di sua madre, ha fatto sì che entrambi diventassero in qualche modo delle immagini mentali.
Vorrei aggiungere che questo ci è stato possibile farlo perché abbiamo recuperato le fotografie degli anni Trenta e Quaranta della mamma di Eva. Erano in un album in perfette condizioni e hanno potuto essere scansionate e riportate in digitale grazie all’archivio della provincia di Bolzano. Insomma hanno funzionato molto bene; e ci hanno suscitato fra l’altro una riflessione. Oggi, ottanta anni dopo, e con tutti i progressi tecnologici, non saremmo in grado di conservare e gestire le nostre memorie in maniera così efficace. Le nostre foto oggi si confondono e perdono di valore e significato nei tanti scroll quotidiani. Come diceva Calvino: «Fotograferemo tutto e saremo incapaci di ricordare ciò che conta davvero.» Nel film invece abbiamo avuto a disposizione degli album con poche foto selezionate, e perfettamente integre e conservate. Nell’atto di aprire quegli album e sfogliare le pagine abbiamo avvertito le emozioni di cui erano impregnate. E abbiamo dato loro vita in un questo film.

F.S. – Infatti, questa labilità, questa perdita di significato dell’immagine oggi è uno dei molti modi in cui si esprime il fatto che siamo di fronte a una società divenuta ormai senza memoria, in cui si vive immersi in una sorta di eterno presente dove tutto ciò che accade un attimo prima è già trascorso e dimenticato. Il concetto stesso di memoria è cancellato, e questo è un punto cruciale perché concorre fortemente a determinare quell’atrofizzazione delle capacità critiche sul presente su cui si basa un certo tipo di società in cui il dominio, non poliziesco ma culturale, delle masse ha un ruolo centrale, ma questo ci porterebbe un po’ lontani dal tuo film. Il discorso sulla cancellazione collettiva della memoria però mi pare pertinente, perché mi sembra che il sandwork vada in una direzione diametralmente opposta, mirando soprattutto non a cancellare il ricordo degli eventi traumatici ma a fare proprio di esso un elemento terapeutico. Eva Pattis a un certo punto si domanda se si fa davvero del bene a questi bambini spingendoli a rievocare degli eventi che hanno portato in loro un’intensa sofferenza, ma mi sembra che l’intero percorso del film stia lì a rispondere affermativamente.
A.D. – Lo credo anch’io. E il film stesso va in questa direzione avendo l’intento di dare una traccia, una testimonianza di questo lavoro, o un piccolo insegnamento se vogliamo su cos’è l’esperienza del trauma, di cui io stesso non avevo conoscenza. Mentre sappiamo bene quanto da che esiste la storia umana sia un tema di attualità sopravvivere a guerre, genocidi, catastrofi climatiche, ma anche violenze quotidiane. Io spero che questo film ci dica fino a che punto questo genere di esperienze ci accomunino tutti, compresi i terapeuti, e che metta un po’ un riflettore su quella che è la nostra capacità di generare immagini, non di subirle, quelle che sono le immagini interiori voglio dire, che spesso non tiriamo fuori, che rimangono dentro ma possono aiutarci molto a guarirci e a sopravvivere.
Il trailer del film Un milione di granelli di sabbia, regia di Andrea Deaglio, 2024
IL FILM
Un milione di granelli di sabbia
Scritto da: Andrea Deaglio e Stefano Zoja
Regia: Andrea Deaglio
Fotografia: Stefania Bona
Montaggio: Enrico Giovannone
Fonici di presa diretta: Niccolò Bosio, Giovanni Corona
Produzione: Malfè film 2024
NOTE
1 Rimanendo nei confini del cinema, segnalo a questo proposito il cortometraggio Lo zebù e la stella (2007) di Franco e Mario Piavoli.



