Le porgo la cartolina perché possa scrivermi il suo indirizzo mail. È capovolta, lei lo scrive nel senso contrario al breve testo che è stampato sopra e che descrive il concept della sua mostra Lo spazio tra le cose. La calligrafia è minuta e ordinata, scrive in maiuscolo, come fosse abituata alla chiarezza. Sono stata io a porgerla al contrario, perché potesse scrivere in uno spazio sufficientemente ampio. Ho individuato “visivamente” quello spazio come necessario per quanto le chiedevo, ma lei ne ha utilizzato un frammento minuscolo quasi fosse importante rendere evidente la necessità di aderire a una superficie piuttosto che sfruttarla.
Questo piccolo gesto unito all’approccio timido e in qualche modo consapevole di voler accettare la mia richiesta come una possibilità di relazione sul lavoro esposto mi ha fatto immediatamente comprendere come Francesca Torzo stesse esattamente lì, in quello spazio che stava mostrando attraverso le sue immagini, in una posizione precisa. Lì e non altrove. Essere presenti a se stessi è già una condizione poco comune: occorre una coerenza e una integrità che non significa porsi al centro, ma in uno spazio contiguo, in una fessura, in un colore. Aderire insomma.
«Non si tratta di una ricerca fotografica», tiene a precisare Cecé Casile, presso la cui bottega milanese Francesca Torzo espone questa sua personale, è più una condizione esistenziale, capisco io, che si manifesta nei dettagli ravvicinati del visivo cercando una collocazione. Essere affascinati dal segno che si sviluppa nell’oggetto dell’osservazione significa provare meraviglia, affidarsi alla meraviglia con disincanto. Le opere di Francesca Torzo esposte in questa mostra non solo esprimono tale meraviglia, si riconoscono in essa aiutate altresì dalla sapiente disposizione nell’ambiente che le ospita, così ben “architettata”, che lascia il giusto spazio tra l’una e l’altra in modo che le si possa godere, che si possa godere della loro bellezza.

Lo spazio tra le cose non è soltanto quello fisico, ovviamente, per noi che guardiamo rappresenta un vuoto in cui sostare per ricordare e al tempo stesso meditare ciò che si è appena vissuto, in cui assaporare l’attimo affinché non fugga via ma rimanga, testimone di un esserci. E non è un caso che sempre Cecé Casile mi racconti di un altro gesto, il suo, teso a mantenere evidente questa testimonianza: la fatica – anche fisica – del tendere il lino della stampa su un telaio tanto discreto quanto necessariamente forte, il gesto consapevole nell’usare come fondo per alcune delle opere una particolare carta ricavata da delle cartelline progettate da AG Fronzoni e a lui appartenute – Fronzoni, designer superlativo, entra così in dialogo con il progetto di un altro designer e architetto, Fronzoni per il quale l’atto di progettare oggetti equivaleva all’atto di progettare la vita, con rigore e con forza, ma anche con l’idea di ospitare una memoria che diventa lascito – e il gesto “faticoso” di trovare l’equilibrio di cui alcune opere bilaterali necessitano per reggersi in autonomia mostrando fragilità e forza al contempo.

Lo spazio tra le cose diventa così una manifestazione corale di coerenza davvero rara da trovare negli ambiti artistici contemporanei.
«La mostra nasce dall’amicizia tra un maestro corniciaio, un filosofo e un architetto» chiosa il breve testo sul cartoncino. Curioso che non si usi il termine artista o che non si faccia cenno a una qualche forma d’arte in sé, pensiero sempre più astratto per non dire inconsistente e a volte irriverente. Si parla sottotraccia, ma nemmeno troppo, con chi è venuto a vedere un altro modo di concepire il lavoro che sta dietro un’opera, dove si definisce opera il “manufatto” scaturito da un profondo sentire comune a tre espressioni di pensiero che si incontrano naturalmente in quegli spazi lasciati tra le cose, aderendovi ognuno a suo modo, ma in ascolto l’uno dell’altro. «Abbracciare» è la parola che mi son sentita dire: «abbracciare il progetto», una condizione che definisce una modalità dedita a una forma di ascolto e a una necessità.

Vorrei chiedere a Francesca Torzo qual è stata la sua necessità quando ha pensato a queste immagini, se sono scaturite da un bisogno e perché. È sempre affascinante scoprirlo anche se il mistero che le circonda è forse ancora più affascinate nella sua sospensione di interpretazione.
Vorrei chiederle anche di raccontare come è nato il video realizzato nel 2018 in occasione della Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia sul concetto di spazio libero e di memoria dei luoghi, dal titolo Words fail me, in cui si prende spunto da un intervento della scrittrice inglese Virginia Woolf andato in onda il 27 aprile 1937 durante una trasmissione radiofonica della BBC.
16. Mostra Internazionale di Architettura
FREESPACE 26 maggio – 25 novembre 2018 – La Biennale di Venezia. Tutti i diritti riservati
Ma la mia domanda resta senza risposta e forse è così che deve essere. Non è facile trovare le parole per esprimere al meglio il senso di uno spazio che non è soltanto o non necessariamente da riempire, qualunque spazio è già di per sé carico di associazioni che scaturiscono naturalmente da echi, ricordi, memorie. Uno spazio vive inevitabilmente una vita propria seppure chi lo abita o lo attraversa tenti di renderlo personale. Gli anni, a volte i secoli, convivono proprio lì, tra le cose che si depositano dai vissuti passati, assorbono quelle del presente continuando a custodirle strato dopo strato. Non si possono classificare, appartengono a se stessi nonostante noi. Sono “liberi”.
Nella libertà che traspare dalle immagini che Francesca Torzo mostra nel video si possono trovare echi di un altro video, il cortometraggio di Chantal Akermann, La chambre, del 1972 in cui la regista belga mostra uno spazio pieno nel quale tuttavia sono percepibili non soltanto visivamente altri spazi “vuoti” che appaiono, sempre più nitidi, man mano che la cinepresa compie il suo giro ricognitivo.

La chambre riprende la stessa Akerman e, attraverso una rotazione della cinepresa, mostra lo spazio in subaffitto in cui vive a New York nei primi anni Settanta. In un perfetto stile realistico, senza alcun supporto né verbale né sonoro, la regista pone lo spettatore nel mezzo delle cose. La realtà viva della stanza si fa memoria dello spazio da lei abitato in quel momento, ma che – come dice Francesca Torzo nel suo paraphrasing Virginia Woolf for freespace – è già vissuto sulle labbra e nella mente di altri che hanno voluto vederla.
LA MOSTRA
Lo spazio tra le cose, di Francesca Torzo
bottega cecé casile, via Solari 23 – Milano
Fino al 30 giugno