Qual è l’impatto delle narrazioni audiovisive sul mondo della formazione, in particolare quella rivolta al lavoro intellettuale, tralasciando quindi tutto ciò che invece appartiene alla sfera tecnica? Una formazione che ruota intorno a concetti come i valori aziendali, i modelli di comportamento, le competenze, in una parola alla “immaterialità”. È noto, ed è già stato oggetto di contributi teorici, anche sotto forma di manuale, come, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, sia stato in particolare il cinema a essere saccheggiato nelle aule della formazione, a partire dalla diffusione delle videocassette e successivamente dei DVD, grazie alla facilità di reperibilità dei materiali e a una certa disinvoltura nelle modalità di fruizione. L’avvento di internet, delle piattaforme e dello streaming ha reso il tutto apparentemente ancora più facile e la disinvoltura si è ben presto trasformata in bulimia audiovisiva. Il fenomeno di cui vorrei parlare però è quello dell’esplosione delle serie TV come ultima frontiera della massmedialità, e come nuova espressione della contemporaneità. Si sostiene da più parti che il cinema in sala sia destinato a diventare un prodotto di nicchia o, tutt’al più, un innesco per la costruzione di prodotti seriali da diffondere in rete. La domanda da cui partire quindi è: rispetto al cinema, l’uso delle serie TV, soprattutto quelle recenti, per la formazione manageriale, cosa aggiunge, sottrae o modifica rispetto al lavoro del formatore? Per rispondere è necessario capire, almeno sommariamente, le differenze tra i due prodotti culturali, sia in termini di produzione che di fruizione.
Se esaminiamo ogni prodotto audiovisivo, prima di ogni altra differenziazione, notiamo che il processo che porta alla sua realizzazione si compone di varie parti, ognuna delle quali è indispensabile e da ognuna delle quali dipende la riuscita o meno, in termini di qualità, del prodotto finito. Ci sarà quindi l’ideazione, che può essere anche dovuta a un singolo, la progettazione e la produzione – normalmente entrambe coinvolgono più persone –, la distribuzione e la fruizione. Negli anni d’oro del cinema, per entrare in un caso specifico, questi ultimi due aspetti erano relativamente semplici da gestire; la distribuzione era riservata alla sala cinematografica e l’audience a cui rivolgersi non era un oggetto particolare di studio, se non in termini quantitativi. Sempre in quel periodo, l’ampiezza del fenomeno, fatto da migliaia di sale e centinaia di milioni di biglietti venduti ogni anno, non erano fattori rilevanti in termini storico-critici e lo spettatore cinematografico era perlopiù considerato un ricettore passivo, indistinto e massificato. Il proliferare di mezzi di diffusione dei prodotti audiovisivi, dalla televisione ai cellulari di ultima generazione, ha modificato violentemente il quadro e, in particolare, come scrivono N. Dusi e G. Grignaffini in Capire le serie TV (Carocci, 2020): «Negli ultimi decenni, l’analisi ha messo sempre più al centro dell’attenzione i modi in cui il testo agisce sullo spettatore, costruendo un’esperienza di visione oppure innescando una serie di processi interpretativi, cognitivi e passionali». Si è passati quindi, per usare una locuzione che ha fatto scuola, «dall’invariante testuale al concetto di semiosfera» (J. Lotman) e si è compreso come i prodotti culturali, di cui gli audiovisivi sono ormai la parte preponderante, siano oggetti vivi, dinamici, dialogici e in costante relazione con la parte ricevente. Questa relazione, a dispetto del fatto che gli oggetti che la provocano, siano fittizi, inventati o irreali, è assolutamente reale, e impegna la parte emotiva del ricevente non meno di quella razionale. Pertanto, riprendendo la suddivisione del processo di produzione degli audiovisivi di cui abbiamo accennato sopra, la cura degli aspetti distributivi e l’analisi dell’audience a cui rivolgersi sono diventate di cruciale importanza. In particolare, la distribuzione è passata da una modalità di ricezione passiva a una in cui è lo spettatore a creare il proprio palinsesto e a considerare i mezzi come dispositivi “ubbidienti” a ogni sua necessità.
È il trionfo del cosiddetto “on demand”, una logica di fruizione a cui tutti si sono pian piano adeguati e che modifica l’atteggiamento di fondo, non più votato alla scoperta, alla sorpresa e all’inedito ma, anche grazie all’implacabile input dei famigerati algoritmi, alla soddisfazione immediata. Dove per “immediata” si intende anche l’esigenza di catturare subito l’attenzione dello spettatore, sapendo che spesso tutto si gioca nei primi minuti di visione. Da questo punto di vista, è chiaro che mentre nei film spesso è la fine che produce senso, anche retrospettivamente, le serie sono definite dall’inizio. Nella fruizione domestica, o comunque individuale, la tentazione di abbandonare ciò che si sta guardando e sbirciare altrove è troppo forte e, data la facilità con cui si può “cambiare canale”, guai se lo spettatore comincia a sospettare che in questo “altrove” ci sia qualcosa di meglio. In effetti, se si analizza il modo in cui sono costruite, le serie rispondono più a una logica da videogioco (non a caso, alcuni del player mondiali vengono proprio da quel mondo) dove spesso l’importante non è vincere ma continuare a giocare. Da questo punto di vista, ben diverso è l’atteggiamento di chi, di fronte alla scarsa presa di un film, dovrebbe rassegnarsi ad abbandonare la sala cinematografica e non semplicemente premere un tasto del cellulare o del telecomando. Tornando alla domanda iniziale circa l’impatto delle narrazioni audiovisive sul mondo della formazione manageriale, un altro aspetto cruciale da considerare è se gli schemi adottati in passato (cfr. Schermi di formazione e Nuovi schermi di formazione, Guerini e associati, 2000/2007) alla luce di questi mutamenti, siano applicabili senza rilevanti variazioni, o se non sia invece necessario modificarli e in che modo. Si potrebbe per esempio sostenere che, in fondo, la scelta di un brano, di una scena o di uno spezzone all’interno di una serie o all’interno di un film, per così dire, tradizionale, non tenga conto della profonda differenza tra i due tipi di dispositivi mediali. Oppure ci si potrebbe chiedere in cosa consista la novità dell’uso delle serie nella formazione manageriale, se quello che si cerca è, come sempre e come prima, l’isolamento di una parte del tutto e, quindi, che questa parte sia tolta da un testo audiovisivo che dura due ore o da una serie che va avanti da molte stagioni ed è costituita da ore e ore di narrazione, non comporti nessuna differenza sostanziale. L’ipotesi da cui invece si dovrebbe partire è che le serie attuali vanno maneggiate in modo diverso e che ai fini del loro utilizzo in ambito formativo sia necessario cambiare lo schema. La domanda è: come? Per rispondere è forse utile iniziare ripercorrendo, sia pure per sommi capi, la storia della serialità televisiva.
La fase iniziale di questo tipo di prodotto vede una certa stabilità di offerta che va dagli anni Cinquanta agli anni Novanta e che coincide con la TV generalista. In termini di durata, i cosiddetti “telefilm” passano dall’one hour drama, generalmente drammatico, all’half an hour drama, spesso di carattere più comedy. Queste ultime serie sono chiamate anche sitcom o soap e sono completamente funzionali ai palinsesti televisivi. Sono episodi in genere autoconclusivi e quindi molto diversi da quelli delle serie attuali. Tanto che oggi si distingue, appunto, tra serie e serial: la serie ha confini, il serial non è detto che li abbia. Questo panorama tutto sommato rassicurante, comincia a modificarsi a partire dagli anni Settanta e nel tempo subisce profondi cambiamenti. E, come accade quasi sempre, le svolte hanno più cause. Alcune sono di tipo tecnologico (come fu per la comparsa dei VHS e dei DVD) ma in questo caso una decisiva spinta all’evoluzione fu dovuta alla nascita delle PAY TV nel mercato americano. Le prime TV via cavo statunitensi arrivano appunto già negli anni Settanta, (quella che oggi è considerata tra le più innovative, la casa di produzione HBO, nasce nel 1972) e hanno come caratteristica quella di non essere legate alla pubblicità e quindi all’audience, ma agli abbonamenti. Ciò che consente loro maggiore libertà creativa e propensione alla sperimentazione. Tra gli effetti più significativi di questa rivoluzione ci sono per esempio l’ibridazione fra generi – vedi la serie Dr. House nella quale troviamo insieme il cosiddetto hospital drama e il giallo –, e il loro ampliamento (detto anche intermedialità, cioè l’insieme di fumetto, cinema, letteratura…).
L’innalzamento qualitativo, dovuto alla concorrenza fra le piattaforme, porta con sé l’autorialità (secondo alcuni, inaugurata da David Lynch nel 1990 con I segreti di Twin Peaks) e la nascita di figure prima inesistenti come lo showrunner, un misto tra sceneggiatore, produttore e regista. I loro nomi diventano famigliari e i vari Vince Gilligan (X Files, Breaking Bad), Matthew Weiner ( Mad Men ), J.J. Abrams (Lost), Nic Pizzolatto (True Detective), sono garanzia di qualità e di successo. Queste produzioni “autoriali” abbandonano anche alcune caratteristiche tipiche delle serie TV classiche come la predilezione per i primi piani e l’abbondanza di dialoghi per introdurre elementi cinematografici come i campi lunghi e i silenzi (vedi per esempio le analogie tra Breaking Bad e il cinema di Sergio Leone). Ciò in parte è dovuto all’aumento delle dimensioni degli schermi TV e alla qualità della resa sonora, ormai in grado di replicare le condizioni della sala cinematografica, ma non si tratta evidentemente solo di migliorie tecnologiche ma di un vero e proprio salto di qualità che consente al fruitore domestico di non sentirsi sminuito nel guardare le serie; emergono, in tal modo, tutte le condizioni per la creazione di un mercato che fonde consumo di massa e consumo di nicchia. Nasce un nuovo tipo di spettatore, dotato di un sapere interpretativo e tecnico delle serie come forme narrative con proprie caratteristiche. Uno spettatore, e di conseguenza un pubblico, che è contemporaneamente globalizzato e segmentato, che gode di storie locali e universali allo stesso tempo.
Questa compresenza di aspetti tra loro apparentemente contraddittori è un’altra caratteristica peculiare delle serie che sono spesso costruire con un sapiente mix tra varianti e ripetizioni e in cui, come è stato scritto altrove, «gli spettatori oscillano tra la frustrazione del desiderio di sapere cosa accadrà e l’esperienza di una narrazione che si espande oltre i singoli episodi» (N. Dusi/G. Grignaffini, Capire le serie TV). Anche il modo in cui vengono definite dalla critica, riflette una difficoltà di tracciare dei confini netti tra le loro caratteristiche, dove si parla disinvoltamente (o confusamente?) di crossmedialità, transmedialità, intermedialità. O, ancora, di “ecosistemi mediali seriali”, “Complex TV”, “Oggetti abnormi”, fino alla definizione più controversa che riprende un concetto reso celebre dal filosofo inglese Timothy Morton nel suo libro Iperoggetti (Produzioni Nero, 2018). Secondo questa tesi, il mondo delle serie televisive sarebbe, appunto, un iperoggetto, qualcosa cioè di inafferrabile, sconfinato, impensabile. Paragonabile a cose come il cambiamento climatico, o la pandemia causata dal Covid-19. Oggetti nei quali la pluralità di forme, le enormi dimensioni spaziali e temporali li rendono non direttamente o completamente esperibili. Non a caso, il sentimento che si prova di fronte alla vastità dell’offerta, è di totale spaesamento. E tutto ciò a dispetto del fatto che, in realtà, a ben guardare, sia difficile trovare nelle serie delle idee nuove, ma piuttosto un incessante lavoro di ibridazioni, riletture, rifacimenti. Si parla quindi di storyworld, un mondo, cioè, creato dalle serie, come se la loro ambizione (inconsapevole?) fosse quella di eliminare il confine tra realtà e rappresentazione, tra mappa e territorio. Non si può a questo punto, in conclusione, non ricordare ciò che scriveva un filosofo attento ai fenomeni estetici come Nelson Goodman nel lontano 1978 nel suo Ways of Worldmaking (non a caso l’edizione italiana era intitolata Vedere e costruire il mondo), dove teorizzava le modalità con cui noi umani costruiamo collettivamente gli spazi in cui abitare tramite le nostre pratiche simboliche.