Il nostro mondo adorato e vitale, così generoso nella sua abbondanza di corpi e intelligenze, è in rovina. Abitare la catastrofe ci impone di formulare nuove domande per ripensare l’amore e la pratica artistica in un’epoca di estinzioni. In Wild Dog Dreaming, Deborah Bird Rose1 pone delle formulazioni iniziali: chi siamo come specie? Come ci inseriamo nel sistema terrestre? Quale etica ci chiama? Come trovare una strada verso nuove storie che ci guidino in un periodo di profondo cambiamento? Rifiutando radicalmente l’immagine dell’artista come genio solitario, monade nei suoi atti di creazione, le pratiche artistiche possono fornire un punto di osservazione e sperimentazione fertile per reimmaginare (ed esercitare) il nostro modo di abitare, favorendo pratiche relazionali, collaborative e responsabili. Figlia della rivoluzione industriale, la fotografia affonda le sue radici nelle pratiche di estrazione, colonizzazione, inquinamento e sfruttamento delle risorse che caratterizzano lo sviluppo delle società Occidentali. Dal cadmio all’argento, dalla gelatina estratta dai corpi dei defunti alle plastiche create dai combustibili fossili, tracciare la materialità della fotografia significa tracciare una storia di rovina ambientale.

Eppure esiste un movimento nella fotografia che si dedica alla creazione di immagini ecologiche tramite la coltivazione di conoscenze a metà strada tra la scienza e l’arte, in cui piante, batteri, terra e altre forme di vita più-che-umane diventano collaboratrici nel processo creativo. Questo movimento non solo si concentra sulla sensibilità alla luce delle emulsioni vegetali, che sono di natura analogica, ma sta cambiando profondamente l’idea stessa di fotografia, non più intesa solamente come un mezzo per documentare la realtà tramite una sua copia fotorealistica, ma come uno strumento per registrare e contestualizzare l’ambiente in modi in cui la fotografia tradizionale fallisce. La filosofa dell’ambiente Freya Mathews descrive due caratteristiche principali della vita terrestre: il desiderio del proprio divenire (connatus) e il desiderio di connettività (orexis). Il desiderio di connettività è un’affermazione di un fatto ecologico, ovvero che gli organismi e l’ambiente si compenetrano a vicenda, sono reciprocamente costitutivi e quindi reciprocamente necessari al sostegno della vita. Il desiderio coinvolge quindi sia eros sia etica; se l’eros è il desiderio verso l’Altro, l’etica ci chiede di prestare attenzione agli atti di co-creazione che nascono dall’incontro con l’Altro, e che facilitano la capacità di convivenza multispecie a lungo termine. La formulazione di un’immagine eco-etica si fonda su questi presupposti.

Il mio interesse verso le pratiche a basso impatto è nato negli ultimi cinque anni in seguito allo sviluppo di All things laid dormant (2020-2025), un corpo di lavoro che si interroga sul nostro rapporto con il vivente non-umano in tempi di estinzioni. Il lavoro si affida alle ambiguità del mezzo fotografico, che allo stesso tempo agevola e ostacola un contatto tra il mio corpo e ciò che è Altro, per creare uno spazio in cui rivivere i drammi di questo incontro in un mondo più-che-umano. Si tratta di una serie di piccoli fallimenti che avvengono sempre sulla soglia di un contatto che non si realizza mai del tutto, in una dialettica costante tra prossimità e distanza, presenza e assenza, vita e morte. Riflettendo sulla materialità della fotografia e sul suo ruolo nei processi di rovina ambientale, verso la fine del 2023 ho iniziato a interessarmi alle pratiche di recupero dell’argento dai bagni di fissaggio. L’argento è uno degli scarti prodotti durante i processi analogici più difficili da smaltire, e rimuoverlo dal fissante è il primo passo per una gestione ecologica del residuo chimico. Ne sono risultate una serie di sculture di ceramica smaltate con una miscela di smalto nero-piombo, all’interno del quale ho mischiato l’argento di scarto. L’azione del recupero dell’argento raggiunge quindi due scopi: da un lato, è un gesto di poetica materiale che mette in relazione le creature fotografiche e quelle scultoree, dall’altro è un’azione pratica che mi permette di smaltire la chimica di fissaggio. Questi sono stati i miei primi passi verso dei metodi di lavoro che si focalizzano sull’idea di impatto; non solo la riduzione dell’impatto negativo della mia presenza in un determinato contesto, ma il potenziale di un impatto positivo a diretto beneficio dell’ambiente in cui opero, basato su un rapporto di reciprocità. Per esempio, le piante che foraggio per creare soluzioni a base vegetale mi donano fiori e foglie; in cambio, posso restituirgli il favore irrorandole con l’acqua usata per lavare le cianotipie, ricca di ferro (nota ai lettori: se decidete di provare questa pratica, assicuratevi di non darla sempre alla stessa pianta e di irrorare in ampie zone, così da non saturare troppo il terreno). Interrogarmi sulla nostra relazione con il vivente in tempo di estinzioni mi ha portata a desiderare di coltivare collaborazioni proattive con il vivente, sollevando domande anche sul consenso, la reciprocità e la responsabilità.

Out of the stump rot, something, un lavoro in via di sviluppo commissionatomi da Fotografia Città della Pieve, esplora la componente non-umana che costituisce il territorio umbro, osservandone la rete di relazioni, le interconnessioni tra piante, animali, batteri e minerali che ‘fanno’ il territorio. Raccogliendo argilla, foraggiando piante, realizzando soluzioni a base vegetale e creando rituali notturni nel camino di casa, le fotografie sono rappresentative del territorio e materialmente realizzate in collaborazione con le sue risorse. In The Democracy of Species, Robin Wall Kimmerer2 dice che per essere nativi di un luogo dobbiamo imparare a parlare la sua lingua. Durante il periodo in Umbria ho avuto l’occasione di apprendere il lessico vegetale del luogo: la lunaria annua e il caprifoglio, il grespino e il tarassaco, la salvia verbenaca e il ranuncolo, il rosmarino e l’asparago selvatico, il lampascione e la ferula, la lingua di cervo e l’erba britannica. Molte di loro sono diventate mie collaboratrici nella creazione del lavoro. La lingua di cervo e il rosmarino hanno fornito i composti fenolici per sviluppare le stampe fotografiche con bagni di sviluppo a base vegetale. Il grespino, la lunaria e la violacciocca hanno dato colore alla base fotoreattiva per le stampe in antotipia. La terra, raccolta in diversi luoghi del territorio, si è prestata per lo sviluppo delle cromatografie del suolo: un processo fotografico che rivela la composizione organica del terreno tramite i colori e i pattern che emergono dallo sviluppo. L’immagine fotografica si fa così portatrice di informazioni materiche che vengono trattenute fisicamente all’interno delle fibre della carta; l’immagine non si riduce alla sola rappresentazione del territorio, ma viene letteralmente composta dagli elementi che lo caratterizzano. Questi processi permettono di essere costantemente in relazione con il mondo esterno; un rapporto ciclico tra il terreno, il sole, lo studio e la camera oscura, che ci insegna a conoscere i nostri luoghi, i nomi delle piante che li abitano, le loro abitudini e le loro stagioni.

Se le immagini che risultano da questi processi divergono da ciò che viene tradizionalmente considerata una fotografia ‘ben riuscita’, Hannah Fletcher, co-fondatrice di the Sustainable Darkroom, ci ricorda che dobbiamo accettare le nostre immagini ed essere generosi con esse. Per farlo bisogna saper abbandonare le proprie aspettative. A cosa diamo valore, al di là del valore rappresentativo? Le pratiche a basso impatto ambientale possono limitare le scelte tecniche che adoperiamo per lavorare, a favore però di un ampliamento significativo delle nostre relazioni. È un modo di lavorare che abbraccia le contaminazioni materiali e la permeazione cross-mediale, riconoscendo che le nostre affinità multispecie sono profondamente radicate nei nostri corpi, nelle particelle di plastica che portiamo con noi, nella chimica della camera oscura assorbita dalla mia pelle, dalla superficie fotografica e dal terreno. Queste metamorfosi materiali, fatte anche di contaminazioni, definiscono i nostri destini condivisi nel riconoscimento di un mondo più-che-umano ma anche più-che-vivente, dove corpi sintetici e biologici si mescolano e si intrecciano grazie alla porosità della materia. Forse è proprio il riconoscimento di questa porosità, di questo slittamento di materie e inquinanti e batteri da un corpo all’altro, di questa composizione disordinata che fa la vita sulla terra, che può permetterci di pensare e tracciare le nostre interrelazioni.

In Tesi di filosofia della storia, Walter Benjamin guarda il dipinto Angelus Novus di Paul Klee per animare il suo angelo della storia:
«L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».3
Scostandosi dal limite antropocentrico di Benjamin, Rose reimmagina l’angelo della storia se fosse un dingo:
«Immaginando l’angelo della storia come un cane selvatico, lo sento ululare con tutto il complesso vocabolario della sua specie. Sta chiamando per trovare i suoi compagni, non solo dingo ma anche umani […] Se l’angelo della storia fosse un cane, sarebbe nel mondo, in relazione, in comunicazione, e chiamerebbe. Diciamo così: proseguiamo con l’idea che il mondo è reale e che gli altri comunicano, e che anche noi siamo chiamati in connessione».
Se c’è un’etica che mi chiama, è quella dell’angelo-cane-selvatico, che chiama e chiama per portarci in relazione. Imparando nuovi metodi, sperimentando nuove soluzioni, immaginando un’immagine futura, posizionandomi all’interno delle relazioni (umane e non) che mi sostengono, esercitando relazioni di reciprocità e generosità in un mondo più-che-umano, verso un’immagine eco-etica.
NOTE BIBLIOGRAFICHE
1 Deborah Bird Rose, (1946-2018), antropologa australiana. Wild Dog Dreaming: Love and Extinction, (2011), University of Virginia Press, Charlottesville.
2 Robin Wall Kimmerer, The Democracy of Species, (2021), Penguin Books, Londra.
3 Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, (2012), Mimesis, Milano.