Arte e tecnologia: le contraddizioni pervasive

© Silvia Badalotti

Innumerevoli confusioni e un senso di disperazione emergono invariabilmente
nei periodi di grande transizione tecnologica e culturale
Marshall McLuhan

Viviamo un periodo storico piegato ai catastrofismi, ai disastri planetari e alla confusione intellettuale. Le persone, quell’insieme di molti che funge da motore storico sia nelle rivolte sia nella costruzione dei sogni da realizzare, cercano disperatamente di salvarsi dal caos a tutti i costi. Il nostro tempo vacilla tra una sorta di nostalgia romantica (che a volte porta l’individuo a proteggere in modo aggressivo un passato più sicuro e ricco); un futuro del tutto immaginario che si avvale di una tecnologia che offre l’eccitazione di una distruzione biblica; un potenziale futuro pieno di fantasia narcisista e soddisfazioni edonistiche. Molti di noi si trovano sempre nel presente e mescolano la paura che il cambiamento climatico ci renderà l’esistenza impossibile con la certezza che nessuna economia potrà ridarci un futuro prospero e che l’intelligenza artificiale ci distruggerà con un potere indomabile, sostituendo il vissuto umano con una inarrestabile computer logic di infinita complessità.

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LA LOGICA DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE, O MEGLIO, DELL’APPRENDIMENTO
SUPERVISIONATO O RINFORZATO

Ci sono tre modi per insegnare a un computer come rispondere a una domanda. Lo si può semplicemente programmare dicendogli: se ti dico “x” tu rispondi “y”, oppure si può creare una libreria di esempi (immagini, parole, dati) alla quale il computer paragona la tua domanda per scegliere la risposta più probabile a seconda dei dati registrati nella sua memoria, oppure ancora si può insegnare al computer a ingerire informazioni per conto suo attraverso dei sensori che permettono un’evoluzione della logica di risposta. Quest’ultima modalità è quella che permette al computer di condurre le auto o all’ormai famoso programma di Chat GPT di elaborare testi.
Per comprendere meglio cosa fa l’intelligenza artificiale, basta osservare gli automatismi del nostro telefono cellulare. Un esempio semplice: se con il cellulare scattiamo una foto il dispositivo compensa automaticamente il colore dato della luce che cade sul punto ripreso, trova l’esposizione giusta mettendo a fuoco quello che intuisce essere il soggetto dell’immagine. Ma se isoliamo un aspetto di queste funzioni – il soggetto – come fa il dispositivo a capire qual è se la scelta resta dentro la nostra testa? La risposta rivela come funziona l’AI, cioè il machine learning. Il computer del cellulare cerca tra milioni di immagini, vale a dire che sa statisticamente qual è il soggetto della nostra foto basandosi sulla probabilità generata dall’analisi elaborata da chi ha creato il programma, compiendo la sua ricerca in una banca dati fornita di migliaia di immagini simili. Così probabilmente il soggetto della nostra foto è una persona al centro dell’immagine, probabilmente è un mammifero con due occhi, probabilmente il cielo è sopra il soggetto e la terra sta sotto.
Attraverso questo calcolo delle probabilità, il nostro telefono cellulare decide qual è il soggetto che stiamo per fotografare e, con un meccanismo relativamente semplice, lo mette a fuoco. Ma se per caso il nostro soggetto è una persona di pelle scura messa accanto a una grotta in ombra e sotto i piedi ha una pozzanghera piena d’acqua che riflette il cielo, il nostro cellulare farà molto fatica a identificare il soggetto, l’esposizione esatta e il bilanciamento dei colori della scena. Questo, in modo estremamente semplificato, è il rischio del machine learning che sta alla base di quella che noi chiamiamo intelligenza artificiale.

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L’AI utilizza una logica simile, ci fornisce un testo o un’immagine basati su un prompt impartito attraverso un comando vocale o delle istruzioni scritte, pesca attraverso milioni di documenti e dati acquisiti in un processo di machine learning e sulla base dell’input fornito costruisce la risposta alla nostra domanda oppure crea una nuova immagine. In questo senso, il processo è vagamente simile al funzionamento del cervello umano quando decide di scrivere un testo o di creare un’immagine. L’unico elemento mancante, quello che ancora oggi ci contraddistingue, è il processo emotivo che sta dentro la psiche dell’uomo e che non sta dentro i memory banks di un computer. Questa differenza ci distingue, per ora, dall’Artificial Intelligence.
I risultati provenienti dall’utilizzo dell’AI assomigliano enormemente a quello che avrebbe potuto fare un essere umano, anzi spesso non sono distinguibili, ma l’AI non potrà mai generare un’emozione avvalendosi del processo di ripescaggio dei dati contenuti nella sua memoria, mentre l’umano lo fa ogni volta che ripesca nella sua memoria un significato o un’idea. Questo è il nodo interessante: l’intreccio tra creazione umana e utilizzo dell’AI per produrre nuove immagini o nuovi scritti.

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L’operatore, il tecnico o l’artista usa i risultati dell’AI per reinterpretare la propria memoria attraverso i propri ricordi emotivi. Questo è il percorso che ci permette di attribuire significato alle cose: filtrare nuove informazioni raccolte dai nostri sensi attraverso la memoria di ciò che abbiamo già vissuto. Se non fosse così, il mondo sarebbe un dizionario chiuso che utilizza sempre le stesse parole, sensazioni e immagini per rappresentare tutto, senza bisogno di generare nuove idee. Dunque l’uso dell’AI nel generare un’immagine, se guidato artisticamente da un umano, non è nient’altro se non un acceleratore per la ricerca di punti di riferimento in un catalogo non più limitato all’esperienza personale. Molto simile al processo che ha innescato l’invenzione della pagina stampata o l’invenzione della radio o della televisione. È proprio questo modificare i significati attraverso l’emotività vissuta da ognuno che sempre distinguerà l’intervento umano dall’utilizzo dell’AI, rendendola “un mezzo” per ampliare l’esperienza visiva di chi ne fa uso.
Possiamo fare un esempio ancora più chiaro: è come quando usiamo internet per cercare un’informazione specifica in precedenza introvabile e finiamo per perderci nella rete vittime dell’eccitazione continua che provoca l’infinito concatenarsi di link fino a perdere di vista il motivo della nostra ricerca. Se si cede la propria autonomia emotiva e intellettuale alla tecnologia, si rimane vittime della stessa. Se, invece, si mantiene la guida della propria ricerca, allora la tecnologia amplia le nostre risorse divenendo un’estensione delle nostre capacità cognitive. È molto facile essere distratti dalla potenza che l’AI impiega nel manipolare l’informazione che vediamo attorno a noi. È un rischio enorme perché se non si conosce la fonte umana di un’immagine, per esempio, si può facilmente essere confusi o deviati dall’informazione presente in quell’immagine. D’altra parte, se l’utente dell’AI è una persona creativa, l’estensione delle proprie possibilità espressive è immensa, esattamente come l’atto di navigare in internet permette a milioni di individui di frequentare o familiarizzare con idee, luoghi e persone lontani dalla propria esperienza. Marshal McLuhan capì e descrisse in modo molto efficace questo effetto della tecnologia sull’individuo in un suo libro, Understanding Media, già nel 1964 in cui espose la sua famosa teoria: the medium is the message.

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L’informazione che apprendiamo da qualsiasi prodotto dell’AI è da un lato l’estensione di noi stessi e delle nostre esperienze, dall’altro un’estensione della nostra memoria e del nostro cervello, ma è anche un’espressione dell’AI come media che non funziona esattamente come gli altri media che conosciamo. Sarà necessario, nei prossimi anni, uno studio critico degli aspetti dell’AI che rendono una qualsiasi sua creazione particolare in confronto a quanto possono fare altri media che conosciamo. Per ora stiamo sempre confrontando un testo o un’immagine sviluppati da MidJourney con il mondo della fotografia o di testi autoriali esistenti. Non conosciamo ancora gli aspetti originali che fanno di un’immagine creata o co-creata con l’utilizzo dell’AI, un’opera intrinseca al mezzo di intelligenza artificiale. Lo stesso processo di conoscenza evolutiva o generativa ha contraddistinto l’assimilazione di qualsiasi progresso tecnologico, dalla fotografia alla radio, dal cinema alla televisione. Per anni, questi mezzi sono serviti a imitare le tecnologie precedenti. Pian piano si sono evoluti e lo sguardo del pubblico si è adattato.
Possiamo comunque già riconoscere un primo elemento che distingue l’intelligenza artificiale da tutti i mezzi di riproduzione conosciuti fino ad ora: la totale mancanza di interpretazione emotiva degli elementi utilizzati per darci risposte verbali o creare immagini. L’AI interpreta statisticamente i dati che sceglie come parole o elementi grafici che servono per costruire una risposta. Le sue risposte sono il risultato numerico degli elementi a disposizione, mentre le persone, creative o meno che siano, scelgono gli elementi del proprio discorso attraverso il filtro emotivo della propria esperienza. Se da bambini siamo stati morsi da un cane, ogni volta che fotograferemo un cane la nostra memoria adulta sarà, in qualche modo, significativamente basata su quell’evento traumatico della nostra infanzia. L’AI non ha nulla di simile nei suoi processi di assemblaggio. Certo, si potrà programmare la formulazione di risposte che contengono elementi emotivi ma sarà sempre un algoritmo ad effettuare il calcolo delle probabilità e non l’accumulo unico di un individuo, frutto del suo percorso di vita, di conseguenza ne scaturirà una creazione narrativa o visiva simile all’esperienza di qualcuno ma a nessuno in particolare. Le scelte di qualsiasi programma sono effettuate esclusivamente su dati statistici mentre la reazione di una persona si basa sull’insostituibile esperienza personale ed è proprio qui che si colloca l’ambiguità del futuro: l’esperienza assimilata attraverso una proiezione algoritmica di intelligenza artificiale è una valida esperienza personale? La risposta ovviamente è sì, tanto quanto la lettura di qualsiasi libro espande la nostra esperienza attraverso l’immaginazione e non attraverso un vissuto reale. Quindi l’AI diventerà parte naturale della nostra esperienza come ogni rivoluzione tecnologica dall’avvento dell’alfabeto fino ai giorni nostri.

NOI CAMBIAMO INSIEME AI SOCIAL MEDIA

La contestualizzazione dell’intelligenza artificiale non sarebbe completa senza l’inserimento nella storicizzazione dei social media. Originariamente l’avvento dei social media è potuto accadere perché sono stati considerati dagli utenti come una serie di strumenti per comunicare spontaneamente tra persone, sconosciute e conosciute, in uno scambio continuo di commenti, immagini e racconti. In questo periodo iniziale piattaforme come Facebook, You Tube o Instagram hanno trovato l’approvazione entusiasta di un pubblico bisognoso di spazi comuni. Spazi sociali dove si potessero conoscere altre persone, altre idee e altre immagini oltre quelle visibili attraverso canali tradizionali quali i giornali o la televisione, tutti media controllati da gatekeeper come la BBC, il New York Times, l’Enciclopaedia Treccani o semplicemente la famiglia. Questi “custodi” verificavano la verità di ogni identità e di ogni opinione. Poter apparire senza conformarsi allo status quo in uno spazio pubblico ed essere visti o ascoltati da migliaia di persone simultaneamente ha create un senso di euforia narcisista tale da trasformarsi nella cultura della performance che conosciamo oggi. Come tutte le pretese legate a una performance, anche questa porta con sé un certo grado di ansia perché si cerca il paragone con un’ideale immaginario perpetrato dal mezzo stesso. In questo contesto, nasce un’inevitabile reazione contro l’artificialità dei mezzi digitali, del loro modo perverso di presentare un’opinione o un’immagine qualsiasi come se fossero la rappresentazione del reale e del giusto. Occorre però prestare attenzione perché anche la televisione o la fotografia ritraggono il reale in modo artificiale e non vanno confuse con la realtà né tanto meno con il vissuto: lo rappresentano in egual modo. Anch’essi sono mezzi di rappresentazione, come lo è il mondo creato dall’intelligenza artificiale.

SI PUÒ FARE ARTE CON L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE?

Veniamo infine al nostro intento: cominciare a ragionare su come l’uso consapevole e intelligente dell’AI possa generare eccellenti esempi di espansione della creatività artistica. È il caso dei lavori della fotografa e art director milanese Silvia Badalotti. Vorrei qui esaminare criticamente il suo lavoro realizzato con il supporto dell’AI e le possibili reazioni del pubblico.
Come ogni persona rappresentativa della propria generazione e luogo di attività, Badalotti è un riflettore di valori in transizione, di pensieri fluttuanti, di un’estetica evoluta basata su una conoscenza profonda della storia dell’immagine e un piacere raffinato nel creare idee visive. Mentre certe sue immagini pongono domande sull’esistenza, altre porgono soluzioni specifiche e, come ogni autore storicamente interessante, la sua ricerca personale influenza immensamente il suo lavoro commerciale e viceversa.
Sul dialogo emotivo tra esigenze di mercato e cosiddetto lavoro artistico la critica e il pubblico italiani hanno spesso sorvolato ritenendo i due ambiti inconciliabili. D’abitudine non si mischiano i progetti artistici con il mercato commerciale e capitalista come quello della pubblicità. Si tratta, a mio avviso, di un errore storico: l’ideologia dominante, in Italia, ha visto contrapporsi l’idea di un socialismo di Stato buono e di un mercato capitalista, privilegiato e cattivo. Ovviamente, come tutte le contrapposizioni integraliste, il metodo risulta essere grossolano in quanto la realtà molto spesso si trova nel mezzo dove il bene pubblico e il mercato commerciale privato convivono attraverso una politica di governo che li regola. Ma questa non è la sede per addentrarci nei meandri delle ideologie. Riporto questi esempi solo per chiarire come il lavoro di un’autrice qual è Silvia Badalotti può essere escluso dalle logiche della cultura che ricerca una qualche verità solo perché ingaggiata anche per promuovere lo scambio commerciale.
In realtà questi pregiudizi si rivelano fragili e irresponsabili di fronte alla complessità degli elementi che caratterizzano le nostre vite, tra cui anche quello culturale. È proprio la complessità del nostro vissuto, dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti contrapposta al mondo esterno a noi che crea il legame interessante tra mercato e espressione creativa. Gli esempi sono innumerevoli: ogni quadro dipinto nel Rinascimento nasce da una richiesta commerciale, ogni vestito disegnato da uno stilista è il risultato di una richiesta commerciale, ogni edificio progettato da un famoso architetto è un progetto commerciale, ogni oggetto di design è un oggetto anche commerciale, eccetera.
Quindi l’idea che il mondo creativo sia esente dall’essere “anche” commerciale è un’illusione creata dall’ideologia. Non può esistere una divisione tra creatività applicata soltanto alla ricerca artistica e non a un progetto commerciale. La maggioranza dei lavori artistici, anche quelli realizzati per essere esposti in una galleria d’arte, è in realtà una produzione creata per soddisfare esigenze collettive in cambio di denaro e ogni transazione commerciale è influenzata da chi paga e perché.

© Silvia Badalotti

È proprio questo legame stretto che rende interessante lavorare egualmente per l’editoria, la moda e il design, come fa Badalotti. Moda, editoria e design sono ambiti intrinsecamente legati ai mercati culturali, propongono creativamente oggetti necessari alla soddisfazione culturale individuale. In un certo senso l’intreccio tra l’espressività culturale e un mercato spinto da bisogni ontologici permette alle persone che non hanno tempo e forse neanche capacità di esprimersi individualmente, la possibilità di trovare la propria espressione attraverso l’acquisto di vestiti, libri o oggetti. Quindi il gusto personale e la cultura che emerge in un determinato periodo storico o luogo specifico, sono saldamente intrecciati. Per questo motivo, anche l’immagine è un’espressione che intreccia cultura e commercio: illumina l’immaginazione individuale che di conseguenza provoca lo scambio di valore.
L’evoluzione del lavoro di Silvia Badalotti offre uno sguardo dentro e fuori noi stessi. Il suo rigore visivo, il suo uso dei colori armonioso e allo stesso tempo forte e delicato, il suo porre domande sul futuro del nostro mondo visivo e reale attraverso una fantasia giocosa e, a volte, destabilizzante, ci guida delicatamente verso una riflessione tutt’altro che superficiale.

IL RUOLO DELL’AI NELLA VISIONE DI BADALOTTI

Da piccola Silvia Badalotti era una bambina molto introversa e con difficoltà d’apprendimento. Vivendo forti disagi a scuola si è trovata spesso emarginata, in classe la sua partecipazione attiva era praticamente inesistente. Mal compresa, ha rivolto lo sguardo sempre più dentro di sé utilizzando l’immaginazione come elemento sostitutivo alla difficoltà di relazione. Questo fatto curioso e insieme doloroso ha influito immensamente sul suo lavoro e sui suoi metodi.
Per sua fortuna il mondo scolastico, decisamente ostile, non rispecchiava in nessun modo la sua vita in famiglia. I suoi genitori sono stati interior decorators, quindi la sua casa era sempre piena di campioni di colori, di tessuti e di pitture varie. In questa casa così piena di creatività, ha trovato radice il suo profondo senso del colore, della forma e dello stile. I suoi occhi hanno sempre registrato un contorno vivace e stimolante, tra storia dell’arte, arredamento e gusto. I risultati di questo ambiente famigliare si vedono in tutte le immagini di Silvia: nel colore, nella forma e nella grafica. Troviamo tracce della pittura Rinascimentale come l’ironia, ma troviamo anche la maestria degli still life, della fotografia di moda, di Irving Penn.

 

© Silvia Badalotti

Tuttavia fino a quando non ha incontrato la fotografia, Silvia Badalotti ha dubitato della propria capacità di capire e reagire al mondo che la circondava. Le sue difficoltà si sono sciolte con l’inizio della pratica fotografica che le ha permesso di trovare un modo per esprimere creativamente la sua sensibilità. All’emarginazione generata dalla sua incapacità di comprendere le cose scritte, si è sostituita la capacità di creare immagini che collegano vari aspetti della sua intelligenza: riflessioni esistenziali, significati, sottigliezze cromatiche e forme narrative. Ha cominciato così a mostrare le sue idee e i suoi dubbi attraverso visioni che l’hanno portata a scoprire mondi in grado finalmente di ottenere quell’approvazione che, nella vita scolastica, le era sempre stata negata.
Ben prima dell’impiego dell’AI per manipolare l’immagine, Silvia Badalotti nel suo lavoro ha indagato quell’interstizio fragile che tiene insieme fantasia, significato e realtà. In alcune immagini pre-AI vediamo già la sua capacità di esternare visivamente conflitti o concetti mentali. I suoi lavori sulla moda sono sempre permeati da una tensione a voler indagare artisticamente i concetti di tempo, genere, identità e le leggi generali della vita quotidiana come la gravità o la visione. Il suo lavoro sembra dubitare della realtà visivamente banale preferendo il dialogo con la natura delle cose: il senso dell’immagine, l’uso del corpo femminile, il difficile rapporto tra il pensiero e l’azione. Esplorando continuamente il rapporto tra Storia, storia personale e contemporaneità, Badalotti cerca la contraddizione e, più recentemente, immagina le possibilità di dialogo visivo con il suo nuovo interlocutore: l’intelligenza artificiale.
Contrariamente a quello che possiamo immaginare, Silvia Badalotti non è una persona che ama la tecnica; pur producendo immagini sempre di alto livello tecnico, piega la tecnica ai suoi desideri, ma anche le sue idee alla tecnica, adattando il suo mondo immaginario a quello che riesce a produrre nell’immagine. Vorrei sottolineare l’importanza di questo suo approccio perché ha molto a che fare con la sua evoluzione antesignana nel mondo dell’intelligenza artificiale. Badalotti non la approccia come potrebbe fare un nerd, studiando i programmi e seguendo corsi su Chat-GPT. No. Come ispirata dal proprio desiderio di esprimersi, crea dei prompt e poi osserva i risultati. Su questa base ne crea altri andando avanti così per tutto il tempo necessario ad arrivare a un’immagine che la soddisfi. Si tratta di un lavoro estenuante che fa sì che il 90% di ciò che produce venga eliminato. Questo processo di trial and error le permette di conoscere profondamente come i suoi prompt vengono interpretati. Si chiama processo di conoscenza della materia, come accade a un pittore che prova in continuazione una tecnica per scoprire come possa usarla per i suoi fini.
Fin qui, però, Badalotti agisce come molti fotografi e artisti, ma il valore del suo lavoro va decisamente oltre. La sua abitudine costante a elaborare mentalmente le sue idee, le percezioni, la curiosità le permette di diventare una voce attraverso la quale vediamo i cambiamenti epocali in atto. Il suo non è un processo che si limita a creare solo delle immagini belle oppure bizzarre: le sue immagini diventano indicative di quel processo culturale di transizione che si chiama mutamento.
Silvia Badalotti plasma l’immagine di un corpo o di un volto per estrarre un’enfasi emotiva che, altrimenti, rimarrebbe nascosta. Intuitivamente cerca una sensazione interiore che provochi un significato. Questo significato è un evento visivo di natura emotiva. E qui vediamo quanto Badalotti intrecci le sue emozioni alle immagini che realizza. Se cerchiamo di ricostruirne ideologicamente la narrativa, ci troveremo in contraddizione con una realtà in mutamento.
Le sue immagini catturano il nostro sguardo e l’interesse dei suoi clienti, evidentemente: da Bulgari, Cartier, Dolce e Gabbana alle maggiori agenzie di pubblicità nazionali e internazionali. Il suo uso dichiarato e evidente dell’AI ha permesso la sua inclusione come artista emergente al recente evento Future + / The Future of Fashion and Beauty nel corso della fiera NFT NYC tenutasi al Samsung Flagship store di New York e la pubblicazione di un portfolio dei suoi still-life su un numero di giugno dedicato all’AI del settimanale D di Repubblica. Ma colpisce come questi segnali di successo influiscano poco sulla realtà di Silvia: abituata a vivere nascosta dentro la sua immaginazione, rimane protetta dietro un velo di distacco un po’ indifferente e sorpresa dell’interesse nei suoi confronti. Ha la determinazione di chi è abituato a mescolare continuamente le proprie percezioni con una realtà in evoluzione. Usa l’immagine per scoprire se stessa e, insieme, mondi sconosciuti.


© Silvia Badalotti per Gucci

Se si cerca di rimanere aggrappati superficialmente ai canoni della storia, si potrebbe rifiutare il senso delle immagini prodotte da Badalotti in quanto destabilizzanti poiché propone un mondo artificiale, distorto e esagerato, dove l’essenza dell’umano lascia spazio alla perfezione plastica dell’immagine computerizzata. Ma, come André Kertesz utilizzava la distorsione visiva riflessa in una lastra di metallo per riscoprire gli elementi di un corpo femminile o Irving Penn scopriva attraverso la distorsione di un’ottica la sua realtà del corpo femminile, Silvia Badalotti usa una creatività mentale per scoprire una realtà immaginaria profondamente vera nella sua esposizione di pensieri e sentimenti riguardanti i mutamenti psicologici del nostro tempo. Il suo lavoro si ispira a Giotto ma anche a Man Ray, all’Impero Romano e a Versailles pescando nelle immagini rinascimentali, richiamando i lavori di Modigliani, Francis Bacon e i ritratti di Irving Penn.
Chi di noi non ha una visione distorta della realtà dovuta alle contraddizioni che viviamo quotidianamente? Quando riceviamo centinaia di frammenti di informazioni concernenti un evento, non costruiamo provvisoriamente un immaginario personale per decifrare l’informazione? Non ci confrontiamo forse con una distorsione psicologica quando giudichiamo la nostra faccia riflessa nello specchio ogni mattina? In questo senso il lavoro di Silvia Badalotti esplora la distorsione psicologica: attraverso la manipolazione dell’immagine. Che questa manipolazione sia prodotta da un gesto manuale, come in un quadro di Jackson Pollock, oppure da un’appropriata mescolanza di informazioni inserite in un sistema di intelligenza artificiale, non cambia il fatto che le immagini risultanti ci offrono uno stimolo per comprendere meglio i mutamenti percettivi che ci circondano. Nei tempi fluidi della cultura contemporanea, attraverso una sensibilità grafico/cromatica raffinata unita a un’intelligenza emotiva, possiamo entrare nel mondo interiore di Silvia Badalotti che con delicatezza ci mostra visioni inaspettate e sorprendenti per la loro innaturalezza ma che al contempo catturano i mutamenti sottili e decisivi che progressivamente stanno trasformando la nostra realtà.

IL SITO DI SILVIA BADALOTTI