L’archivio come terapia

Casa di Giulia Niccolai, Milano 6 agosto 2019, foto di Giovanna Gammarota

Le note che seguono esprimono essenzialmente delle suggestioni maturate durante lo studio dell’archivio di Giulia Niccolai. Non possono essere altro che un’ipotesi di lavoro. Sono state lette durante la V Conferenza annuale dell’AIPH (Associazione Italiana di Public History) tenutasi a Firenze dal 6 al 10 giugno 2023.

Siamo abituati a sentire associati alla parola terapia talmente tanti oggetti e situazioni, che non meraviglierà se in queste brevi note si parlerà di archivio come terapia. Cercherò di mostrare che si possa parlare di archivio come terapia almeno a tre distinti livelli: sociale, interpersonale e personale. Il primo aspetto, l’archivio come terapia sociale, è strettamente legato a quel concetto che l’Associazione Italiana di Public History ha esplicitato come contrasto degli abusi della storia, ovvero le pratiche di mistificazione sul passato finalizzate alla manipolazione dell’opinione pubblica. Sia come fonte documentaria, sia come punto d’arrivo di un processo di raccolta e di ordinamento, un archivio è sempre un contatto con una realtà, passata o attuale, che per la sua complessità ci costringe a interrogarci e, così facendo, mette alla prova certezze e pregiudizi.
Opportunamente, da parte dell’AIPH, si sottolinea che una più diffusa conoscenza del passato può consentire il superamento dei pregiudizi e delle paure che vanno moltiplicandosi nella contemporaneità e che le pratiche della public history offrono occasioni e strumenti per la comprensione critica dei contesti storici e dei processi in atto, aiutando ad affrontare la loro complessità ed evitando soluzioni dettate da rancori o da presunte contrapposizioni “identitarie”.

Tutti ricordiamo gli elenchi telefonici che, fino a qualche tempo fa, erano di dominio comune nelle case e negli uffici. Questi elenchi contenevano l’indice alfabetico per cognome degli abbonati, riportando anche nome indirizzo, a volte la professione, e ovviamente il numero di telefono. Scorrendo questi elenchi ci si imbatteva in una serie di cognomi da cui traspariva chiaramente una provenienza regionale, oppure l’essere originari di un paese diverso dall’Italia. Furlan, Calabrese, da Milano, Siciliano, Bresci, Bergomi, Romano, Napolitano, Sardo, oppure Albanese, Francese, Greco, Spagnolo, Inglese Todesco, Schiavone, Fiammingo, Di Candia, Marocchino, Frisone, eccetera. Forme nominali testimonianza di fusioni antiche di genti che da sempre hanno avuto la necessità o sentito il bisogno, per qualunque ragione, di spostarsi altrove.
Basterebbe mettere insieme questi elenchi, che pur non rappresentano uno specchio fedele in termini demografici, per realizzare un archivio capace di opporre una realtà inoppugnabile a chi cerca di mistificarla o negarla, instillando paure irrazionali e blaterando di sostituzione etnica. Altri archivi, quelli sterminati e dolorosi dell’emigrazione italiana all’estero, potrebbero far riflettere su alcuni slogan oggi di moda, come “prima gli italiani” o “aiutiamoli a casa loro”. L’archivio, allora, diventa una terapia per la coesione sociale, contro l’indifferenza, il pregiudizio o l’odio.
Rispetto al documento scritto, la fotografia gode di una maggiore e più immediata fruizione, nel senso che, per coglierne almeno sommariamente il senso, non necessita di particolari abilità o competenze. Se tutti sono in grado di “leggere” una fotografia, un archivio di immagini diventa più facilmente un territorio comune su cui confrontarsi. Se ci si pone al livello dell’archivio come terapia interpersonale, o anche intergenerazionale, possiamo immaginare un album di famiglia sfogliato assieme da genitori e figli o nonni e nipoti. Lo scarto generazionale, attivando da una parte i perché e i come, dall’altra stimolando riflessioni sul vissuto e risposte che devono essere plausibili e comprensibili, può diventare uno strumento di conoscenza e di interiorizzazione delle intime dinamiche famigliari, costruendo sopra una foto strati di memoria condivisa e lasciandovi attorno un alone di complicità. Le foto diventano concrete, un calcestruzzo, come la parola suonerebbe in inglese.

Silvia e Giulia, casa di Giulia Niccolai, Milano 6 agosto 2019, foto di Giovanna Gammarota

La mia esperienza con la fotografa Giulia Niccolai comincia con un rapporto di questo tipo. Nata a Milano nel 1934, naturalmente bilingue avendo la madre statunitense, appena sedicenne inizia a frequentare l’ambiente e i personaggi che gravitavano attorno al Bar Jamaica e al quartiere di Brera. Conosce pittori e scrittori e incontra fotografi come Mario Dondero, Ugo Mulas e Uliano Lucas. Intanto impara le tecniche di sviluppo e stampa che poi metterà in pratica nella cucina di casa sua. Nel 1954 realizza il suo primo servizio fotografico. Successivamente, da professionista, compirà lunghi reportage, specialmente in Italia e negli Stati Uniti.
Giulia l’ho incontrata per la prima volta su un libro dedicato alla storia del fotogiornalismo in Italia e poi, per davvero, a Ravenna, dove ha letto e commentato i suoi frisbee, il nome con il quale lei chiamava le sue poesie. Da quel momento è iniziato un intenso rapporto, con un appuntamento settimanale mantenuto per due anni. In uno dei primi incontri aveva espresso il desiderio di recuperare il materiale fotografico che aveva accumulato nel decennio dal 1954 al 1964, abbandonato nel luogo da cui era precipitosamente andata via.
Sentiva il bisogno di riconnettersi e fare i conti con una parte di sé che aveva sbrigativamente liquidato e che adesso riemergeva. Le ferite dell’abbandono cercavano una cura. Sinonimo di terapia, cura non significa guarigione, ma assumersi una responsabilità nei confronti di qualcuno o qualcosa. Giulia avrebbe potuto incaricare qualche sua parente o amica di recuperare o custodire quel materiale. Ma non sarebbe stata una cura, non una soluzione efficace al suo bisogno di ristabilire un nesso tra quei suoi lavori e il mondo. Ha creduto che una persona che avrebbe potuto essere sua nipote, estranea, sconosciuta, ma disinteressata e appassionata di fotografia, potesse essere la curatrice di una parte della sua eredità artistica. In realtà, nel momento in cui mi ha affidato la cura delle sue foto, era lei che si stava curando.
Man mano che si riportavano alla luce le cose contenute in quelle tre valigie anche per me iniziava un iter terapeutico fatto di condivisione di ricordi, aneddoti, esperienze, sensazioni di una persona completamente diversa da me. Tramite i suoi racconti ho conosciuto un mondo per me solo libresco, attraverso la sua figura sono stata la ragazza che non ho potuto essere, libera, spigliata, spregiudicata, senza problemi economici…, ma ho ascoltato e capito le sue sofferenze, le sue frustrazioni. Ho vissuto il suo mito, ma mi sono curata abbastanza da non mitizzarlo, ho capito che non essere nata cosmopolita non è sicuramente un handicap, ma che essere nata in provincia non mi condannava a essere una provinciale, se e fino a quando sarei riuscita a confrontarmi senza complessi di inferiorità con il mondo.

Casa di Giulia Niccolai, Milano 6 agosto 2019, foto di Giovanna Gammarota

Puoi togliere una ragazza dalla provincia, ma non puoi togliere la provincia da una ragazza, non mi ricordava più la “macchia umana” di Philip Roth, lo stigma indelebile ricevuto alla nascita, il peccato originale da cui non mi sarei mai liberata, ma solo un grumo di parole che lentamente stava perdendo la sua consistenza. Tra Milano e Iseo, passando pindaricamente per la Penisola e gli States, la nostra comune terapia procedeva, fino a quando, nel giugno del 2021, Giulia è andata via.
La raccolta ora era orfana, la sua voce mi mancava. Privata della presenza dell’autrice, la raccolta assumeva un senso nuovo. Non più la scoperta a cui si lega un sentimento di stupore e meraviglia, come accade per un reperto archeologico che torna da un lontano passato.
All’attimo fulmineo dello stupore, all’istante della sorpresa improvvisa subentra il tempo misurato della riflessione e dello studio. Quell’insieme di immagini lentamente doveva cercare la sua metamorfosi in archivio, acquistare un suo proprio senso nell’essere ordinato, classificato, studiato, e poi diffuso.
La relazione tra “quantità della raccolta” e “qualità dell’archivio” si specchiava in un’altra dicotomia: quella che contrapponeva l’autorialità all’autorità, dalla libertà di Giulia, dal suo sguardo, dai suoi ricordi, al dovere e alla responsabilità di riordinare il materiale recuperato. Mettere ordine, in assenza dell’autrice, significava cercare di interpretare il mondo per dargli un senso. Tempo e spazio erano i punti e le linee che permettevano di scriverne la storia.
Alla quantità senza misura della raccolta, alla sua forma indistinta, al caos originario, dovevo sostituire la qualità dell’archivio, la sua inflessibilità, la griglia rigida entro cui tutto doveva trovare la propria collocazione. La raccolta era il luogo dell’indistinto, della possibilità dell’errore, che consentiva però di errare, muoversi, trovare in modo imprevisto e imprevedibile legami fra le cose, dettati non tanto dalla logica, ma dalle emozioni e dai ricordi. Un rizoma. L’archivio, invece, ricorda la struttura di un albero, a cui corrisponde un sapere enciclopedico e gerarchico che immerge le proprie radici nel profondo della storia. Dare forma a un archivio significa manipolare il caos della raccolta, maneggiare una massa informe, setacciare le informazioni, calibrarne gli elementi.
All’origine della metamorfosi da raccolta ad archivio ci sono alcune separazioni. La prima, ovvero quella tra l’autrice e la raccolta è dettata dalle leggi della natura e non dalla volontà umana. La seconda è il frutto di un atto cosciente e meditato compiuto da chi eredita il materiale e decide di imprimervi un ordine.
L’atto autoriale, creativo per definizione, nell’archivio si trasforma in un parto, in una nascita che necessita della separazione. Per riordinare una raccolta bisogna entrarci. Occorre quindi squarciare il velo che ne occlude l’ingresso, dividere ciò che appariva come un tutt’uno.
Questo è il livello autoterapeutico dell’archivio, che essendo costituito da un principio ordinato e ordinatore, esige un adeguato atto demiurgico, un nuovo modo di agire e quindi di essere. L’archivio fotografico di Giulia mi ha caricata della responsabilità di completarne la realizzazione e di renderne accessibile la fruizione. La cura che Lei ha avuto per me e quella che vicendevolmente abbiamo avuto per l’archivio e per noi stesse, adesso l’archivio la esige da me. E io ho dovuto cambiare, e sto tuttora cambiando il mio modo di relazionarmi con le cose. Se io ho trasformato le foto in archivio, l’archivio ha trasformato me.

Giulia Niccolai poetessa e fotografa nella sua casa di Milano, 6 agosto 2019.
Foto di Giovanna Gammarota

Chi ordina un archivio ha il potere di deciderne la forma; come un architetto, disegna l’edificio e vigila sulla sua costruzione. L’intima connessione tra archivio e potere è del resto testimoniata dall’etimo arché, che si muove nel campo semantico di “inizio”, “origine” e “dominio”, ma anche “autorità” e “carica pubblica”. È quanto sottolinea Derrida nel rilevare la connessione fra commencement (inizio) e commandement (comando).
Se, infatti, possiamo considerare l’archivio come una declinazione, una manifestazione, un modo con cui il potere decide cosa e in che modo deve essere tramandato del sapere, bisogna nutrire la consapevolezza della scelta che a monte è stata fatta, e quindi essere strettamente critici sui documenti. L’archivio, scrive Aleida Assmann, ha il valore eminente di memoria potenziale o, meglio, di condizione materiale di una successiva memoria culturale. La conservazione, la selezione, l’accessibilità non si riferiscono a un’ipotetica conoscenza completa e integrale, ma solo a quella parte che la sensibilità o l’interesse di chi lo gestisce consente che possa essere tramandato. La mia responsabilità, affettiva nei confronti di Giulia, ma etica erga omnes, troverà un suo ulteriore passaggio quando dovrò capire chi ne avrà cura dopo di me.