Cronache dal post-cinema / 1. Scenari

Leonardo Di Caprio in Inception, Christopher Nolan, 2010, Warner Bros.
(© Pictorial Press Ltd / Alamy Stock Photo)

Da vent’anni a questa parte né la materia, né lo spazio,
né il tempo sono più ciò che da sempre erano
(Paul Valéry, La conquista dell’ubiquità, 1928)

Ce n’est pas une image juste, c’est juste une image
(Jean-Luc Godard, Le Vent d’Est, 1970,
anche in Adieux au Langage, 2014)

Francesco Casetti,
La galassia Lumière, Bompiani, 2015

Ne La galassia Lumière, un saggio riccamente documentato, apparso nel 2015, Francesco Casetti individuava (anche a fare da sottotitolo), “sette parole chiave per il cinema che viene”. Ma più che un movimento nel tempo (futuro), parole quali Rilocazione, Reliquie e icone, Assemblage, Espansione, Ipertopia, Display, Performance descrivevano plasticamente le dimensioni fisiche e spaziali delle sfide che il cinema del nuovo secolo e millennio doveva affrontare e stava già affrontando. Evocavano un cinema-flusso, in continuo e ubiquo divenire, che viene a noi e da noi (chez nous), accanto o insieme a una miriade di immagini digitali, però ancora riconoscibile e in qualche modo controllabile. Indicavano e spiegavano, nel dettaglio e sino a quel momento, gli sforzi ammirevoli di persistenza e trasformazione del cinema. Una dialettica, una sfida, un suo affannoso travestirsi e mimetizzarsi, riconfigurarsi e trasfigurarsi, sempre nella lucida consapevolezza di “un estenuante differimento della fine”: ovvero, la dissoluzione nel generale, indistinto, stream audiovisivo.

Profitti e algoritmi

A distanza di soli sei anni da quella pubblicazione, per il cinema e, più in generale, per l’immaginario, individuale e collettivo, legato al visuale, molte cose appaiono cambiate. Nell’affollato orizzonte della medialità contemporanea, lo statuto stesso della visione continua a subire una radicale e forse irreversibile trasformazione. Peraltro, sappiamo bene che molte dinamiche arrivano da lontano. Quasi trenta anni fa, Régis Debray ci aveva spiegato che eravamo entrati in una videosfera (non eravamo più davanti all’immagine, ma nell’immagine) e come in pochi decenni il nostro sguardo visivo – essenzialmente consumistico – avesse soppiantato millenni di sguardo “magico” e secoli di quello “estetico”. Poi, con l’avvento del cinema digitale, sul finire del secolo scorso, il cinema, già definito “post-moderno”, cedeva il passo a quella che Casetti chiama un’era “post-cinematografica”.
L’esplodere della pandemia – un’epifania rivelatrice dei meccanismi di funzionamento del mondo, pour le meilleur et pour le pire – avrebbe portato una ulteriore velocizzazione dei processi in atto. In effetti, caratteri distintivi della fase di “tarda modernità”, e particolarmente evidenti in materia di sviluppo tecnologico, sono l’accelerazione e l’alienazione. Il loro stretto legame, a cavallo tra mondi esteriori e interiori, era stato studiato già una decina di anni fa dal filosofo tedesco Hartmut Rosa. Secondo il quale, entrambi riguardano la nostra nuova relazione con il tempo. Un tempo andato decisamente out of joint (qua ci aveva avvisati Shakespeare prima ancora che Philip Dick). L’accelerazione tecnologica, che rende tutto più veloce per farci risparmiare tempo, in realtà ce lo ruba, generando patologie individuali e sociali legate a un fenomeno di contrazione del presente (quell’eterno presente della rete in cui molti di noi si ritrovano per buona parte del giorno). Per descrivere questo stato di cose Rosa parla di “stasi frenetica”: metafora paradossale che a noi ricorda il vortice immobile di una trottola, come in un brutto sogno alla Christopher Nolan.

D’altra parte, anche a voler considerare il medesimo intervallo temporale, l’accelerazione dei numeri e dei profitti dei colossi dello streaming come Netflix, Disney+ e Prime Video, non è affatto statica o paradossale, bensì reale e vertiginosa. Nell’ottobre 2015 Netflix aveva nel mondo 60 milioni di abbonati in 50 paesi; alla fine del 2020 aveva superato il muro del 200 milioni (37 milioni in più solo nel 2020) ed era presente in 190 paesi, con un catalogo diversificato per ciascuno di essi. Se poi si guarda solo all’Italia il 2020 segna un vero boom: dai 2 milioni di abbonati si è passati ai quasi 5 di fine anno (dati peraltro non ufficiali). Ancor più impressionante la corsa di Disney+ che in appena 16 mesi ha raggiunto 100 milioni di abbonati. Sono le “nuove tv”, ancor più pervasive, che dalle nostre smart tv, sempre più integrate con tutti gli altri nostri devices quotidiani, fanno da hub e database informativo primario per le elaborazioni algoritmiche dei nostri provider. Da qui, per esempio, i famosi tassi di “compatibilità” con cui Netflix cerca di influenzarci, in modo spesso subdolo o palesemente incongruo, nelle scelte rispetto alle nostre presunte preferenze di film e/o serie tv. È indubbio, peraltro, il peso acquisito, specie negli ultimi anni, da questi marchi nell’immaginario collettivo di diverse generazioni, grazie all’attività di produzione (e promozione) di contenuti originali – serie, tv e film – e a cataloghi tanto sconfinati quanto carenti (e Netflix ancor di più) di funzioni di orientamento e approfondimenti informativi, tipici delle piattaforme specializzate.

Interno Netflix, © Roberto Nickson, 2019 – pexels.com
Eyes Wide Shut

Se, per definizione, i codici degli algoritmi in base ai quali i motori di ricerca scandagliano, profilano e indirizzano le nostre azioni e dunque le nostre vite restano segreti e ignoti ai cittadini, la frammentazione e la miniaturizzazione della visione si accompagna, e non da ieri, alla moltiplicazione dei dispositivi dell’immagine e dell’immaginario (schermi, display, monitor, videocamere di controllo, eccetera), nei quali guardiamo e da cui siamo guardati, più o meno a nostra insaputa, dall’onnipresente ‘capitalismo della sorveglianza’. Il “tutto è a vista” (on display) segna allo stesso tempo il trionfo e il declino dello sguardo, come ancora Regis Debray aveva ammonito. e come forse suggeriva l’ossimorico titolo del testamento kubrickiano.

È forse davvero “ad occhi chiusi sbarrati” (Eyes Wide Shut) che siamo entrati nell’era digitale dove le immagini – leggere, sintetiche, create sempre più da macchine – e spesso sganciate dal reale, dal loro referente (che nel cinema era il cosiddetto “profilmico”), si trasformano da icone a simulacri per generare autonomamente il reale stesso. Inoltre, ma questa è davvero storia più recente, lo sguardo contemporaneo rischia di essere rimpiazzato dall’“occhio della macchina”, un occhio che si nutre di dati numerici e informazioni visive, che l’Intelligenza Artificiale – in particolare la sua branca del machine learning – consegna ai calcoli dell’algoritmocrazia (tema al centro della sesta edizione del  Festival dei Diritti Umani di Milano) di Google, Netflix, Amazon, eccetera.

Eyes Wide Shut, Stanley Kubrick, 1999. © Warner Bros Pictures

La ‘macchina che vede’ era stata studiata e teorizzata già sul finire degli anni Ottanta dal filosofo francese Paul Virilio, anch’egli celebre per i suoi studi sul tema della dromologia e sull’influsso della velocità sulla società occidentale. Alcuni anni prima, analizzando il rapporto tra guerra e cinema, aveva parlato della “visione senza sguardo”, quella che non presuppone una relazione, essendo spesso non umana, ma proveniente dalla robotica e dalla domotica, da droni, ‘macchine coscienti’, sensori, ecc.
Una visione asimmetrica, spesso unidirezionale come il modello securitario del “Panopticon” insegnava, o comunque mediata, che allontana dall’esperienza, o la anestetizza. Ricordiamo al riguardo come sul piccolo schermo, proprio trent’anni fa, nel gennaio 1991, la guerra diventa spettacolo televisivo globale al quale assistere in diretta comodamente dal salotto di casa: è l’operazione Desert Storm dell’aviazione americana contro l’esercito iracheno, con i suoi effetti speciali delle lunghe sequenze di bagliori nella notte di Baghdad.

Drone sospeso, © Kelly Lacy, 2015 – pexels.com

Credo siano da approfondire gli ulteriori fili che legano da alcuni decenni le trasformazioni nel nostro modo di vedere e nell’utilizzo dei diversi dispositivi con le analisi di Hartmut Rosa. Il filosofo tedesco evidenziava infatti la relazione tra la diversa percezione del tempo indotta in noi dalla spinta esterna all’accelerazione e la crisi odierna di una politica che abdica al suo ruolo e a una visione strategica per rifugiarsi in un tatticismo il cui linguaggio è infarcito di metafore e richiami alla ‘velocità’ (come il “passo in avanti”, il “fare presto”, “ridurre i tempi decisionali”, per fare solo degli esempi) che suggeriscono una deriva post-democratica. Sullo sfondo emerge una crescente dinamica di “privatizzazione dello sguardo”, che resta non condiviso, incapace di generare o rispondere a narrazioni collettive anche in momenti traumatici, ma che in realtà viene quotidianamente alienato, “incamerato” dai grandi players già citati.

Vietato dormire

Kyle Chayka, giornalista esperto di usi e costumi contemporanei, in un recente articolo per The New Yorker parlando del nuovo modello di televisione propugnato dalle piattaforme come Netflix (dentro cui, oggi più che mai, passa una fetta consistente del cinema che vediamo) ha parlato di “ambient television”. Il riferimento era alla “ambient music”, termine coniato da Brian Eno alla fine degli anni Settenta: musica sintetica, adatta a luoghi specifici o a non luoghi come gli aeroporti, che può essere “ascoltata attivamente con attenzione come può essere facilmente ignorata, a seconda della scelta dell’ascoltatore”. Questa televisione cerca di competere ma è forse destinata a soccombere nella sfida col nostro cellulare (anche perché è molto dipendente dall’interazione con quest’ultimo). Sì, possiamo vederla anche senza particolare coinvolgimento (mentale e/o emozionale), come un rumore di fondo, come se lo sguardo fosse una “modalità dell’ascolto” e il visivo fosse diventato “un’atmosfera sonora” (Debray, 1992). Ma questa è solo una faccia della medaglia. In realtà, piattaforme come Netflix e le sue consorelle spingono da sempre per un consumo intensivo che richiede una concentrazione esclusiva: è il noto fenomeno del binge-watching delle serie tv praticato in particolare nelle fasce di età più giovani, e che confina in tutta evidenza con una forma di addiction (ancora più grave nel caso del binge-racing, ovvero il divorare in una sola sera tutti gli episodi di una nuova serie, che Netflix ha equiparato a uno sport…). In tutti i casi, si tratta di una tv sempre accesa, che assomiglia sempre più a un ‘social media’ e rispetto alla quale la nostra possibilità di scelta è tanto vasta quanto apparente.

Può il binge-watching tenerti sveglio la notte? – Fonte: northfloridasleepsolutions.com

“Sleep is my greatest enemy” aveva del resto twittato (e poi spiegato in numerose interviste) Reed Hastings, Global CEO di Netflix, nell’aprile 2017. Il campo di battaglia era chiaro: non i concorrenti come YouTube o Amazon, ma l’unico spazio di libertà ancora riservato agli individui rispetto alle loro attività di produttori e/o consumatori. Il sonno, appunto. Il ‘turbo-capitalismo’ si basa, notoriamente, sul suo funzionamento continuo, 24/7.

In un celebre saggio tradotto in Italia con il titolo 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Jonathan Crary (che aveva già ricostruito i radicali mutamenti della visione indotti dalle scoperte scientifiche e dall’avvento della fotografia nel XIX secolo) esplora attentamente le strategie capitalistiche di “assalto al sonno”, nate dagli esperimenti del complesso militar-industriale americano. La posta in gioco è la fine della separazione tra tempo di lavoro e tempo di riposo, quindi tra vita privata e lavorativa (o di consumo). Ancora una volta, la pandemia avrebbe accelerato la tendenza con l’enfasi sul cosiddetto smart working. Cruciale rispetto a questo obiettivo la disponibilità a una connessione senza interruzioni. Eppure, anche il sonno davanti alla tv (o tablet o cellulare), è attentamente monitorato: dopo aver progettato (ma mai messo in commercio) dei calzini dotati di sensori che percepiscono lo spettatore dormiente e mettono in pausa lo schermo, Netflix sta ora lanciando una funzione di timer per spegnere la tv o il cellulare. Ma, più che preoccuparsi della quantità e qualità del sonno dei suoi abbonati (o della durata delle loro batterie o dei consumi di energia), Netflix sa bene che addormentarsi durante la visione risulta poco performante e produttivo in termini di feed informativi, comportamentali e statistici, con cui nutrire gli algoritmi. Il punto nodale di questi aspetti, solo in apparenza di dettaglio, va ricercato negli sforzi dell’industria di creare tools e sensori tecnologici smart che possono attivare (dunque modificare) i comportamenti umani. Come gli studi della Zuboff hanno messo in luce, stiamo parlando infatti di sviluppi dell’economia comportamentale (al confine tra ricerca scientifica e psicologia), come nel caso della “teoria dei nudge” (traducibile come pungolo, spinta o “gomitata”) che riguarda l’architettura delle scelte che servono a incanalare la nostra attenzione e a dare forma alle nostre azioni. Il campo da gioco è infatti quell’economia dell’attenzione, di cui parlava già alla fine degli anni Sessanta Herbert Simon, declinata oggi sulla rete sconfinata, dove tutti i media e attori competono tra loro quotidianamente per attrarre il nostro tempo e il nostro denaro.

 

Riferimenti bibliografici
  • Arcagni Simone, L’occhio della macchina, Einaudi 2018 ; Visioni digitali. Video, web e nuove tecnologie, Einaudi 2016.
  • Casetti Francesco, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, 2015.
  • Crary Jonathan, 24/7: Late Capitalism and the Ends of Sleep, Verso, 2013 (24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, 2015); Techniques of the Observer: On Vision and Modernity in the Nineteenth Century, MIT Press, 1992 (Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo, Einaudi, 2013).
  • Debray Régis, Vie et mort de l’image. Une histoire du regard en Occident, Gallimard, 1992 (Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, Edizioni Il Castoro, 1999; Edizioni Magonza, 2020).
  • Rosa Hartmut, Beschleunigung und Entfremdung: Entwurf einer kritischen Theorie spätmoderner Zeitlichkeit, Suhrkamp Verlag, 2013 (Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, 2015).
  • Sunstein Cass, Thaler Richard, Nudge: Improving Decisions About Health, Wealth and Happiness, Penguin Book, 2008 (Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità, Feltrinelli, 2014).
  • Varanini Francesco, Le cinque leggi bronzee dell’era digitale e perché conviene trasgredirle, Guerini e Associati, 2020.
  • Virilio Paul, Guerre et cinéma: Logistique de la perception, Editions de l’Etoile, 1984, prima edizione (Guerra e cinema. Logistica della percezione, Lindau 2018); Vitesse et politique, Galilée, Paris, 1977 (Velocità e politica: saggio di dromologia, Multhipla, 1981).
  • Zuboff Shoshana, The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, Public Affairs, 2019; (Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, LUISS, 2019).