Fare il proprio tempo, farsi opera per abitare la memoria

Départ. Courtesy Christian Boltanski e Galerie Marian Goodman. Foto Marco Caccavo, 2015

Con questo articolo dedicato all’artista Christian Boltanski, comincia una nuova collaborazione della rivista con Marco Caccavo, corrispondente da Parigi. Docente di storia, lingua e letteratura italiana al Lycée Victor Hugo e all’Università Paris I Sorbonne, Caccavo si occupa di estetica del XVIII secolo, di storia, letteratura contemporanea e di pedagogia. Ha curato e tradotto la prima edizione italiana de L’uomo morale contro l’uomo fisico di Louis Bertrand Castel e tradotto la prima edizione italiana de L’ottica dei colori dello stesso filosofo.

“Faire sont temps” (fare il proprio tempo) è stata la retrospettiva consacrata all’opera di Christian Boltanski, che morirà l’anno successivo, nel 2020 al Centre Pompidou di Parigi.
Ideata come opera unica e continuativo flusso di memoria, la mostra si compone di oggetti e simulacri delle vite di Boltanski e degli altri.  L’esposizione, come direbbe Joseph Beuys, entra lo spettatore in uno spazio sacro, segnato da un départ e un arrivée; qui il fruitore ripercorre il proprio tempo degli altri riflettendo sul suo sistema di oggetti memoriali e creando inconsciamente il proprio museo per ingressi a venire.

Christian Boltanski, Faire son temps, 2019

Tema centrale, e nodo cruciale dell’interrogarsi artistico di Boltanski, è, infatti, la Memoria. Questa si fa oggetto-testimone vivo che, se messo sotto teca e quindi musealizzato, diventa presenza muta e aperta sul possibile in virtù dell’ontologica difficoltà interpretativa.

Nella sua doppia dimensione memoriale, personale e collettiva, di matrice ricoeuriana, il percorso offerto da Boltanski permette di umanizzare l’anonimato del si muore tramite un’esclusiva archeologia dell’oggetto-ricordo, confuso e precario, che, con la sua presenza fuori tempo e contesto, rende vivo il ricordo perché dimenticato.

Effettivamente, l’interesse della mostra risiede anche nella debolezza dei codici interpretativi a disposizione dello spettatore-archeologo. Questo perché l’esercizio di memoria risulta essere per lo spettatore una libera interpretazione associante il proprio vissuto biografico all’insieme dei presenti a cui la memoria rimanda.

Christian Boltanski, Faire son temps, 2019
Réserve: Les Suisses morts 1991, Christian Boltanski, IVAM, Institut Valencia d’Art Modern.
Foto Marco Caccavo, 2019

Tra fotografie, indumenti, veli che ricordano impressioni di sindone, lampadine che rammentano la fragilità del vivere e scatole-reliquari che sigillano il pieno non visibile, la presentazione di Boltanski è soprattutto invito alla trasmissione del proprio tempo, alla sua connessione coi tempi degli altri. Fare il proprio tempo, dunque, affinché il tempo venga raccontato, affinché ognuno di noi possa aver diritto al proprio memoriale, alla propria teca di oggetti in disordine e quindi al proprio gioioso oblio interpretativo.

Se è vero che ogni arte è nel tempo, pare tuttavia che la pratica artistica di Boltanski sia anch’essa soggetta alla temporalità come, d’altra parte, sostiene lo stesso artista quando afferma: «prima ricevevo lettere, oggi ci sono le mail». Probabilmente, Boltanski allude a una memoria, quella numerica, che sfugge alla sua pratica di artista che vive i tempi supplementari della vita.

 

Crépuscule, Archives Christian Boltanski. Foto Marco Caccavo, 2019

L’attuale numerizzazione della memoria alla quale affidiamo il nostro museo-memoriale produce un diario virtuale quali sono le principali piattaforme di condivisione online. Queste potrebbero mettere a repentaglio la costruzione fattuale-oggettiva del proprio museo, quando lo affidiamo con un click a mecenati che lo stanno allestendo privatamente e, forse, a nostra insaputa in server ospitati chissà dove.

Cosa ne è, quindi, del ricordo? L’oggetto-ricordo, prima confuso e vivo, potrebbe essere spogliato della sua dimensione temporale per essere reso attuale e presente, ma soprattutto controllato e oggetto di baratto-monetizzazione. La questione sollevata da Boltanski pare essere legata alla materialità del ricordo, alla sua traccia viva. Oggi, l’internauta, che come tutti ha diritto al proprio museo, affida invece quello-che-ha-fatto-nel tempo a un algoritmo che seleziona, valuta e stocca i propri ricordi. La memoria, diventa così un sistema ripulito, organizzato, ordinato su base algoritmica con criteri a noi oscuri.

Inoltre, ci si potrebbe interrogare sulla temporalità della memoria nell’epoca dei social media. Una fotografia scattata seduta stante per ricordo e immediatamente postata a quale categoria temporale appartiene? Quella della memoria-presentista che indurrebbe una paradossale archeologia del presente?

Christian Boltanski, Animitas Chili, frame, 2014. Foto di Marco Caccavo

Infine, quale valore per il post-ricordo-traccia nell’era dei social? La sua messa a disposizione generalizzata per milioni di utenti frettolosi andrebbe a cozzare col necessario atto di sospensione intellettuale per iniziare la storia della memoria. Narrazione che poi sarebbe solo accennata e superficiale perché il ricordante non sarebbe ricordato il giusto a causa del rapido flusso numerico indotto dai ricordi degli altri.
L’internauta così correrebbe il rischio di inseguire la migliore memoria a venire, svilendola di senso. Magari di costruirsela a tavolino seguendo i parametri estetici più in voga, quelli che porterebbero più mi piace, non rendendosi forse conto di destinarla e destinarsi, così facendo, al reale museo dell’anonimato.

Monument collège d’Hulst 1986, Christian Boltanski. Courtesy Kewenig Galerie. Foto Marco Caccavo, 2019

 

FONTI

Christian Boltanski: l’art et la mémoire. Trasmissione radio France culture , Parigi, 2019.
Christian Boltanski, Faire son temps – Au Centre Pompidou. Connaissances des arts – hors-série, Parigi, 2019.
Boltanski, faire son temps. Dossier de Presse, Centre Pompidou, Parigi, 2019.