I Owe You – CC/MM

Claude Cahun, Autoritratto, 1928. Courtesy of Musée d’art de Nantes

Uno schizzo su carta del 1909, una scarpa a tacco alto sostiene un occhio, sormontato da due labbra sulle quali è appoggiata una mano. Nella parte alta del foglio, come in una composizione araldica, si leggono le lettere LSM. Sono le iniziali intrecciate di Lucy Schwob e Suzanne Malherbe. La pronuncia di queste consonanti suona come elles s’aiment, una reciproca dichiarazione d’amore. Le labbra e la mano appartengono a Claude, la parte che parla e scrive, mentre di Suzanne sono l’occhio e la scarpa, che della coppia è lo sguardo e la solida base d’appoggio. La necessità di ciascuna di queste parti e l’assenza di gerarchie richiede una perfetta fusione che può essere data solo da una relazione d’amore. Mani e labbra, occhi e scarpe diventano i simboli esclusivi e ricorrenti per descrivere e rivelare un’alleanza perdurante, una compenetrazione di anime e di stati d’animo. Un discorso su Claude Cahun, dunque, non può che essere esteso a Marcel Moore, fino a inglobarla nella monade LSM. «Usciamo dal nostro superbo isolamento e attingiamo dal mondo. Il mio amante non sarà più il soggetto del mio dramma, sarà il mio collaboratore. […] Io sono uno, tu sei l’altro. O il contrario.», scrive Claude in Aveux non avenus (1930).

Claude Cahun, Elles s’aiment, 1909, Courtesy of Jersey Heritage Collection

Le biografie rendono ancora più evidente la dimensione e la forza del loro legame. Claude Cahun, pseudonimo di Lucy Renée Mathilde Schwob, nata a Nantes il 25 ottobre 1894, è la figlia ribelle di Maurice Schwob, proprietario e direttore del giornale Le Phare de la Loire. Suzanne Alberte Eugénie Malherbe, figlia di Albert Hyppolite, nasce il 19 luglio 1892. Anche lei, come Claude, è un’artista, che adotta lo pseudonimo Marcel Moore. Gli Schwob e i Malherbe, appartenenti all’alta borghesia di Nantes, si frequentano dagli inizi del secolo e, come annota François Leperlier, le due giovani donne hanno modo di conoscersi sin dall’infanzia. Nel 1917 il padre di Claude sposa la madre di Suzanne, rimasta vedova nel 1915: una strana coincidenza, che le rende sorelle oltre che amanti. Claude seguirà corsi di letteratura e filosofia alla Sorbona, mentre Suzanne studierà pittura e disegno all’Accademia di Belle Arti di Nantes fino a quando, nel 1920, si stabiliscono a Parigi e diventano inseparabili. 
Lucy Schwob si dà un nuovo nome, Claude Cahun. Claude, nella lingua francese, è in sospeso tra il genere maschile e quello femminile, mentre la scelta di rinominarsi Cahun, come Marcel Duchamp con Rrose Sélavy, rafforza per paradosso le sue origini ebraiche. La scelta di attribuirsi, «il mio vero nome piuttosto che uno pseudonimo», scrive Claude, rappresenta un segno di gratitudine verso la nonna paterna Mathilde, che ha colmato il vuoto lasciato dalla madre, internata in un manicomio. 

Una mostra fotografica che prende avvio da uno schizzo a matita dichiara implicitamente una natura ibrida, specialmente quando è costretta, per non tradire il senso della narrazione ed evidenziarne la ricchezza formale, a utilizzare fotomontaggi, collage, elaborazioni di oggetti costruiti o trovati. Senza contare che le fotografie sperimentano le diverse possibilità offerte sia in sede di ripresa che in camera oscura e spesso, all’interno dei fotomontaggi, si possono leggere citazioni tratte da opere letterarie o parole e frasi che completano il senso dell’immagine. Claude Cahun/Marcel Moore, insomma, è un’artista a tutto tondo, che utilizza un miscuglio di approcci stilistici e non può essere circoscritta al solo ambito fotografico.

Claude Cahun, Aveux non avenus, 1930, Book, Private Collection Alberta Pane/Patrice Garnier

Non appena, però, ci si interroga sull’oggetto della sua ricerca o la fonte della sua ispirazione, si rimane senza risposta: non vi sono paesaggi, strutture, ritratti tout court, ma un universo popolato da simboli. Riaccostare due parti spezzate per verificarne l’autenticità e ripristinarne l’unità era, in antico, il significato del simbolo. Ed è proprio in questa accezione che il simbolo visivo della loro unione si presta alla comprensione del sodalizio CC/MM. L’identità di Claude Cahun è incerta e inesprimibile fino a quando non incontra e va a saldarsi con quella di Marcel Moore, il pezzo che serve a completarla. E naturalmente vale il contrario. La mano sta in cima a quello strano stemma solo perché una salda calzatura ne regge l’impianto, e l’occhio può scrutare o ammirare solo se una bocca gli dà voce. Per CC/MM, il simbolo, oltre che unione, significa dialettica, dinamismo, movimento. 
Nella foto che segue il disegno iniziale vi è un doppio ritratto delle due donne, ma l’abrasione sul volto di Claude dichiara che la sua identità non è un dato certo e stabile, è solo un caso nell’oceano delle possibilità. L’elemento liquido è ben presente nelle immagini di CC/MM, magari sotto le spoglie di una boccia di cristallo nella quale si annida un essere pronto a mordere la mano. La liquidità della sessualità, sembra dire la Cahun, ha i suoi rischi, ma vale la pena correrli. Tutte le sue raffigurazioni, la parola ritratto implica staticità e va quindi evitata, giocano sulla mimesi, l’ambiguità, la trasformazione, la finzione, l’impossibilità di fissare il transeunte. 
Emblema di questa perenne metamorfosi è l’immagine di due maschere appoggiate sulla spiaggia. “Entre nous” si legge sulla sabbia. Nulla di più labile di una maschera, involucro e simulacro che disloca la verità perennemente altrove, e della sabbia, materia plasmabile e modificabile all’infinito. Fra due maschere dunque, la sabbia evoca qualcosa che si è eroso e si insinua come elemento di instabilità. 
In un’altra immagine anche la mano, solitamente considerata un punto fermo, è affetta da qualcosa che la sta minando. Il suo colore nero, che emerge da una massa informe e scura, denuncia una natura patologica.  E se la mano è la marcatura di una presenza, un segno che equivale a un “io sono stato qui”, il nero evoca il lutto. Ogni metamorfosi presuppone una morte simbolica, ed ogni cambiamento proviene dagli enigmi del possibile e dell’ignoto.

Claude Cahun, Aveux non avenus, 1930, Book, Private Collection Alberta Pane/Patrice Garnier

Claude Cahun, in quanto antesignana del rifiuto di una sessualità determinata e stabile, potrebbe essere considerata una queer ante litteram. Ha un corpo politicamente e culturalmente destabilizzante, coscientemente sottratto alla funzione della riproduzione e al dominio dell’utile economico. Coerentemente, si rivolge verso il mito sterile dell’androgino. Un sogno, l’illusione dell’autosufficienza divina che si materializza nella forma di un unico corpo. L’androgino è l’immagine della pienezza dell’essere, la compresenza degli opposti elementi maschile e femminile, l’armonia che nasce dal loro reciproco equilibrio, come nelle antiche cosmogonie, modellate sulla fluidità bisessuale, o nella tradizione alchemica, dove la pietra filosofale viene generata dall’unione dello zolfo attivo con il mercurio passivo. L’androgino non rappresenta soltanto l’umana nostalgia dell’interezza, come evidenziava Elémire Zolla nel sottotitolo di un suo libro, e nemmeno l’illusione dell’autosufficienza perfetta, ma l’immagine ideale per ripensare l’idea di confine tra maschile e femminile, limes mobile e ambiguo, eletto a contestare la fissità della forma, della norma, dell’identità. «Neutro è il solo genere che fa per me», scrive Claude in Aveux non avenus, sottraendosi alla naturale imperfezione di un corpo generato, inclinando verso l’ambizione artistica alla perfezione di un corpo ideale. I am in training don’t kiss me, si legge sul petto di Claude, in un autoritratto in cui è travestita da clown. È il suo manifesto programmatico: non identificarsi con nessuno, essere in progress e in fieri.

Claude Cahun, Aveux non avenus, 1930, Book, Private Collection Alberta Pane/Patrice Garnier

Un air de famille è l’immagine di un piccolo letto sul quale scivola un velo sorretto da una corona fiorita. Sul lenzuolo si scorgono vari oggetti, come se fossero stati recuperati da un lontano passato. Al centro, sul supporto di legno che sostiene il velo candido, c’è un foglio dove si legge un messaggio: 

“dANGEr – manger – m ange z – menge – je mens – mange – ge manje”.

L’identità liquida si declina qui in gioco linguistico, dove un piccolo spostamento di lettere è capace di determinare uno stravolgimento di senso: un angelo si cela dentro il pericolo, il suono del mangiare impercettibilmente diventa il silenzio del mentire, che torna ad essere il suono invertito del mangiare. L’artista evoca la figura dell’angelo, il suo essere asessuato, e pone l’accento sul verbo mangiare, ne altera il senso sino a farlo fuoriuscire dal verbo mentire, mens, in un gioco di slittamento di significati del tutto simile a quello dei travestimenti. In un’altra immagine Claude ha i capelli corti e il volto abbronzato. Il suo abito a scacchi, il gioco che simula la guerra, evoca il desiderio di un corpo da conquistare, ma anche un terreno su cui sperimentare un’infinità di strategie. 
In questi territori nulla è mai dato per sempre. A farne le spese sono anche istituti arcaici, come la famiglia, sottoposta a una critica nichilista. Claude dissacra l’immagine di suo padre, ne sminuisce il potere, si vendica della sua ostilità. «Avevo consegnato fra le sue mani un pacco di pagine dattilografate – le più impubblicabili – attendendomi il peggio… Me le rese, con aria inflessibile, senza commenti. Preferiva non sapere», scrive in Confidences au miroir (1945). Nell’opera Le père, il padre è in realtà una sagoma androgina, che ricorda una marionetta con gli attributi sessuali ben evidenziati. Ma è anche una proiezione di sé, del suo essere androgina, in maniera analoga a ciò che scriveva Antonin Artaud in Ci-gît (1947), dove l’autore giunge a definire la propria simbolica autogenerazione in una dimensione inscindibile dalla generazione delle sue opere: 

Io, Antonin Artaud, sono mio figlio, mio / padre, sono mia madre, / e sono io; / sono colui che ha abolito il periplo idiota nel / quale si ficca l’atto del generare, / il periplo papà-mamma / e il bambino.

Claude Cahun, Le père, 1932, Private Collection Alberta Pane/Patrice Garnier

Ad essere evirato non è solo il padre reale, ma anche chi si atteggia a Padre. Deve subire l’evirazione non solo il padre biologico, ma tutti i padri in quanto tali. Si comincia con il Padre Eterno e si continua con il “piccolo padre”. La Poupée costruita con il giornale l’Humanité, organo del partito comunista francese, obbediente a Stalin, è l’irrisione anarchica verso chi ha la pretesa di stabilire ruoli e gerarchie nel mondo terreno. Non è questa l’unica apertura alla politica che è possibile leggere nell’opera di CC/MM, essendo ben nota la loro attività di resistenza antinazista sull’isola di Jersey, per la quale furono condannate a morte. 
Claude non risparmia nemmeno la madre, Marie Antoinette Courbebaisse, alla quale concede solo un moto di umana pietas per le tristi vicende accadutele. Nella fotografia ha il volto di Elle, la sfortunata moglie di Barbablu, che Claude aveva interpretato a teatro nel 1929. L’abito attraversato da una cucitura che ricorda una cicatrice, i capelli raccolti intorno al capo, lo sguardo e le labbra marcati da un trucco pesante mettono in risalto il viso di un biancore cadaverico, che ricorda la sua condanna a vivere reclusa. «Mio padre mi tiene sulle sue ginocchia. Sta per accendere uno scaldino dalla forma di bara a grandezza naturale, e io mi accorgo che contiene mia madre che sta per incenerirsi dolcemente.», scrive sulla rivista Le Disque vert, allora diretta dall’amico Henri Michaux. 
E proprio pensando alla madre, Claude si rende conto che la sua salvezza sta nell’arte. La scrittura, la fotografia, il travestimento, nutrite dal sodalizio con la compagna, sono l’antidoto alla solitudine e alla follia, come rivela l’ultimo fotomontaggio in Aveux non avenus. La parte superiore è occupata da una costruzione piramidale entro la quale viene raffigurata una famiglia: il padre, pronto a scagliare un mazzo di saette, tiene prigioniera la madre e trattiene il figlio afferrandogli i capelli. Poco sotto si vede una sequela di volti. Il cartiglio recita e spiega: Sotto questa maschera un’altra maschera. Non finirò mai di scoprire tutti questi volti. Il titolo, I.O.U. (self-pride), si pronuncia come “You”, ma è anche una fusione fra “I” e “You”. Il penultimo capitolo di Aveux non avenus, come la risoluzione di un indovinello, si intitola “I OWE YOU”.

Mostra: I Owe You – Claude Cahun/Marcel Moore, selezione delle opere a cura di Silvia Mazzucchelli
Galleria Alberta Pane, Venezia
Il testo qui pubblicato è presente nel libro I OWE YOU Claude Cahun / Marcel Moore, Edizioni Alberta Pane.
Dal 21 aprile al 27 agosto 2022.