Il Selfie come progetto editoriale
#Artselfie

Douglas Coupland, ArtSelfie, (Jean Boîte Éditions, 2014)

Grazie all’avvento del digitale e all’integrazione delle fotocamere nei cellulari, negli ultimi 20 anni abbiamo assistito ad una democratizzazione della fotografia che ha portato alla nascita di nuovi generi e fenomeni come il Selfie, parola inventata attorno al 2000 nei siti anglofoni e oggi diffusa e conosciuta ovunque.
Il secolo della fotografia democratica ha visto l’affermarsi del Selfie che è diventato un vero e proprio genere della fotografia, come il ritratto o il paesaggio, e si distingue nettamente dall’autoritratto canonico. Il Selfie è immediato poiché l’apparecchio fotografico è tenuto direttamente in mano e questo permette di scattare una raffica di fotografie. 
A rendere Il Selfie il genere più diffuso e democratico è lo smartphone una vera estensione di noi stessi, e illusorio amplificatore delle nostre relazioni sociali, poiché ci permette immediatamente di “condividere” le nostre esperienze in modo compulsivo. Alla base del Selfie c’è infatti, l’intenzione della condivisione e dell’approvazione della propria immagine, esso è eseguito per essere postato in qualche social, è il frutto dell’esigenza di stupire un pubblico virtuale dal quale si attendono feedback generosi, simulando una vita da Celebrity.
L’immagine di noi stessi diventa la testimonianza della nostra esistenza e presenza, tanto da far diventare il gesto del Selfie una sorta di tic, un gesto compulsivo amplificato dalla facilità di esecuzione e dall’elevato tasso di controllo che si ha dell’esito. 
Nel caso in cui sia preso di fronte allo specchio, la fotografia include lo smartphone stesso nell’immagine, mostrando la marca dell’apparecchio o la cover, elementi che come il nostro look, contribuiscono a dichiarare l’appartenenza ad una “tribù”.
Sarebbe interessante scoprire quale fonte di informazioni potrebbero rappresentare queste fotografie per l’umanità del XXIV secolo, quando qualche studioso si imbatterà in archivi digitali grandi come palazzi, che contengono miliardi di questi diari sotto forma di immagini, fotografie che non sono al servizio della memoria, ma sono il frutto del tentativo di trasformare ogni accadimento del quotidiano in un evento. Provocando, così come dice Jean Fontcuberta, una fusione tra l’evento e la sua registrazione: «Evento e registrazione fotografica si fondono […] Non esistono più fatti sprovvisti di immagini e la documentazione e la trasmissione del documento sono fasi indissociabili dall’evento stesso.» (Jean Fontcuberta,  La Fotocamera di Pandora, Contrasto, 2012).

Jean Fontcuberta, La Fotocamera di Pandora (Contrasto, 2012)

Tutto questo non poteva non interessare artisti come Alec Soth, ammirato dall’incredibile efficienza intrinseca in questo modo di comunicare. Alec Soth usa il medium per riflettere sul medium stesso e così produce dei meta-selfies o come li chiama lui “unselfie”, autoscatti in cui oscura o camuffa il suo viso. Possiamo definirlo un tentativo di sottrarre elementi per compensare la ridondanza “autoriale” che precede la fotografia stessa nel post su qualche social-network.
Un’evoluzione interessante sono gli ArtSelfie, oggi decaduti, forse anche a causa delle chiusure dei musei nei mesi scorsi a causa della pandemia.
Douglas Coupland in ArtSelfie, (Jean Boîte Éditions, 2014) dichiara: «I selfie sono specchi che possiamo congelare» nei quali nello specifico facciamo interagire lo schermo perpetuo dell’I-phone con l’opera alle nostre spalle che insieme al nostro ritratto vengono subito risucchiati dal web.

Douglas Coupland, ArtSelfie, (Jean Boîte Éditions, 2014)
Douglas Coupland, ArtSelfie, (Jean Boîte Éditions, 2014)
Douglas Coupland, ArtSelfie, (Jean Boîte Éditions, 2014)

L’emergere dell’hashtag #artselfie nel 2012 ha facilitato l’unione di due prodotti culturali: l’arte visiva (in particolare contemporanea) e il fenomeno del selfie. L’hashtag #artselfie è stato promosso dal collettivo DIS di New York generando un vero e proprio archivio su Instagram di persone che si fotografano davanti alle opere d’arte. L’arte diventa utile anche alla costruzione del proprio Avatar e fornisce ad un secondo livello di lettura informazioni sul soggetto diventando un complemento sofisticato nella costruzione delle nostre identità virtuali. Oggi si tiene conto anche del tasso di instagrammabilità di un ambiente commerciale perché venga apprezzato dal grande pubblico  e visto l’abuso di #artselfie viene da pensare che gli allestimenti museali siano anch’essi oggetto di questa particolare attenzione in fase di progettazione. Nel frattempo il Selfie è diventato opera d’arte con il lavoro di Amalia Ulman Excellences and Perfections del 2014. L’artista attraverso un lavoro molto ben strutturato, curò il suo profilo Instagram come se fosse una vera e propria influencer prima dell’esplosione del fenomeno del “influencer-marketing” e, tra messaggi spirituali e autocelebrazioni varie, aveva progettato un personaggio basato su immagini popolari che alcune ragazze benestanti e giovani spesso postavano su Instagram, facendo leva sulla semplicità con cui il pubblico si lasciava manipolare (“massaggiare”) dalle storie raccontate attraverso i media e proponendo una caricatura gelida della società occidentale contemporanea, come del resto fa il Selfie

Amalia Ulman, Excellences and Perfections (2014)