IMMAGINI IN GUERRA

© Livio Senigalliesi – Mosca, URSS, agosto 1991 – Il busto di Lenin nel Palazzo dei Deputati del Popolo all’interno delle mura del Cremlino durante i giorni del Golpe che sancirono la fine del Comunismo. Courtesy dell’autore.

Uno degli argomenti più dibattuti in queste settimane di guerra riguarda il ruolo delle immagini nel determinare la comprensione dei fatti che stanno accadendo. Che i fatti accadano non è in discussione – anche se c’è sempre qualcuno che pensa di essere su Matrix –, ma si fa sempre più strada il dubbio, se non la certezza, che più immagini si vedono e meno si capisce cosa accade. È un fenomeno non così strano se ci si pensa, sia perché non è detto che l’accumulo di informazioni sia di per sé positivo ma anche perché le informazioni non sono, o non diventano, automaticamente conoscenze. Inoltre, l’uso delle immagini nel raccontare le guerre è stato contrassegnato da due fenomeni, uno più recente e l’altro di lunga durata, che ne determinano un certo grado di problematicità. Quello più recente è la proliferazione dei dispositivi video-fotografici che consentono ormai a chiunque di realizzare foto e video di buona qualità e fa sì che tutti coloro che sono presenti sulla scena di guerra possano con minimo sforzo produrre migliaia di scatti e riprese.

© Livio Senigalliesi – Mosca, URSS, agosto 1991 – Il colpo di Stato in Unione Sovietica fu un piano organizzato nel 1991 da parte di alcuni membri del governo sovietico e apparati dell’esercito per deporre il presidente Mikhail Gorbačëv e prendere il controllo della nazione. I risvolti politici che ne seguirono, segnarono la dissoluzione dell’URSS e la presa del potere di Boris Eltsin. Nella foto un reparto di mezzi corazzati nelle strade del centro di Mosca prende posizione nelle zone strategiche intorno al Cremlino e al Parlamento Russo. Courtesy dell’autore.

Quello invece di lunga durata ha a che fare con la concorrenza tra i mezzi di informazione e quindi con la necessità di contrastare l’alzarsi della soglia di attenzione del pubblico, reso inerte da anni di immagini via via sempre più cruente e desideroso (“ghiotto e intollerante”, avrebbe detto Giacomo Debenedetti) di “poter vedere” sempre di più. Per paradosso, l’altra “guerra” che si combatte è quindi quella tra le immagini e la vince chi si rende capace di attirare l’attenzione dello spettatore. L’autocensura che contraddistingueva la pubblicazione dei primi reportage fotografici di guerra (guarda caso, la prima guerra fotografata fu combattuta sul suolo russo, nella Crimea del 1853) e che faceva sì che si evitasse di pubblicare immagini ritenute eccessivamente scioccanti, ha lasciato spazio a una deriva “pornografica” e ciò che prima si riteneva “osceno” (ciò che è “fuori scena”, cioè ciò che non va rappresentato) è diventato abituale e ha portato ad una tale assuefazione che è arduo immaginare oggi quali potrebbero essere delle immagini in grado di scandalizzare i più. 

© Livio Senigalliesi – Mosca, URSS, agosto 1991 – Dimostranti pro-Eltsin sulle barricate intorno al Palazzo del Parlamento durante i giorni del Golpe che sancirono la fine del Comunismo. Nella foto sono presenti due simboli significativi: il crocifisso e l’aquila bicefala degli zar. Courtesy dell’autore.

Il risultato di questo fenomeno è che è sempre più difficile per i mezzi di informazione resistere alla tentazione di “costruire” le immagini allo scopo di renderle più “vendibili” sul mercato. Costruire le immagini può voler dire molte cose, dal fotoritocco, che si limita ad apportare qualche miglioria a un’immagine preesistente, alla computer grafica che le “inventa” dal nulla. L’evoluzione tecnologica, inoltre, è ormai avviata a rendere indistinguibili le immagini reali da quelle create al computer, ed è facile intuire cosa ne deriverà sul piano della credibilità e dell’affidabilità di ciò che vediamo o crediamo di vedere. Da queste premesse dovrebbe risultare chiaro e incontrovertibile che le immagini sono mappe, non territori; delle mappe hanno la forma (in genere, quadrata o rettangolare) e la funzione, nel senso che servono a orientarci secondo le indicazioni (e le intenzioni) di chi le ha prodotte. Le immagini sono superficiali, nel senso che sono bidimensionali, e illusorie. La profondità di campo è un artificio tecnico e serve a dare l’illusione di tridimensionalità. 

© Livio Senigalliesi – Mosca, URSS, agosto 1991 – Questa rara immagine è stata scattata all’interno del Cremlino il primo giorno del colpo di Stato e fissa il momento in cui gli agenti del KGB circondano Mikhail Gorbačëv che venne tenuto sotto sorveglianza per alcuni giorni nella sua dacia in Crimea. Quando tornò a Mosca dovette rassegnare le dimissioni nelle mani di Boris Eltsin e sancire di fronte al Congresso dei Deputati del Popolo la fine del Comunismo e dell’Unione Sovietica. Courtesy dell’autore.

Grandi direttori della fotografia del cinema, a partire da Gregg Toland, hanno capito e sfruttato magistralmente le capacità espressive di questo tipo di artifici e hanno educato gli spettatori a credere che il mondo esterno sia un mondo normalmente “a fuoco”. Le generazioni nate prima con la televisione e poi con il computer, hanno così introiettato l’erronea convinzione che ciò che si vede sia “naturalmente” a fuoco e tendono a ignorare che la messa a fuoco è invece una scelta, tra le tante, che il fotografo e l’operatore, debbono ogni volta compiere. Le immagini sono indagini (e non sfugga che, in italiano, sono solo due le lettere che differenziano i termini), nel senso che sono il frutto di una scelta indagatoria da parte di chi le ha realizzate e invitano noi che le guardiamo a indagarne il senso, il contesto, il significato.

© Livio Senigalliesi – Mosca, URSS, agosto 1991 – Boris Eltsin protetto dagli agenti del Kgb parla alla gente raccolta intorno al Parlamento durante i giorni del Golpe che sancirono la fine del Comunismo. Courtesy dell’autore.

© Livio Senigalliesi – Mosca, URSS, agosto 1991 – Funerali dei giovani uccisi durante gli scontri tra reparti dell’esercito e manifestanti durante i giorni del golpe. Alle esequie partecipò più di un milione di persone. Courtesy dell’autore.

Le immagini non sono che una rappresentazione della realtà (nessuno è mai riuscito a mettere del tabacco nella pipa disegnata da Magritte) e sono, nella migliore delle ipotesi, discorsi, racconti, narrazioni. Quindi, in ultima analisi, anche quando riguardano un particolare oggetto, sono soggettive.  Un soggetto è chi le produce, e un soggetto è chi le guarda. Un soggetto che parla di un oggetto, fa comunque un discorso soggettivo. Curiosamente anche chi (o cosa) è fotografato viene chiamato “soggetto”; in tal modo non c’è nessun oggetto presente sulla scena, e l’oggettività scompare definitivamente. Il “però” di tutte queste affermazioni è che, nonostante tutto quello che si è detto, siamo normalmente convinti che vedere un’immagine significhi conoscere la realtà che l’immagine rappresenta, avendo attribuito alla visione il compito di farci avvicinare il più possibile alla verità delle cose. Anche qui, se fossimo di lingua madre francese, potremmo divertirci a giocare sull’assonanza tra “voir” e “savoir”. Vedere è sapere? Certo, ma cos’è che sappiamo? Sappiamo che c’è qualcuno che ha scattato una fotografia, o ha fatto una ripresa video, che ha selezionato una porzione di realtà e, nel caso della ripresa video, una porzione di tempo, e quindi (tralasciando per il momento – sempre nel caso della ripresa video – la cruciale questione del montaggio) ha scelto di mostrarcela. 

© Livio Senigalliesi – Mosca, URSS, agosto 1991 – Automobili in coda ai distributori di benzina. Nei giorni del golpe scarseggiavano carburante e generi alimentari. Courtesy dell’autore.

A questo punto, la “palla” passa allo spettatore, la cui caratteristica principale è che è sempre “distante” da ciò che l’immagine rappresenta (etimologicamente, siamo tutti “tele-vedenti”) e non ha alcun modo di conoscere qualcosa di diverso da ciò che l’immagine rappresenta, l’immagine è tutto ciò di cui dispone. In taluni casi, può certamente ricorrere all’autore, sia interpellandolo direttamente, quando possibile, sia rifacendosi alla sua “storia” di fotografo, alla sua poetica, al suo stile, ai suoi precedenti. Oggi, però, nella maggior parte dei casi le immagini che arrivano dal fronte non ci danno nessuno di questi elementi e non ci forniscono nessuna di queste possibilità. A questo punto, direbbe McLuhan, dobbiamo esaminare il “medium” e così ricaveremo indicazioni sul “messaggio”.  I mezzi di comunicazione che aveva in mente lo studioso canadese, quando, oltre cinquant’anni fa, scrisse il saggio in cui è presente la famosa locuzione di cui sopra, erano in particolare la stampa, la radio e la televisione e, soprattutto, i proprietari di questi mezzi erano pochi, ricchi, borghesi e occidentali. Oggi tutto ciò è stato profondamente modificato dalla diffusione dei social media e, seppure non è questa la sede per discutere se essi siano un fattore di maggiore democraticità o, viceversa, abbiano dato la stura alle tesi più deliranti (magari sono vere entrambe le cose), è indubbio che la geografia dei mezzi di comunicazione è radicalmente cambiata.

© Livio Senigalliesi – Mosca, URSS, agosto 1991 – Giovani fedeli di rito ortodosso portano in processione la statua della Madonna in piazza Rossa fino alla Cattedrale di San Basilio. L’immagine rappresenta simbolicamente il cambiamento sociale scatenato dal golpe che ha sancito la fine del Comunismo. Dai tempi della Rivoluzione d’Ottobre era infatti proibita ogni pratica religiosa e le chiese erano chiuse o usate per altri scopi. Courtesy dell’autore.

La loro autorialità quindi dovrebbe passare in secondo piano e, in effetti, le foto pubblicate sui giornali non riportano quasi mai il nome dell’autore. Ciò induce chi le guarda a ritenere che esse in qualche modo “si siano fatte da sole”, le “oggettivizza”, ne aumenta il portato di verità. Ma anche questo, ovviamente, è illusorio. Alle redazioni dei giornali o delle televisioni arrivano migliaia di immagini, senza contare quelle che si trovano in rete, e la scelta di pubblicarne alcune scartando le altre, è una scelta le cui ragioni andrebbero indagate molto più a fondo di quanto il lettore o lo spettatore faccia abitualmente. Anche volendo ignorare le possibilità manipolatorie di cui oggi si dispone grazie alla tecnologia, non si può e non si dovrebbe mai dimenticare che le immagini sono doppiamente “parziali”: mostrano una “parte” della realtà e chi ce le mostra non è su un pianeta diverso dal nostro, non può sporgersi al di fuori e guardare da un punto di vista esterno, ma è anch’egli “parte” di quella stessa realtà di cui l’immagine fa parte, e ce la mostra a “partire” da una determinata posizione (estetica, psicologica, professionale, politica…). Che fare quindi del profluvio incessante a cui siamo quotidianamente sottoposti? Non possiamo ignorarlo, non possiamo esserne soverchiati, ciò che possiamo fare è porci in una posizione “critica” nei suoi confronti, dove la parola “critica” va intesa nel suo significato etimologico: distinguere e giudicare.

© Livio Senigalliesi – Mosca, URSS, agosto 1991 – Maschere con i volti dei padri del Comunismo russo in vendita al popolare mercato Izmailovo dopo i giorni del Golpe che sancirono la fine del Comunismo. Courtesy dell’autore.

LIVIO SENIGALLIESI
«Sono un giornalista che documenta la guerra e va nelle scuole per parlare di pace.»
Le immagini associate a questo articolo provengono dall’Archivio del fotografo Livio Senigalliesi e sono parte di un lungo reportage svolto nella DDR e, nell’agosto 1991, a Mosca. Per approfondire il lavoro di questo autore si veda il suo sito.