Octavio all’ombra di Elena

Elena Garro e Octavio Paz negli anni Cinquanta

Ma è una loca! Una pazza. Sbotta sorpreso il mio amico messicano, quando mi chiede a proposito di chi sto scrivendo. Un amico colto, di fine intelligenza, docente universitario, appartenente alla buona borghesia, al mondo delle lettere, delle case editrici. Il mio amico esprime sinceramente, con sorpresa, la vulgata editio, l’opinione comune diffusa dai mass media e ripetuta nei salotti.
Elena Garro, che fu moglie di Octavio Paz, è una pazza.
Cerco invano di argomentare. Al mio amico appare strano questo mio prendere Elena come immagine esemplare di una stagione letteraria, e il mio conseguente sminuire la gloriosa immagine di Octavio. Eppure viene fuori, parlando, che il mio amico ha anche conosciuto personalmente Helena Paz, la figlia di Octavio e Elena.
Octavio Paz, il poeta laureato, il saggista acuto, il premio Nobel, il paludato eroe di una letteratura nazionale, il re dei salotti, il sovrano dispensatore di fama, di successi editoriali e di borse di studio. L’immagine di Octavio dev’essere pulita da ogni macchia. Gli inciampi e le pieghe che stanno dietro la lussuosa illustre apparenza devono essere rimossi. O almeno devono restare nascosti. Esporre al ludibrio Elena è ripulire il terreno per la gloria di Octavio, campione della letteratura maschile, virile. Elena che interviene in incontri letterari con domande inopportune, Elena che invita gruppi di indios nel salotto di casa.
Elena è una loca, una pazza inaffidabile, o al menos trastornada: squilibrata, disturbata, via di testa, dicono i sodali del grande poeta, i seguaci, gli ammiratori genuflessi. Octavio l’ha sopportata anche troppo, dicono. Povero Octavio, costretto a questo peso. Distolto dal suo lavoro intellettuale, dai suoi affari letterari, da questa fastidiosa presenza terrena, carnale. Da questa compagna che si rifiuta di stare al suo posto, che non riesce a starsene zitta.
Elena denigrata: è una mitomane. Così opinionisti compiacenti dalla parte di Paz bollano Elena. Elena anche accusata di essere una spia del governo, quando semmai era sorvegliata per il suo sostegno a rivendicazioni di nativi americani. Elena attacca il governo, la corruzione del sistema politico post-rivoluzionario dominato per oltre settant’anni dal PRI, Partido Revolucionario Institucional, denuncia i massacri dei contadini tesi a sottrarre loro la terra, denuncia i proprietari terrieri e i funzionari coinvolti nelle espropriazioni. Pubblicamente, attraverso il suo attivismo, i suoi articoli e i suoi reportage giornalistici.
Le denunce di Elena si rivelano fondate. C’è del vero laddove qualcuno vorrebbe ci fosse solo il pensiero di una mente malata. Eppure si dice: Elena vede nemici, complotti, è vittima della sua immaginazione.  Le buone maniere e le colleganze consigliano Octavio alla cautela, a non esporsi in pubblico oltremisura. Purtroppo c’è Elena al suo fianco. Una spina nel fianco.
Non fu questo l’inizio della relazione. L’inizio fu un vero amore. Restano a testimoniarlo versi imperituri. La poesia ferma il tempo nel momento iniziale dell’amore. Le parole immaginate e scritte da Octavio – il nucleo essenziale dell’intera opera del famoso poeta – sono dettate da Elena, sono rispecchiate nel suo sguardo. Octavio diviene adulto e si scopre poeta all’ombra di Elena. Elena aveva lasciato per Octavio il magico mondo dell’infanzia, Elena con Octavio interrompe bruscamente gli anni spensierati degli studi universitari. Elena che accetta in gioventù di lasciarsi trascinare dal destino. Perdersi per forse ritrovarsi.

Elena Garro e Octavio Paz in Spagna nel 1937
Elena Garro e Octavio Paz, secondi da sinistra, con altri artisti messicani nel 1937. Durante la guerra civile spagnola, Octavio Paz e Elena Garro furono tra gli intellettuali che da tutto il mondo arrivarono in Spagna per sostenere la Seconda Repubblica nella sua lotta contro il fascismo.

Si sposano nel maggio del 1937, dopo due anni di fidanzamento – giovani, sconsiderati, avventurosi: Elena ha ventuno anni; Octavio ne ha ventitré – per partire insieme per la Spagna in guerra. Octavio è stato invitato da Rafael Alberti a partecipare al Segundo Congreso Internacional de Escritores para la Defensa de la Cultura, a Valencia, in luglio. Partecipano tra gli altri André Malraux, Tristan Tzara, Julien Benda, Auden e Stephen Spender, Dos Passos e Hemingway, Alejo Carpentier, Nicolás Guillén, César Vallejo, Huidobro e Pablo Neruda. Octavio scrive poesie: in quello stesso 1937 esce la quarta raccolta. Ma è incerto, insoddisfatto. Octavio carattere difficile, roso dall’ambizione, ma ancor più frenato dal timore di non essere all’altezza degli illustri natali. Il nonno, Ireneo Paz: avvocato, storico, scrittore, autorevole sostenitore del presidente Porfirio Díaz. Il padre, Octavio Paz Solórzano, impegnato nella Rivoluzione a fianco di Emiliano Zapata, e poi prematuramente scomparso in tragiche circostanze. Octavio sbandato, come può essere ogni giovane schiacciato sotto il peso di una famiglia illustre, come può essere ogni giovane la cui giovinezza è funestata da tragici eventi. Octavio incapace di portare a termine l’università. Octavio salvato da borse di studio e da colleganze di casta.  In crisi per mancanza di un serio e stabile lavoro, per la morte del padre, insoddisfatto della propria vita, indeciso a proposito della direzione verso la quale indirizzarla, vagante per gli Stati Uniti, in cerca di relazioni di apparente amicizia, ma funzionali a una carriera, a una sistemazione. A farlo entrare in diplomazia è soprattutto una lettera – una precisa raccomandazione – scritta da Alfonso Reyes, il più illustre e autorevole letterato messicano di allora.

Elena Garro a 23 anni ©Editorial Debate
Octavio Paz e Elena Garro

Nel dicembre 1945 prende servizio all’ambasciata di Parigi. All’inizio dell’anno nuovo Elena lo raggiunge. Con l’ingresso in diplomazia Octavio ha lasciato alle spalle angustie e insicurezza economica. Nuota ormai nel suo mare. Parigi è un punto di arrivo, è l’inizio di una nuova vita.  Anche per Elena è una nuova vita. Sono anni intensi e folli; tutto sembra possibile. Il dopoguerra impone ristrettezze, ma il clima culturale è fervido e aperto. Elena e Octavio si tuffano in questa vita di salotti e di ricevimenti, lei elegantissima, brillante e misteriosa, lui abilissimo tessitore di relazioni – mai solo letterarie, mai solo politiche. Insieme riallacciano amicizie messicane: Maria Zambrano, Benjamin Péret, André Breton. Le riviste, che sono anche circoli letterari e fonti di occasioni mondane, attraggono sempre Octavio: Les Temps Modernes: Sartre e Merleau Ponty. Le Lettres Françaises: Louis Aragon. Fontaine: Max Pol Fouchet. Esprit: Emmanuel Mounier. E Becket, Eluard, Michaux, Char.
Le notizie sulla biografia si fanno più lacunose quando dal gennaio al marzo 1952 lavora all’ambasciata messicana in India e poi, fino al gennaio 1953, in Giappone. Luglio 1952: anche Elena è in Giappone. La vita di coppia è faticosa, segnata da litigi e incomprensioni. In settembre Elena si ammala gravemente. È semiparalizzata. In ottobre Octavio chiede e ottiene il trasferimento in Svizzera. La coppia si stabilisce prima a Berna e poi a Ginevra.

Copertina della prima edizione di Los requerdos del porvenir, Messico, 1963, Edizioni Joaquín Mortiz

La cura di Elena consiste, in realtà, nel non reprimere più la sua vena di scrittrice.  Nell’inverno tra il 1952-53 Elena scrive Recuerdos del porvenir, romanzo che riporta Elena agli anni dell’infanzia – quasi una rinascita. Octavio forse legge le pagine scritte da Elena, forse no. Non ne è particolarmente contento. Elena è un peso, Elena è ormai irrimediabilmente lontana dal decorativo, innocuo ruolo di brillante conversatrice in salotti letterari.  E da parte sua Elena non riesce a dar valore al proprio manoscritto: si guarda bene dal parlarne, e tanto meno dal cercare di pubblicarlo. Sa che se mai si fosse affermata come scrittrice, se mai avesse giocato in proprio sul terreno del marito, avrebbe perso Octavio, che nonostante i contrasti ama profondamente. Sono comunque quelli gli anni in cui i rapporti tra Elena e Octavio si guastano irreparabilmente. Octavio alla fine del 1958 torna a Parigi. È la conclusione del matrimonio.
La fatalistica incuria di Elena nei confronti dei propri manoscritti è ancora parte del sempre presente dialogo con Octavio. Lui, invece, sempre così narcisisticamente attento a curare i propri testi, a dar loro valore. Il manoscritto di Recuerdos del porvenir, forse via via rielaborato, resta chiuso in qualche baule. E anzi si racconta che – inconsapevole forse del valore dell’opera, ma certo consapevole del significato soggettivo di quelle pagine – Elena finisce, un giorno, a New York, per gettarlo nel fuoco acceso del camino. Il manoscritto, allora, è salvato dalla figlia Helena.
Solo dieci anni dopo la prima stesura, nel 1963, quando ormai le acque del turbinoso e doloroso amore si sono almeno in apparenza calmate, Los recuerdos del porvenir sarà pubblicato. Octavio ha tolto il veto. Il romanzo gode di un certo successo. Non però corrispondente al suo valore. È  e resta, un’opera fuori dal tempo. Il realismo magico, quella cifra distintiva della narrativa ispanoamericana che si affermerà con i Cien años de soledad di Gabriel García Márquez – scritto tra il 1965 e il 1966, pubblicato nel 1967 – è già pienamente presente nei Recuerdos di Elena.
Sfondo dei Recuerdos è la guerra Cristera, la guerra civile condotta da milizie cattoliche tra il 1926 e il 1929, contro i rigori laici del Messico post rivoluzionario. Una storia, potremmo dire, osservata dalle finestre della casa dell’infanzia.
«Yo no puedo escribir nada que no sea autobiográfico; en Los recuerdos del porvenir narro hechos en los que no participé, porque era muy niña, pero sí viví». Non posso scrivere niente che non sia autobiografico: nei Ricordi dell’avvenire narro fatti ai quali non ho partecipato, perché ero molto piccola, ma che ho vissuto. Si sa che il realismo magico ha finito per essere inteso dai lettori europei come viaggio esotico, fuga nell’immaginario di un tropico sognato. Ma è invece pura narrazione dove viene messo per la prima volta per scritto ciò che è materiale di narrazioni orali, di storie raccontate da nonni a nipoti. Narrazioni dove la storia sconfina nel mito, nel sogno.
Un’altra opera era intanto stata pubblicata – importante quanto i Recuerdos sia per il valore letterario, sia per il significato auto terapeutico. Un’opera teatrale: Un hogar sólido (1957). Qui, come in tutta l’opera di Elena, il tempo e lo spazio si annullano, si transita dalla logica all’assurdo, dalla veglia al sogno. È una riflessione sulla vita e sulla morte che si svolge nella cripta di famiglia. Originale concezione della vita dopo la morte: i membri della famiglia si ritrovano “a casa” dopo la morte.
«Cuando la mujer escribe, muere. Es una sentencia de muerte». Quando una donna scrive, muore. È una condanna a morte, ammise Elena. La scrittura, se è vera scrittura, è sofferenza in sé, e narrazione della sofferenza. Scrittura gravata dal peso della propria vita di solitudine, dall’ombra di Octavio, dalle aspettative degli amanti, dall’ansia di non lasciar passare sotto silenzio ingiustizie evidenti, ma dai più ignorate per conformismo e quieto vivere.
Elena sarebbe stata il perfetto personaggio da romanzo scritto da un romanziere maschio. Capelli chiari, bel corpo, belle gambe, bel viso. Eccentrica, nevrotica, affascinante. Capace sempre di sollecitare la gelosia del marito possessivo e le aspettative di amanti occasionali o duraturi. Ma Elena sfugge al ruolo. Scrive i romanzi che nessun autore maschio potrebbe scrivere. Scrive il rovescio dei romanzi maschili. Tutti i suoi romanzi successivi ai Recuerdos – viaggio nell’infanzia – sono faticose, aspre narrazioni del presente. A partire da Testimonios sobre Mariana, 1981, i romanzi hanno un solo tema: il racconto fedele della sua vita di donna sola, in perenne viaggio, viaggio segnato da brevi provvisorie sistemazioni. Lei, la figlia, i gatti. I bauli presto riaperti. Le relazioni con maschi deboli, insicuri, vanamente presuntuosi. Vizi e debolezze maschili sono descritti senza risparmio e potremmo dire anche senza rispetto.

Octavio Paz, Elena Garro e Laura Helena Paz Garro nel loro appartamento di Avenida Victor Hugo 199, Parígi, 1947

Intanto Octavio si è sposato di nuovo.
«Una mattina – il caso, il destino, le affinità elettive o come volete chiamare questi incontri – ho incontrato Marie José. Aveva lasciato Delhi qualche mese prima e io ero all’oscuro dei suoi spostamenti, così come lei era all’oscuro dei miei. Ci siamo incontrate e in seguito abbiamo deciso di tornare in India insieme. Nell’incontro d’amore i due poli si intrecciano in un nodo enigmatico e così, abbracciandoci l’un l’altra, abbracciamo il nostro destino. Stavo cercando me stesso e in quella ricerca ho trovato il mio complemento contraddittorio, quel tu che diventa me: le due sillabe della parola ‘tuo’». Ecco il Paz retorico e vuoto. Ecco la compagna perfetta per il Poeta Laureato, per il Maschio Affermato. Devota, succube, adorante. La donna che Elena non poteva essere, che non voleva essere.
La definitiva separazione tra Elena e Octavio – nel 1958, o 1959? – era stata accolta con sollievo dagli amici di Octavio. Finalmente! Octavio non poteva andare avanti così. Con una implicita nota aggiuntiva: neanche noi potevamo andare avanti così: costretti a convivere con questo conflitto, con la depressione di Octavio, costretti non di rado a prendere esplicito partito. La separazione è considerata inevitabile e il plauso al troncamento del rapporto è pressoché unanime. Salvo una voce. La voce di Maria Zambrano. Amica di entrambi, disse che era un peccato. Disse che dopo tutto quello che avevano passato, nessuna prova sarebbe stata troppo dura. Disse che il legame tra Elena e Octavio era una ricchezza, un dono per loro e per tutti. Il dolore, per Maria Zambrano, può essere sempre trasformato, ed è fonte di vita.  Il dispiacere per la separazione, il non considerarla necessaria, l’opinione espressa lì sul momento da Maria Zambrano non credo sia da prendere come indebita intromissione. Semmai, è da prendere come profezia: Octavio ed Elena non si separarono mai.

La descrizione più sessista mai scritta per definire una scrittrice. In una fascetta posta sul volume Reencuentro de personajes, scritto da Elena Garro nel 1982 e ripubblicato in occasione del centenario della sua nascita (2016), la casa editrice Drácena presenta l’autrice messicana come “la donna di” e “l’amante di”. In seguito alla valanga di proteste diffusasi sui social, l’editore si vide costretto a chiedere scusa pubblicamente e a togliere la fascetta da tutti i volumi.
ALLONTANAMENTI DA SÉ ATTRAVERSO LA LETTERATURA

Elena vive nel paradiso della famiglia e dell’infanzia. La figura del padre. La figura della madre. Mangiare insieme, pranzi e cene come riti. Il ritmo delle stagioni. I giochi tra fratelli. Vivere l’uno accanto all’altro, lontani dal mondo. La confortante consapevolezza che nessun fattore esterno potrà intaccare questa pace. La guerra Cristera, guerra civile, avviene sulla soglia di casa. Ma nonostante l’irruzione della morte violenta nella stessa casa, nello stesso seno della famiglia, la famiglia non è contaminata. La famiglia, el hogar, il focolare, lavano e purificano ogni bruttura. Gli indios che silenziosi si muovono nella casa padronale. Le conversazioni con cuoche cameriere e contadini. Il suo stesso concepire il matrimonio si fonda su un sogno da bambina. Non voglio sposarmi perché sposarmi è andar via di casa.
Divenire adulti è andar via di casa, fondare un’altra casa. Ma Elena non si sentirà mai a casa altrove. Sceglie di essere strappata da casa, accetta un matrimonio che è una forzatura, e forse un inganno. Lo accetta forse anche perché è questo – lo strappo violento – l’unico modo per imporre a se stessa l’allontanamento, il passaggio di stato socialmente necessario. L’ambigua e complessa relazione con Octavio trova qui l’origine: lei in fondo gli è riconoscente di averla costretta ad andare via di casa, da sola non avrebbe saputo forse come compiere il passo. Ma allo stesso tempo a Octavio è imputata proprio quella violenza: è lui che l’ha strappata alla famiglia. È lui che l’ha costretta ad allontanarsi da quel giardino, da quel paradiso in terra.

La loro vita insieme è un viaggio lontano dalle proprie origini. Entrambi hanno bisogno del matrimonio per allontanarsi. Le stesse circostanze del mai ben spiegato recarsi di fronte al giudice per stipulare il contratto matrimoniale trovano ragione nella necessità, una necessità legata a un viaggio: il matrimonio è necessario ai due giovani per viaggiare in Spagna. E la vita insieme di Elena e Octavio è una vita di viaggi, viaggi insieme e viaggi solitari, per raggiungere l’altro o per stare lontano dall’altro, andirivieni tra Ciudad de México e Parigi, viaggi negli States, fino al viaggio nell’estrema lontananza, quel  terribile viaggio in Giappone che non può essere vissuto da Elena che come malattia, viaggio al di là del quale non c’è più futuro per Elena e Octavio insieme.
La scrittura di Elena è sempre la narrazione di un viaggio. Presenza costante di bauli, provvisorietà, biglietti già comprati per recarsi altrove. Non ci può essere pace in nessun luogo. Di questo scrive, senza variazioni, Elena nei lunghi anni lontano da Octavio. È la seconda Elena scrittrice.  Perché c’è una prima Elena scrittrice: l’Elena che scrive del luogo dove si può trovar pace. Questa Elena vive nel ricordo. L’allontanamento si manifesta qui nel cercare distanza dal presente non nel viaggio in un qualsiasi altrove, ma viaggio, invece, in un ben più confortante passato. L’hogar sólido è la casa di famiglia. Sta alle spalle, nel tempo che fu, o fuori dal tempo, in un magico tempo ricostruito, restaurato dal desiderio che la vita ha lasciato inappagato. Questa prima Elena – l’Elena del ritorno a casa – scrive soprattutto negli anni Cinquanta, gli anni più drammatici della propria vita, gli anni durante i quali la relazione con Octavio mostra la corda e si lacera. La scrittura è perpetuare quel mondo felice. Scrivere è colmare un vuoto di tempo e di affetti. Scrivere El hogar sólido, scrivere, soprattutto, Recuerdos del porvenir, è lavorare su di sé. Ma, anche, Elena può trascurare la sorte, l’avvenire dei propri testi, può abbandonarli alla loro ventura, perché i testi hanno già manifestato la propria efficacia: nello scriverli Elena si è riallacciata alle fonti della propria vita. La vita è un eterno ritorno. Recuerdos del porvenir. Ricordi dell’avvenire.

Quando diviene necessaria la scrittura, possiamo chiederci. Dove nasce il bisogno di “scrivere un romanzo”. Se la vita di Elena fosse proseguita nella casa di famiglia, o nei pressi, senza soluzione di continuità, se Elena non avesse sperimentato la troncatura e l’allontanamento, se Elena fosse vissuta avvolta in quella sfera di cronache familiari, di narrazioni dei campesinos indigeni, forse non avrebbe avuto bisogno di scrivere. O almeno: non avrebbe avuto bisogno di scrivere in un certo modo. Perché la tradizione sarebbe stata presente nella quotidianità, costantemente rammemorata dalle persone intorno. Ma c’è di mezzo l’allontanamento, Elena si ritrova distante dalla propria storia, lacerata, separata dalle fonti della vita. È allora che Elena si mette a scrivere.
La scrittura di Elena è costante ricerca dell’oggetto buono. È coltivazione di ciò che può dar senso alla vita. Non a una astratta vita, ma alla propria, personale vita. La scrittura della prima Elena è, anche nella estrema messa in scena dell’hogar sólido, in apparenza un mondo di salme, una esaltazione del calore della conversazione, della parola che mantiene vivo l’essere, generazione dopo generazione. La scrittura della seconda Elena è sversamento di odio, l’odio per un maschio egoista, sfruttatore, incapace di dolcezza, di tenerezza, di piccoli gesti. Ma anche qui, anche così Elena si libera, aprendosi all’amore. Scrivendo trasparentemente, senza pietà, degli uomini che ha amato, mettendo in piazza le loro meschinità, si libera dal rancore e si permette di coltivare il ricordo. Rende così possibile a se stessa ricordare quei maschi, ricordare che sia pur profondamente deludendola essi l’hanno amata.
La vita familiare, infantile, di Octavio è, all’opposto della vita di Elena, una vita drammatica, segnata dalla solitudine e dalla disgregazione. Su entrambe le vite familiari incombe la guerra. Ma mentre la vita familiare di Elena si manifesta come sfera inattaccabile, garanzia di pace oltre ogni aggressione, nella vita familiare di Octavio l’abbandono, la solitudine, la violenza e la morte irrompono senza rimedio. L’infanzia di Octavio è certo più difficile dell’infanzia di Elena. Octavio merita umana comprensione. Ma qui guardiamo all’opera letteraria. Guardiamo a come il soggetto usa quella gran risorsa che è il dedicarsi alla scrittura. Octavio usa la scrittura in modo opposto a Elena.
La scrittura di entrambi è allontanamento. Ma l’allontanamento di Elena è allontanamento da un imperfetto presente, è ri-collocazione della vita in un luogo dove la vita può avere senso. È costante affermazione del calore, degli affetti, disponibilità alla commozione. L’allontanamento di Octavio è invece fuga nella letteratura.
Surrealismo. Cultura indiana e cultura giapponese. Tantrismo e Zen. Fuga in culture lontane, in ciò che non può essere ben conosciuto, in ciò che non può essere fatto proprio. Si rincorre la cultura altra per non fare i conti con la propria. Esercizi di letteratura sperimentale: Blanco. Il gioco implicito nella letteratura sperimentale di Octavio è il gioco di chi si sente in dovere di mettere in campo riferimenti colti e citazioni e ammiccamenti alle avanguardie di moda nel tempo presente. È un allontanamento dalla propria vocazione, dalla propria storia, un modo per non parlare di sé. Araldica, pitagorsimo, barocco come sovrastruttura è ciò che Octavio cerca in Sor Juana Inés.
Sor Juana forava con la sua originalissima soggettività le norme culturali, l’etica e l’estetica della propria epoca. Inventa se stessa a partire dal proprio progetto e dal proprio desiderio. Impone ai contemporanei la sua differenza di donna che non si assoggetta a regole. Impone al mondo fino al limite dello scandalo il proprio modo di intendere l’amore, carnalità e misticismo fusi in un tutt’uno. Sceglie in piena libertà la soglia sulla quale fermarsi, arrendendosi al mondo. Octavio dottamente ripercorre la vicenda con lo sguardo di un maschio capace di ogni supremo esercizio di inquadramento, artefice di dottrina e di costruzione scolastica.
Ma l’amore dov’è, il fuoco della passione dove si trova.
Octavio narra l’allontanamento dall’amore, la sua sostituzione con la retorica dell’amore, simboli che solo in virtù di complicate letture significano qualcosa. A differenza di Elena, Octavio non può parlare di amore, anche dell’amore trasformato in odio o perlomeno in rancore, perché non riesce a provare amore, non si concede amore.
Solo una volta Octavio è riuscito a parlare, a scrivere di amore. Una sola volta che però è sufficiente a colmare una vita intera. Tutto si riassume in tre versi.

Elena Garro e Octavio Paz in gita sul lago Chapala
TRE SOLI VERSI

Intervistata non come Elena Garro, ma come moglie di Octavio Paz, pochi mesi prima di morire Elena ripete che dell’opera di lui le piace soprattutto ricordare Bajo tu clara sombra. Perché lì lui lasciava capire «che sono stata l’amore della sua vita». «Soy yo, ahí me retrata porque yo fui siempre como su sombra». Sono io, lì c’è il mio ritratto perché io fui sempre come la sua ombra. Cosa intende dirci Elena? Parla del passato. Ricorda l’Octavio che le piace ricordare. Cosa intende dire affermando con orgoglio: Yo fui siempre como su sombra? In senso lato, forse, rivendica intanto quel verso, che resta tra i più famosi di Paz. Ci ricorda che è dedicato a lei. Octavio è divenuto adulto, è divenuto poeta nel cono della chiara ombra di lei. Bajo tu clara sombra il verso appare nel titolo della terza raccolta: quando Octavio ed Elena sono a Valencia, nel 1937, per il Congreso de Escritores Antifascistas. Lì, in Spagna, esce il libro. Ed è il titolo di due poesie comprese nella raccolta.
Tutto si riassume in tre versi. Tre soli versi. Miracolo di sintesi. Tre versi densi di senso, aperti a sottili interpretazioni, sempre insufficienti a svelarne il mistero. La potenza, la forza genetica e misteriosa della poesia di Octavio è tutta qui. Nasce dall’incontro con lo sguardo, con il corpo, con la mente fervida, con l’intera persona che è Elena. Si può sostenere che tutto ciò che in seguito scriverà Octavio sarà una presa di distanza da questo nucleo genetico, troppo denso, troppo difficile da gestire.

Bajo tu clara sombra
vivo como llama al aire
en tenso aprendizaje de lucero

Bajo: sotto, assoggettamento. C’è il sopra e c’è il sotto: incubo e succube. Incubo e succube portano con sé l’immagine del coricamento: con locare. Un collocazione: porsi giù disteso. Sotto di lei. Si evoca così, sulla scena primaria, la contiguità fisica. La contiguità è collocata nella sfera sessuale. La contiguità si manifesta nella forma del “sotto”. Il poeta si osserva nella posizione del succube.

Tu: loro due, nessun altro. Nient’altro che loro due nell’emergere del mondo. Il mondo emerge dal tu e io. Incontro. Fusione. Io che ti osservo mentre mi osservi. Io – e ne nasco così come poeta – scrivo di te, questo è il mio esordio.

Clara sombra: in spagnolo non c’è nessun vezzo poetico nell’anteporre l’aggettivo. Ma provare a enunciare in italiano ombra chiara aggiunge senso. Appare forse così più evidente l’ossimoro. L’ombra è scurezza, oscurità. L’ombra è l’assenza di luce, impossibilità di avere luce. L’ombra evoca le tenebre. E qui osserviamo l’ombra, l’ombra di lei, evocata dal tu, è chiara. Rischiara. La claritas, trova il suo significato nella tradizione platonica e medievale: Agostino, Bonaventura, Alberto Magno. È lo splendore della verità o la verità nel suo splendore, la verità vera, quella del noumeno: ciò che è concepito dall’intelletto. La verità intesa nel suo splendore non può essere pienamente, forse, attinta – ma è ciò che traspare senza pienamente apparire – come ombra – nello sguardo, nelle parole, nei gesti dell’altra, lei, la donna che incarna il desiderio, è qui e ora nel suo corpo nudo. Colta dalla poesia nell’apparire, evocata nella sfera della scrittura – nei segni lasciati dal poeta sul foglio – come ombra: l’immagine non può essere appresa, può esser solo detta per metafora, colta nel suo lasciarsi intravedere, narrata per via della propria ombra, ombra che sfiorando l’impossibile rovescia il proprio senso e rischiara, come simbolica verità, come tu altro da me. Completamento dell’io maschile del poeta, ma completamento quanto mai misterioso, ambiguo, non solo diversa da lui, ma implicante differenza: perennemente cangiante e mutevole. Lei sta nell’ombra e splende.

Vivo: io vivo sotto la tua chiara ombra. Non estoy bajo tu clara sombra, ma vivo bajo tu clara sombra. Non solo sto in questo istante, ma sempre. La presenza femminile dà vita. Non solo vivo nel mero senso  dell’aver vita e quindi dell’essere vivi. È in gioco qui anche il modo dell’esser vivi. Il come.

Como llama al aire: sono vivo come “fiamma all’aria”, fiammella che si muove nella brezza, fiammella che potrebbe soccombere al vento impetuoso. Vivo in balia, pendente dal tuo sguardo, perché è il tuo sguardo, lo sguardo di te mentre incombi amorevolmente su di me è lo sguardo che mi dà vita. L’ombra chiara splende di per sé – potrebbe essere la poesia, opera esclusiva del poeta – ma è l’ombra di lei, senza di lei non c’è poesia e lui non è nemmeno poeta e resta nel buio. E lui vive dunque in continua sospensione, bisognoso dell’ombrosa, inafferrabile, incondizionabile presenza di lei.

Tenso: la tensione non contempla il processo, non prevede la soluzione. La tensione non è pietra che rotola, non è la valanga che si stacca e scende a valle. Nella tensione resta sempre presente il gesto iniziale. È il braccio nello sforzo di piegare l’arco, ben prima dello scoccar la freccia. Viviamo nell’attimo l’attesa della conseguenza. Tenso è il desiderio.

Aprendizaje: l’apprendimento – prehendere, afferrare con le mani, prendere tra le braccia – non è pura attività mentale, non può essere compiuto da una res cogitans, l’apprendimento esiste là dove c’è res extensa, passa attraverso il corpo, il guardare, l’ascoltare, l’odorare, il toccare: contempla sempre uno spurio contatto con la materia.

Tenso apredinzaje: il termine, così difficile da attingere, dell’aprendizaje,  il luogo dove potrebbe avere fine la tensione, è il luogo dove splende la Claritas – il claro nel bosco di Heidegger1 . Ciò, quel poco della Claritas che Octavio può far proprio è ciò che riesce a leggere nello sguardo di lei. Sguardo: parole mute, ciò che non può essere detto tramite parole è affidato ai gesti del corpo, e al limite al solo sguardo.

Lucero: astro, pianeta Venere, ma anche «cada uno de los ojos de la cara», ognuno dei due occhi, luminosi e quindi illuminanti. L’etimo rimanda direttamente al latino lux, ma siamo nel campo semantico dell’affine espressione latina lumen. La scolastica oppone lux a lumen. La lux è divina, emana dal testo sacro, lux è la parola accolta nel canone. Lux è Claritas. Lumen è, in cambio, l’umano sguardo. Se è così, ci è dato da osservare il tenso aprendizaje come gioco di sguardi: lui guarda lei, si abbevera dagli occhi di lei – e allo sguardo si aggiungono sempre gli altri sensi, lo sguardo  è la sintesi dei sensi, lo sguardo “tocca”: ecco il significato intensivo dell’apprendere, del “toccare”. È anche con gli altri sensi. Ma allo stesso tempo lo sguardo di lui, nel fissarsi nella claritas di lei – ombrosa, oscura, esoterica – allena se stesso, apprende a essere sguardo. Sguardo di poeta. Lei è la fonte che sta nell’ombra; lui è – o si arroga il diritto di essere – la voce. L’arte in fondo di chi è, ci è dato da chiederci, la poesia chi la fa: chi illumina lo sguardo altrui, chi illumina il mondo con lo sguardo, o chi si limita a perennemente registrare, a tracciare segni su un supporto.

Da questo incontro, da questa tensione irrisolta tra due sguardi, da questa copula nasce la poesia.

En tenso aprendizaje de lucero
In queste parole potremmo leggere il rito di iniziazione.
In queste parole potremmo riassumere l’eterno scambio della formazione – Bildung: l’espressione tedesca non a caso ci parla ancora, come questi tre versi,  d’illuminazione e di osservazione.

Bajo tu clara sombra
Vivo como llama al aire
en tenso aprendizaje de lucero.

La poesia cerca interpretazione infinita. Dobbiamo sfidare la resistenza del materiale poetico, come ci insegna Lezama. Cercare un altro senso, andare oltre. Cercare un’altra chiave, «Ah, que tú escapes en el instante / en el que ya habías alcanzado tu definición mejor.»; «sólo lo dificil es estimulante». C’è qui implicita anche una lettura nella chiave erotica.
Per la prima volta, in una scena primaria che riassume l’intero mondo, l’intera vita futura di ognuno dei  due membri della coppia, lui e lei distesi nel buio. Lei sopra di lui lo guarda negli occhi e lo guida con i movimenti del corpo. Lui eretto eppure bisognoso della confortante autorità di lei apprende come si prova il piacere. Vive l’attesa del culmine, del climax.
È questa una chiave che si giustifica con la lettura dei ridondanti versi che il poeta – in diverse liriche, in diversi momenti, ha fatto seguire a questo nucleo originario, a questi tre versi generatori. Lì si parla di notte, di spiaggia sul mare, di corpi nudi, e ancora stancamente di acqua, sguardi, luce, ombre, onde. Per questo dettagliare e contestualizzare, troviamo quei versi retorici, nerudiani, un inutile scivolamento verso un Canto general che pretende di dire tutto – negando così l’essenza della poesia, che è – come i tre versi mostrano mirabilmente – luce che fora le tenebre.
Ma se il poeta, anziché limitarsi a squarciare le tenebre, ha bisogno di dire a chiare lettere: “sto squarciando le tenebre”, allora non merita di essere più seguito in un cammino che rinnega se stesso.
Per tentare di aprire i tre versi con la chiave erotica non ci sono di nessuna utilità questi seguiti descrittivi. Ogni seguito serve tuttalpiù a confermare ciò che i tre versi sanno dire da soli. Tutti i versi successivi che il poeta si è poi vanamente accanito ad aggiungere, non sono che prova della vanità del tentativo di ridurre la poesia a un progetto di controllo; prova di come l’autore danneggi la propria opera forzandola dentro uno schema – e qui, nell’aggiungere altri versi a quei tre versi, qui, nel bisogno di non lasciare quei tre versi da soli, già appare il Paz maturo, il poeta ormai laureato che passa la vita a prendere le distanze da quei versi, da quella scena primaria, dalla stessa fonte della sua ispirazione.
Una conferma è fornita da un dettaglio filologico. La acribia dei falsi filologi, in realtà apologeti, accumula, a proposito della storia del testo, informazioni su informazioni, una meno rilevante dell’altra. Ma un frammento di questo pletorico schieramento di inutili dettagli illumina, dicendo tutto ciò che non dice un intero apparato di note e di commenti. Il filologo accenna in nota: la prima versione edita di un testo poetico di Paz iniziante con i tre versi portava per titolo: Helena. Il gioco anche cattivo degli allontanamenti da quell’origine, gioco giocato anche malamente da entrambi, in una spirale distruttiva, con venature di sadismo e di masochismo, non riesce a cancellare l’affermazione che riaffiora di tempo in tempo nelle parole di entrambi. I tre versi parlano di lei e di lui insieme. Lei copre e illumina lui con la sua clara sombra. Lui tenta di essere all’altezza, como llama al aire. Tutto quello che ha scritto Octavio è scritto per Elena, anche quando è scritto contro Elena.
I tre versi implicano sospensione, attesa. Il desenlace, la soluzione del climax, sta nella creazione, le parole depositate su carta, i tre versi che rendono indelebile quell’esperienza. Il desenlace – lo scioglimento, la conclusione, l’esito – sta, al tempo stesso, nella procreazione. Helena, scrive Octavio in quel titolo: è il nome di lei, ma con l’acca iniziale, così come Octavio ed Elena chiamarono la figlia. Anche la figlia, così come l’opera, è frutto di quel tenso aprendizaje.

Elena Garro ritratta da Ricardo Salazar per la serie Ritratti e Vita Culturale in Messico. Conservata dall’Archivio Storico dell’UNAM l’immagine è datata 1959. La scrittrice, drammaturga e giornalista appare con la figlia, Helena Paz Garro, e la madre, Esperanza Navarro Benítez.
(Foto: IISUE/AHUNAM/Collection Ricardo Salazar Ahumada/Vida Cultural/Portraits/RSA03265)

Tutta l’opera avvenire di Octavio, appare come glossa che continuamente rimanda ai tre versi iniziali, originari. Rimanda vanamente: perché a ogni sforzo di dire altrimenti, o di aggiungere qualcosa, si perde qualcosa nel senso. Ogni nuovo testo di Paz è più povero del precedente. Ogni nuova scrittura, pitagorica o orientaleggiante, metaforica o cruda, autobiografica o accademica, ogni nuova scrittura è un passo del prendere le distanze. È un togliere qualcosa, retrospettivamente, a quei tre versi puri.
Le riscritture, di per sé, possono essere virtuose, foriere di nuovo senso. Ma non le riscritture di Paz, che sono negazioni, abiure. La vena del poeta si rinnova con le stagioni della vita. Ma non c’è rinascita qui, non c’è trasformazione. C’è troncatura. Il tenso aprendizaje non approda in consapevolezza di sé. Paz rifiuta l’origine della sua poesia. Costringe se stesso a vivere cancellando le tracce che lo legano alla scena primaria. Rimuove, nel tempo di una vita, l’essere stato in quel luogo.
La poesia è dimorare nel giardino dell’Eden. Elena e Octavio insieme avevano vissuto quello stato fusionale, quell’istante primigenio. L’uomo adulto sa conservare il ricordo, sa renderlo attuale. I poeti aiutano gli uomini a compiere questa operazione salvifica.
La sterminata opera omnia di Paz. Scrive e riscrive. Incapace di sopportare il silenzio misterioso di quei tre versi, quella profonda verità che emerge dall’ombra. Incapace di sopportare, senza abbassare gli occhi, quel gioco di sguardi. A conferma del legame imperituro così ben colto da Maria Zambrano, un qualche filo misterioso continua a legare Elena e Octavio. Non cessano di insultarsi, ma anche di ricordarsi.

Elena Garro nel 1997 a Cuernavaca, un anno prima di morire, in uno scatto di ©Benjamin Flores

Octavio ha settantasei anni quando nel 1990 la sua carriera di intellettuale di successo è coronata dal premio Nobel. Nel 1994 Elena pone fine alla sua leggendaria vita da nomade, esiliata. Torna in Messico. Evita la gran città, Ciudad de México; si stabilisce a Cuernavaca. Vive sulla soglia della povertà con la figlia, la casa popolata di gatti, la sigaretta sempre accesa.
Moriranno nello stesso anno, 1998.
Elena sopravvive a Octavio di quattro mesi. Fa ancora in tempo a ricordarlo, a parlare di lui in interviste e conversazioni, ormai fuori dal tempo.
Resta a questo punto, per ogni lettrice e ogni lettore, un passo da compiere. Lasciare da parte le pletoriche pagine scritte da Octavio Paz, e accingersi a leggere Elena Garro.

La quarta casa, un ritratto di Elena Garro, di José Antonio Cordero

 

NOTE

1 Le radure della foresta, l’immagine originale che a un certo punto è diventata un luogo centrale nella filosofia di Ortega y Gasset, Martin Heidegger e María Zambrano, ha in comune in tutti e tre i filosofi il fatto di corrispondere a una vera e propria esperienza reale: trovare una radura vagando per un bosco. La foresta di Ortega y Gasset si ispira al boschetto che circonda il monastero dell’Escorial vicino a Madrid, ed è incluso nel suo primo libro Meditazioni sul Don Chisciotte, pubblicato nel 1914.
Heidegger è noto anche come il “filosofo della Foresta Nera”, lì aveva una baita dove si ritirava a scrivere.
Claros del bosque di Maria Zambrano, datato 1977, raccoglie testi scritti tra il 1964 e il 1971, periodo in cui la filosofa viveva a La Pièce, una cittadina francese al confine con la Svizzera. La casa dove viveva in virtuale isolamento con la sorella Araceli (che morì lì e a cui è dedicato il libro) era circondata da una foresta dove la filosofa faceva lunghe passeggiate.
Octavio Paz, Città del Messico, 31 marzo 1914 – Ciudad de México, 20 aprile 1998
Octavio Paz, «Bajo tu clara sombra». Prima pubblicazione: frammento in Bajo tu clara sombra y otros poemas sobre España, Ediciones Españolas, Valencia, 1937, con il titolo Helena. Altri frammenti, tutti inizianti con questi tre versi, sono poi stati pubblicati su Sur, 74, novembre 1940, pp. 36-42. Seconda edizione completa: Bajo tu clara sombra, 1935-1938, Letras de México, México, 1941, ripresa nell’anno seguente nella raccolta A la orilla del mundo y Primer día, Bajo tu clara sombra, Raíz del hombre, Noche de resurreciones, Compañía Editra y Librera, México, 1942, ripresa ancora in Libertad bajo palabra, Tezontle, México, 1949. Vedi Judith Goetzinger, «Evolución  de un poema: tres versiones de ‘Bajo tu clara sombra’», in  Alfredo Roggiano (a cura di), Octavio Paz, Editorial Fundamentos, Madrid, 1979. Vedi anche Octavio Paz, Libertad bajo palabra, a cura di Enrico Maria Santi, Cátedra, Letras Hispánicas, 1988.
Elena Garro, Puebla, 11 dicembre 1916 (o forse 1920) – Cuernavaca, 22 agosto 1998
Elena Garro, «Un hogar sólido», Mañana. La revista de México, 3 agosto 1957, pp. 36-41; Sur, 251, marzo-aprile 1958, pp. 30-39.
Elena Garro, Los recuerdos del porvenir, Joaquín Mortiz, México, 1963.
Elena Garro, Testimonios sobre Mariana, Grijalbo, México, 1981.