Perché fare fotografia? Sulla libertà dell’artista

Faces of the North, © Ragnar Axelsson
«In principio, mi hanno portato lì le vecchie storie dei grandi esploratori che avevo letto».

Silenzio, vuoto, assenza. Come vengono recepiti questi concetti che sono anche estetici nell’epoca in cui vediamo affacciarsi alla vita di tutti i giorni mondi sempre meno misteriosi come l’AI e ChatGPT? Il tema è, a mio avviso, di grande interesse proprio in relazione all’immissione di nuove immagini e all’utilizzo di certi linguaggi, la fotografia in particolare, nonché al rapporto direi ormai davvero ininfluente costituito dal mezzo utilizzato per “fare fotografia”.
Parto dal mezzo perché ritengo che in generale si dia a esso un’importanza eccessiva quando si parla di arte fotografica. Analogico, digitale, piccolo formato, medio formato, più luce, meno luce, post produzione, stampa in camera oscura e, oggi, intelligenza artificiale. Tutto questo ha davvero poco valore perché si tratta solo di “strumenti”, come lo erano i colori e i pennelli per i pittori di un tempo. Ma spesso si fa l’errore di elevare tali strumenti a mezzo di comunicazione o ancora peggio a linguaggio, come se fossero loro anziché l’occhio (umano) a guardare.
Chi realizza immagini basandosi primariamente sullo sfruttamento degli apparati tecnici, produrrà fotografie ordinarie, quelle che ogni giorno ci vengono proposte sui giornali, nelle trasmissioni televisive o attraverso i social. Poi c’è “il linguaggio” cioè il modo di codificare quel che il pensiero tenta di esprimere attraverso il mezzo. Mi piace insinuare qui una provocazione: il linguaggio è morto! La “libertà” dell’artista è morta! Che cosa significa? Non esiste più un linguaggio in grado di lasciare “libero” l’artista, men che meno il pubblico. Ogni forma di linguaggio è contaminata e tuttavia ancora ci si ostina a sottoporla a sua volta a una codifica che la colloca all’interno di un contenitore sul quale è stata apposta un’etichetta. Dunque di cosa si parla quando si menziona la “libertà dell’artista”?

Pathos, © Giorgio Negro
«Solo l’effimero dura».

In fotografia tutto si riduce a tre semplici concetti: luce, spazio, presenza e a come questi concetti si fondono/relazionano all’autore. Se la relazione si stabilisce allora ciò che ne deriva arriva dritto all’anima di chi osserva quelle immagini. Sì perché “fare belle fotografie” è ormai alla portata più o meno di tutti coloro che sanno usare bene il mezzo, diverso è “comunicare”. E farlo senza cadere negli stereotipi offerti dal linguaggio è impresa quasi impossibile.
Voglio citare le parole di John Waters – giornalista dell’Irish Times e scrittore – tratte dall’introduzione al libro di fotografie di Ragnar Axelsson Immenso e fragile. Un racconto dal Nord (Admira Edizioni, 2011) che ben definisce cosa è stato capace di fare il linguaggio codificato alla fotografia.

“Esistono fondamentalmente due generi di fotografia. Uno è generato da una macchina fotografica che cattura ciò che le sta davanti: non si tratta necessariamente di uno scorcio casuale, ma senza dubbio è una visione oggettivizzata che si pone in relazione a qualche artificio umano, un realismo sociale che non suscita altra reazione che una sorta di coinvolgimento politicizzato. […] Questo tipo di immagini applica una logica derivata dagli stratagemmi umani in un mondo che si ritiene ormai scontato, dalla convinzione aprioristica di avere il completo controllo della realtà e della creazione dei suoi significati. Poi c’è il genere di fotografia che ti interrompe, che ti trascina dentro sé, in una storia che intuisci esistere come eredità di qualcosa antecedente alle macchinazioni dell’uomo”.

© Jungjin Lee
«Le fotografie di Lee rendono le tematiche affrontate come oggetti silenziosi,
ma il loro silenzio è come un sussurro infinito». (Bohnchang Koo)

“Le macchinazioni dell’uomo”. Una di queste è senza dubbio il linguaggio e, più subdolamente, come è ‘opportuno’ che esso venga utilizzato. La fotografia è l’arte, oserei dire, che più di ogni altra subisce tale nefando ricatto. La fotografia è schiava del linguaggio che le è stato appiccicato add0ss0. A questo punto sorge spontanea una domanda: come possiamo tornare a quel “sentire” primordiale che giace sepolto sotto strati e strati di codici? A quell’ascolto che si è smaterializzato dal mondo attuale per fuggire chissà dove in un’altra dimensione? Può l’osservazione semplice dello spazio che ci circonda suggerirci le immagini purificate (dai codici e dai linguaggi) che così affannosamente cerchiamo? Perché queste sono le immagini che inconsciamente vorremmo vedere ma che ci vengono negate. Come fare a trovarle, come fare a entrarvi anziché subire senza sosta ‘inquadrature’ diventate schermo di una realtà finta che non ci appartiene? Tutto riconduce alla ricerca interiore. Cito ancora Waters:

“Una vera fotografia del mondo esteriore ci parla di quello interiore”

dove la ricerca interiore non pone al centro l’uomo perché non è questo il punto di partenza e nemmeno quello di approdo. La ricerca deve necessariamente porre l’uomo all’interno di una naturale struttura melodica fatta di molteplici elementi, tutti in relazione tra loro, solo così si può comporre una fotografia che esca dal “banale” e diventi “arte”. Gran parte delle fotografie che guardiamo ogni giorno sono invece il frutto di un non-ascolto generato dall’ansia di trovare risposte a quesiti che nemmeno hanno più importanza nella complessità del mondo in cui viviamo. Tale complessità si ripercuote inevitabilmente sulle espressioni artistiche che effettuano goffi tentativi di esorcizzarla aggrappandosi ai linguaggi codificati dall’uomo stesso. Così la paura del vivere si attenua e l’uomo/artista/osservatore gode di un momento di tregua (e anche, forse, di gloria). Il cerchio si chiude senza però riuscire a soddisfare l’ansia, e la domanda che rimane (o dovrebbe) sospesa è: “Come devo fotografare”? La domanda non indica però la “centralità” dell’uomo, bensì tende a metterlo in relazione con lo spazio attorno a sé sporgendolo sul ciglio di un abisso. E quanto più saremo umili nella ricerca della relazione tanto più vicini arriveremo alla melodia corale che ci permetterà di vedere ciò che una normale immagine non può mostrare.

© Rinko Kawauchi
«Non basta che la fotografia sia bella. Se non commuove il mio cuore,
non commuoverà il cuore di nessun altro.»

Ho citato la luce, lo spazio e la presenza come elementi che caratterizzano, a mio modo di vedere, la fotografia: solo questi, liberi da sovrastrutture. Il loro senso riconduce a un’idea di vita cosmica apparentemente tanto distante dall’oggi ma che in realtà è l’unica vita che potrebbe sollevarci da tutte le nostre ansie. Siamo in grado di afferrarli questi elementi, di amalgamarci ad essi senza tentare di dominarli?
Come comporli poi all’interno del nostro personale modo di ritrarre il mondo dovrebbe rispondere alla semplice domanda: perché fare fotografia?