Perché la moda è spesso percepita
come frivola e assurda?

David LaChapelle, This is my House, 1997. Un’immagine comica che lega l’identità individuale alla prole e alla casa come se si trattasse di un’unica, indivisibile persona

Una delle opinioni più diffuse che ho spesso sentito esprimere da individui culturalmente aperti è quella secondo cui la moda è qualcosa di assurdo e frivolo, che il mondo della moda propone oggetti e abiti “strani” solo per incidere continuamente sui gusti del pubblico allo scopo di vendere merce. Un po’ trendy ma in fondo non una cosa seria.
Questo giudizio così tanto “calato dall’alto” è indirizzato ad alcuni capi che si vedono sfilare sulle passerelle della “Fashion Week” ma anche alla hoi polloi, la massa, il gregge che frequenta le cattedrali del fast fashion come Zara o H&M. Interi settori di pubblico ne fanno parte spesso considerati “poveretti senza cultura”, superficiali poiché spendono cifre notevoli per acquistare abiti un po’ stravaganti. Certo, ognuno ha il suo gusto e decide come vestirsi, ma l’idea che il fashion system sia una macchina che marcia per creare e poi distruggere un gusto passeggero (soprattutto per fini economici) prevale in coloro che non appartengono al mondo della moda. Beh, allora tenetevi forte perché ora è arrivato il metaverso dove la moda appare ancora più assurda. Ma una ragione c’è. Per parafrasare Shakespeare: c’è metodo in questa follia!

Come ho affermato già altre volte, a mio avviso la moda è il barometro della società; esprime attraverso un linguaggio visivo, come tutte le forme d’arte, percezioni, emozioni e opinioni che coprono il corpo in un determinato modo allo scopo di mostrare agli altri la propria opinione di sé. Sensazioni personali – mal espresse in altri ambiti – desideri di identità e la promessa fatta a se stessi di chi si vorrebbe essere. Dire che tutto questo è superficiale, bizzarro, frivolo, assurdo è come dire che la pittura del XX secolo è stata superficiale, bizzarra, frivola, assurda poiché tratta solo di colori, gesti e astrazioni incomprensibili. Ovviamente, se dicessi una cosa del genere, chiunque nell’ambiente dell’arte mi darebbe dell’idiota privo di cultura! E non a torto.
Vanessa Friedman, fashion critic di The New York Times, in un commento recentemente pubblicato in risposta a un giovane manager che le chiedeva se dovesse cambiare guardaroba man mano che la sua carriera procedesse nella scalata al potere, ha scritto: «La moda ha sempre funzionato come segno sia di aspirazione sia di raggiungimento; un segnale nascosto di ricchezza, accesso, gusto, intelligenza e inclusione in un club».
Inclusione in un club. È questa la chiave del discorso. Qualsiasi aspetto estetico espresso attraverso la moda, a partire dal costume più eccentrico adottato da certuni creativi fino alla divisa più minimalista dei regimi politici, forse uno dei significati più profondi che afferma è la volontà di appartenere. Ma prima di approfondire questo concetto, allarghiamo lo sguardo.

Irving Penn, Spanish Hat, Tatiana du Plessix (Dovima), 1949. Da notare come le spalle e lo sguardo danno alla donna un potere che, in realtà, la società americana non le riconosceva.

 

Il tipico approccio scultoreo in un abito di Cristobal Balenciaga fotografato da Irving Penn, 1967.

Certo, c’è un aspetto della moda che si rivela prettamente commerciale: la distribuzione e la comunicazione in primis, stesse logiche che però muovono anche il design e l’arte, ambiti che non si basano certo esclusivamente su apprezzamenti culturali. Il più delle volte, la vendita di un’opera d’arte o di un oggetto di design è basata sulla richiesta del mercato, un valore che certamente può essere completamente slegato dal valore storico o culturale di un oggetto. Eppure ciò non significa che non li si possa vendere. L’atto legato alla vendita in sé non dice molto sulla qualità storico/culturale di un’opera d’arte o di un oggetto di design, né sugli autori che li hanno realizzati; esprime semplicemente una logica di mercato. Molti vorrebbero vedere nelle gallerie un altro sistema valoriale. Ma non potrà mai essere così. Lo si può chiedere a chiunque abbia cercato di tenere in attività una galleria d’arte attraverso il solo concetto di “diffusione culturale”. Il mercato è una delle espressioni della società. Le ragioni per le quali alcune opere guadagnano una posizione di prestigio nella contemporaneità dipendono da processi complessi. Un dipinto, un oggetto di design, una scultura, un’installazione non hanno intrinsecamente valore se questo non viene percepito dal pubblico in un modo che potremmo definire “comprensibile”. È una questione di ermeneutica, vale a dire di come attribuiamo valore alle cose, quali sono i fondamenti della realtà storica e culturale che ci aiutano nell’interpretazione dei molteplici significati impliciti dell’opera.
Probabilmente non troviamo scritto da nessuna parte che la Gioconda di Leonardo Da Vinci è il più bel ritratto della storia, ma nel nostro periodo storico questo è il valore estetico che spesso le viene assegnato. Non importa se piace o non piace, è una valutazione sociale. Parla il popolo in generale, non gli intellettuali. Non solo i potenti, ma la gente.

Tornando alla moda, che gli abiti siano stati utilizzati storicamente come distinzione fra le classi sociali è risaputo. Che la rivoluzione industriale abbia offerto a tutti la possibilità di vestirsi in modo personale – attraverso la manifattura in serie che ha permesso la riduzione dei costi generata dalla possibilità di replicare massivamente un abito o un accessorio – è evidente. Se ne deduce quindi che un contadino può ora vestirsi da cittadino trovando così una propria identità dove appare meno la “classe sociale” cui apparterrebbe. Questo cambiamento profondo del modo in cui un tempo ci si riconosceva, cioè attraverso l’abbigliamento, ha notevolmente modificato la società rendendola per certi versi uniforme oltre a enfatizzare l’importanza della superficie come significato, eliminando le relazioni storiche con le quali le persone venivano giudicate. Contestualmente è avvenuta una costante evoluzione della percezione dell’importanza dell’individuo. Un cambiamento sismico delle relazioni umane e del nostro rapporto con gli oggetti che abbiamo intorno. Riassunto in due parole: questo è il processo che produce moda e design, espressioni del possesso che indicano chi siamo oppure come vogliamo apparire nei confronti degli altri. Se poi volessimo includere nel discorso le scoperte di Freud sulla relazione con l’inconscio, cominciamo ad avvicinarci al concetto che si vuole dibattere qui: vale a dire perché qualcuno definisce assurdi  e frivoli alcuni stili della moda.

August Sander, Young Farmers, 1914. Giovani contadini tedeschi vestiti per andare in paese in un periodo storico di transizione per i ruoli sociali

Prima dell’industrializzazione, la superficie di ogni cosa era riempita di segni che davano significato all’oggetto. L’armadio di casa, per esempio, aveva delle volte, delle curve o dei piccoli intagli e altro ancora, tali segni assumevano importanza nel significato attribuito  allo stare insieme della famiglia. Un semplice piatto era contornato da un disegno per ricordarci che il cibo non consisteva semplice nel riempire la bocca per sfamarsi, ma che si trattava di un rito quotidiano legato al ciclo della vita e della morte di ogni essere umano. Analogamente ogni modo di vestirsi si traduceva in altrettanti significati e ruoli storicizzati rivolti verso gli altri: il vero senso dalla decorazione.
Poi è arrivata l’industrializzazione.
All’inizio il processo industriale riprodusse gli oggetti e la moda delle classi abbienti. Successivamente si formarono (mi si perdoni l’estrema semplificazione!) due correnti: quella che approvava la rivoluzione industriale e quella che era contraria. La corrente contraria includeva i Luddite che presero a distruggere gli impianti tessili industriali oppure il movimento Arts & Crafts che cercava invece di far emergere sempre di più il valore delle cose fatte a mano. L’avvento dell’industrializzazione però – inarrestabile poiché legato apertamente al maggiore e più facile profitto – prima con il movimento futurista in Italia poi con il Bauhaus tedesco, diventa visione del futuro. Un futuro incredibile, pieno di invenzioni e trasformazioni, di velocità e potere. E non solo. La decorazione, che per secoli era stata un insieme di segni che dava significato agli oggetti, improvvisamente si libera dei significati stessi! Grazie all’industria, infatti, si cominciarono a utilizzare disegni atavici ovunque, a stampare disegni geometrici sulla stoffa, a dipingere elementi di vita e morte su tazze e piatti prodotti in milioni di esemplari.
Contemporaneamente, le genti che abitavano le campagne si trasferivano sempre di più nelle città industriali per trovare un lavoro che speravano – erroneamente – potesse essere meno massacrante del lavori nei campi. Ma una volta trasferitisi, non possedevano più i riferimenti storici che permettevano loro di avere “relazioni”, sradicati dalla campagna, inevitabilmente erano isolati. Come potevano quindi valutare le persone nuove della città? Come potevano valutare le cose da comperare? Non c’era la tradizione o la famiglia per aiutarli a decidere, a capire. Di fatto, si valutava la superficie. Se un individuo era vestito da “ricco”, si poteva presumere che fosse effettivamente ricco. Se si vestiva da “medico”, si poteva supporre che fosse un medico. Incrociando questo epocale cambiamento nei rapporti umani con il potere industriale che si affacciava all’epoca, in grado di produrre sempre più cose con la precisione normalmente presente nel lavoro artigianale di alta fattura, la produzione di qualunque cosa divenne significativamente più accessibile modificando per sempre la percezione del valore. Proprio questi cambiamenti hanno riempito il mercato di oggetti con nuove forme, angoli perfetti e superfici lisce come specchi. Questi cambiamenti ebbero terreno fertile nella creatività artigianale del Bauhaus diretto da Walter Gropius che vedeva nell’industrializzazione l’arte del futuro. Questa è la radice di Ikea, la chiesa che ha predicato la nuova religione: il futuro industriale, il design industriale.
Certo, tutti questi cambiamenti sono avvenuti attraverso processi molto complessi, che qui non menziono, ma il punto è comprendere come l’avvento della moda ha a che fare con i cambiamenti profondi via via avvenuti nella società: dai nuovi significati personali ai nuovi processi produttivi. Altro che assurda!

Il processo di industrializzazione ha poi inevitabilmente sviluppato una maggiore libertà individuale di esprimersi senza però averne ereditato il diritto. Una libertà che ha, guarda a caso, creato dei mercati. Il nesso tra mercato, economia, industrializzazione e la trasformazione del senso di sé camminano insieme simultaneamente. All’individuo piace distinguere e separare le varie trasformazioni in modo che risultino più comprensibili, ma la realtà è che la società si muove nel suo insieme, nel bene e nel male. Il narcisismo va di pari passo con il processo di industrializzazione.
Per comprendere meglio ciò di cui sto parlando facciamo un salto indietro nel tempo, agli inizi del Novecento. Siamo a Vienna dove si fa strada l’idea che l’arte sia in stretta relazione con la nuova teoria dell’esistenza dell’inconscio. Freud, Riegl, Klimt, Kokoschka, Schiele, Schnitzler, Gombrich sono tutti protagonisti della trasformazione del senso di sé. Lo si vede in molte loro opere legate alla visualizzazione di impulsi provenienti dall’inconscio.

Gustav Klimt,  Adele Block-Bauer, 1907. Esempio di immagine che ha trattato, forse per prima, la presenza dell’inconscio attraverso l’introduzione di piani grafici e non reali in un ritratto. Klimt fece parte della Vienna dell’inizio del secolo scorso, una città in trasformazione grazie al fermento intellettuale sorto attorno all’emergere del ruolo dell’inconscio nella vita quotidiano di ognuno.

Cosa ha a che fare, per esempio, Freud con la moda? Tantissimo. Come anche le rivoluzioni americana, francese e russa, l’economia mondiale, l’industrializzazione tutti momenti storici che, in quanto cambiamenti della società, hanno modificato la percezione e il pensiero che ognuno ha di se stesso. Di conseguenza si modifica non solo il pensiero ma anche ciò che si dice, come lo si dice e come ci si veste. Cambia come ci si sposa, cosa si cerca nella vita e come ci si relaziona con i propri figli. Inchiniamoci a Einstein, perché tutto è relativo! Come insegna la semiotica, i significati derivano dalla memoria delle cose che abbiamo vissuto nella nostra vita. Non ci sono assoluti, tutto è relativo. Ernst Gombrich lo ha imparato da Alois Riegl, a Vienna. Qualsiasi espressione visiva, che sia un quadro, un fumetto, un vestito o un oggetto, fa derivare il proprio significato dall’archivio storico di chi lo guarda.
Questo concetto è un’altra chiave di lettura determinante del fenomeno della moda che può essere riassunto con la famosa idea di Gombrich: the beholder’s share, cioè quella parte di significati che ognuno attribuisce a ciò che vede o legge basata sulla propria interpretazione.
Riprendiamo per un momento Freud. Il riconoscimento del ruolo dell’inconscio ha liberato gli uomini e le donne da millenni di pregiudizi. Anche se non si è sostenuta una terapia psicanalitica, la psicanalisi ha cambiato il modo in cui viviamo. Come? Ha cambiato la nostra comprensione del perché si fanno determinate scelte. Anche se scegliere un partner con cui convivere comporta conseguenze molto più importanti e complesse della scelta di una nuova automobile, per esempio, il processo in sé ha moltissimi elementi in comune. E l’elemento più significativo e importante che ci porta a fare le nostre scelte, è costituito dalle emozioni che ognuno di noi prova.
La moda è uno dei principali mezzi per esprimere il sé. Svariate volte nell’arco di una giornata, le persone decidono come vogliono apparire anche quando questo non sembra affatto intenzionale. Si decide quali occhiali indossare, quale camicia, quali scarpe, foulard o cappello. queste scelte non sono frivole, per il benessere psichico sono fondamentali. E possediamo una così ampia scelta di chi essere in ogni momento perché l’industrializzazione, la creatività degli stilisti, la passione degli artigiani e il mercato sono in continuo fermento e producono un flusso di stili e idee altrettanto continuo.

Jock, Collezione Autunno – Inverno Thom Browne, 2012.
La trasformazione critica dello stereotipo tradizionale dell’atleta scolastico in una forma punkettara dello stilista Thom Browne nel 2012.

 

Collezione Autunno/Inverno di Dolce & Gabbana, 2021.
Seguiamo nello sviluppo della moda la trasformazione dell’identità individuale in un mondo sempre più surreale dove l’individuo crea una propria personalità virtuale per superare i limiti offerti dalla realtà.

Tralasciando qui tutti i riferimenti storici, accademici e scientifici del caso, possiamo dire che la moda e il design stanno a noi come l’uniforme sta a qualsiasi ruolo pubblico: indica agli altri le nostre idee, i nostri valori, chi siamo. Serve a dare senso al valore che attribuiamo a noi stessi nella società in cui viviamo. Ci fa sentire parte del gruppo, ci fa sentire speciali, ci permette di riconoscerci e avere un po’ più di fiducia verso il nostro futuro.
Pertanto quando oggi, nel metaverso, vediamo un’immagine di moda che consideriamo a priori assurda, dobbiamo prima di tutto chiederci cosa sta esprimendo, in che modo cambia il potere o l’identità dell’individuo. Se esprime una risposta a uno stato di frustrazione o di impotenza. Dobbiamo chiederci quante volte rappresenta la nostra paura di non essere abbastanza forti, di non poterci difendere davanti all’aggressività della società che è intorno a noi. Spalle enormi, corazze attorno al corpo, colori sgargianti, ali per volare, segni di genere e di scelta sessuale per rassicurarci e avere un qualche potere d’attrazione nei confronti degli altri. La moda ci offre metodi per superare le nostre paure e le nostre ansie. In questo senso non guardiamo alla moda per la sua utilità, bensì per la ricchezza espressiva che ci offre, tutti i giorni, in ogni momento della nostra vita.

The Fabricant Studio, ha recentemente ottenuto 14 milioni di dollari in investimenti per produrre Digital Fashion dove viene evidenziata l’espressività individuale attraverso stoffe, fantasie e forme che la vita quotidiana riterrebbe assurde se portate nel quotidiano.

A questo punto, una volta compreso il potere che ha la fantasia nella moda e come questa ci dia la possibilità di liberarci delle nostre paure e dalle nostre ansie, siamo pronti a fare un salto che ci potrà liberare addirittura della realtà: il metaverso. Perchè le aziende di moda di tutto il mondo stanno investendo miliardi in collezioni e NFT (Non Fungible Tokens), nel metaverso? Perché, come i social media, il metaverso dà a chiunque la possibilità di scrollarsi di dosso la propria realtà e diventare qualcun altro.
Con il metaverso potremo quindi non essere più la segretaria sovrappeso di un capo arrogante, bensì una versione di donna più snella, più attraente e indipendente. Oppure, potremo non essere più il giovane uomo confuso e indeciso con poche possibilità di influire sul proprio futuro, in un mondo di cambiamenti climatici e di identità di genere fluida; ma un muscoloso campione atletico che si batte per i principi d’uguaglianza in un mondo fantastico e senza paura. Tutto questo ci spaventa perché rende la vita virtuale più vera della vita reale e le conseguenze sono potenzialmente devastanti. Ma questo è il cammino dell’uomo e se vogliamo incidere sul nostro futuro, è indispensabile carpire dalla moda i significati più profondi legati alla fantasia liberata dalla realtà per poter riportare l’esperienza personale nel mondo reale, dove servirà a creare una nuova moda sostenibile, che esprima chi vogliamo essere domani.