IO, L’IMPERFETTO

© Pino Spadavecchia – Courtesy dell’autore

Io, l’imperfetto, si chiama così la mostra di Pino Spadavecchia inaugurata lo scorso 17 settembre presso la Sala dei Templari, a Molfetta. Il titolo è sin troppo esplicito, allusivo alla condizione dell’uomo e dell’artista. È tale, però, da suggerire un altro percorso, che probabilmente si conforma più precisamente a questa mostra, che reca come sottotitolo Opere, 1980 – 2022. L’imperfetto è, infatti, anche il tempo verbale della narrazione e del racconto. Esattamente ciò che fa questa retrospettiva, che abbraccia uno spazio anche maggiore di quello dichiarato: oltre cinquanta anni, considerando le prime prove di studio. Si cercherebbero invano, tuttavia, precise indicazioni cronologiche per definire fasi della vita o “periodi” pittorici dell’attività artistica di Spadavecchia. Questa scelta si rivela coerente con il senso complessivo della mostra, che è quello di “offrire” l’artista in quanto uomo e non in quanto produttore d’arte.

Visitare lo studio dell’artista aiuta a comprendere meglio questa scelta. Uno spazio che si nutre della stessa vitale imperfezione evocata dal titolo. La prima impressione è che non vi sia un ordine preciso, che ogni oggetto, carta o tela siano disposti secondo il criterio dell’accumulo e della casualità. Eppure, dopo aver osservato attentamente, si scopre che Spadavecchia ha disposto tutto in funzione di un percorso preciso. Nella seconda stanza ci accoglie infatti un suo ritratto con una maglia a righe che evoca immediatamente un celebre ritratto di Picasso. La foto, montata su un cavalletto, lo rappresenta mentre è seduto davanti a un tavolo apparecchiato con un piatto, delle posate e un tozzo di pane. Non guarda in macchina, non gli interessa che si osservi il suo viso, ma il gesto che sta compiendo, ovvero quello di chi si accinge a gustare una pietanza. Solo che in questo caso si tratta di una fotografia. “Chi c’è nel piatto?”, chiedo all’artista. “Mio padre, le mie origini”. Non aggiunge molto altro. Anche i suoi discorsi funzionano allo stesso modo: frasi interrotte, parole appena accennate, gesti che sostituiscono i lunghi racconti che spesso gli artisti amano intessere attorno alle loro opere. Ma in un’altra zona della stanza, in alto, si legge una frase di Picasso, proveniente da una conversazione con Simone Téry del 1945, che Spadavecchia ha trascritto con un pennarello nero, in stampatello, come fosse un’epigrafe casalinga, destinata a fungere da monito perenne:

«che cosa credete che sia un’artista? Un imbecille che ha solo gli occhi, se è pittore, le orecchie se è musicista, e una lira a tutti i piani del cuore se è poeta, oppure se è un pugile, solamente dei muscoli? Al contrario, egli è allo stesso tempo un uomo politico, costantemente sveglio davanti ai laceranti, ardenti o dolci avvenimenti del mondo e che si modella totalmente a loro immagine. Come sarebbe possibile disinteressarsi degli altri uomini e, in virtù di quale eburnea indifferenza staccarsi da una vita che essi vi apportano così copiosamente? No, la pittura non è fatta per decorare gli appartamenti. È uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico.»

E poco sotto, stavolta scritte in corsivo, si leggono poche parole scritte dall’artista,

«e poi ho visto le mie mani sporche. Operaio del colore. Operaio differente.»

© Pino Spadavecchia – Courtesy dell’autore

Come schegge di memoria, le opere in mostra si rivelano all’occhio senza un apparente filo cronologico che le colleghi fra loro, pure e semplici esperienze che scavalcano i decenni e si accavallano, di volta in volta rivaleggiando per acquisire un primato nelle emozioni. Le opere di Spadavecchia sono generalmente senza data perché non si cura di datare sentimenti e stati d’animo. Per la stessa ragione, sono quasi sempre anche senza titolo, tranne quando irrompe la necessità di lasciare un segno evidente, esplicitamente sociale e politico. Come nel cumulo di 500 fogli bianchi chiusi in una teca trasparente, opera realizzata in occasione del quinto centenario della “scoperta” dell’America. Quando era ancora ragazzo, allora sì, che titoli e date erano altrettante pietre miliari di un percorso ancora tutto da fare.

Vi sono disegni del 1970 che raffigurano alcuni nudi femminili. Spadavecchia racconta che si tratta di prostitute che lui aveva ritratto quando ancora era uno studente di liceo. I loro corpi sono abbondanti, occupano con prepotenza la superficie bianca del foglio, come fossero scolpiti e non semplicemente disegnati. C’è qualcosa che la linea trattiene a fatica, i corpi sembrano fatti di una materia primordiale che si spinge oltre la forma. Ricordano le Veneri preistoriche e le Grandi Madri mediterranee. Riportano lo sguardo di chi osserva in una dimensione fuori dal tempo e dalla forma, qualcosa di pulsante e nello stesso tempo indefinito, che come il materno è associato alla terra e ai suoi frutti, alla nascita e alla morte, una forza creativa che si aggiunge a quella distruttiva, qualcosa che allo stesso tempo nutre e divora. Dunque un’imperfezione che riporta all’indefinito delle origini.

In questi corpi si legge già l’esigenza di abbordare un’essenza che prescinda dalle costrizioni del corpo. Dopo una fase in cui è ancora possibile una lettura tradizionale di segni e colori (si veda in proposito il doppio ritratto dei genitori), le forme si attenuano e si dileguano a favore di masse informi, pigmenti indecifrabili straziati da pennelli, spatole e stracci usati come strumenti di tortura, assetati di verità nascoste sotto la tela. Ne emergono sagome goffe e inquietanti, che si affacciano dalla superficie buia dei quadri come anime perdute alla ricerca di un varco. Evocano l’Urlo di Munch. Attraggono e respingono così come ci attrae la paura del buio e della morte, ma sono al contempo un modo per mettere in scena le proprie angosce e compiere i necessari riti apotropaici. L’artista deve attraversare l’oscurità, liberarsi dal proprio corpo, vedersi al di fuori di sé per rinascere con altre forme.

© Pino Spadavecchia – Courtesy dell’autore
© Pino Spadavecchia – Courtesy dell’autore

Verso la fine degli anni Ottanta, Pino Spadavecchia è nell’età in cui Dante si addentra nella selva oscura. Le masse e i grumi di colore scompaiono e rimangono scarni segni neri su tele bianche, una pittura che esteticamente ricorda l’essenzialità calligrafica orientale, ma per la nostra sensibilità mediterranea assomigliano piuttosto a sudari, involucri dove lasciare per sempre, liberandosene,  fantasmi e fobie. Siamo nell’Abisso, così venne chiamata quest’esperienza, che diede vita ad un’omonima personale nel cinquecentesco chiostro di San Leone a Bitonto.

© Pino Spadavecchia – Courtesy dell’autore

Uscito a riveder le stelle, Spadavecchia sente il bisogno di superare i limiti espressivi precedenti, utilizzando anche “nuovi” strumenti. Gli anni Novanta vedono un interesse crescente per la fotografia, sentito come un medium più immediato e accessibile. In alcuni casi la foto è “pura”, come nell’immagine in un cui è ritratto come un prigioniero, a sbuffare inutilmente fumo, inutilmente appoggiato alle inferriate da cui potrebbe evadere, ma che sarebbe privo di senso abbandonare per cercarne altre, diverse, ma pur sempre sbarre. A volte, invece, la foto gioca con la contaminazione pittorica, come nella serie incentrata sulla bellezza non artefatta di un’amica.

© Pino Spadavecchia – Courtesy dell’autore

Più spesso ancora, come in Fiori per la pace, del 2001, le foto sono utilizzate in modo seriale come base su cui intervenire con gli strumenti della pittura. Le fotografie, quelle di piccolo formato realizzate negli studi o le istantanee di famiglia, sono per Pino Spadavecchia le tele su cui stendere nuovi segni, lasciare una traccia del proprio passaggio. Le considera, in definitiva, come degli objets trouvés, tratte dal cumulo degli oggetti inutili,  le rende nuovamente visibili, proprio come i fantasmi che appaiono sulle sue tele. La superficie delle fotografie diventa un velo opaco, sembra che l’artista abbia voluto sottrarre leggibilità all’immagine. Ma nel segno che Spadavecchia lascia di sé, ovvero la pittura che sfoca la fotografia, si riconosce anche il senso di una lotta, il rifiuto di piegarsi all’immobilità di una forma precisa, in virtù di qualcosa che allontana dall’immagine nello stesso tempo le restituisce una nuova esistenza.

Fiori per la pace (2001), Pino Spadavecchia – Courtesy dell’autore
© Pino Spadavecchia – Courtesy dell’autore

Da molto tempo, ormai, ha abbandonato le grandi tele, che andavano di pari passo con la misura dei programmi sociali ed esistenziali, per prediligere lavori di dimensioni più piccole, quasi un invito a portarli con sé. In questo ambito, un posto particolare spetta alla grafica, poco visibile in mostra, in cui l’artista riesce, con un tratto leggero ed una fulminea velocità d’esecuzione, a cogliere il senso più profondo dell’oggetto, con una vena che spesso si rivela sarcastica.

Pino Spadavecchia non è artista cortigiano e salottiero; schivo e ombroso ha evitato come la peste le lusinghe e le occasioni degli ambienti del potere e dei dintorni: niente sponsor, niente padrini, niente padroni. Sta dalla parte dei nativi, dei palestinesi, della pace, degli umiliati e offesi di ogni parte del mondo, ma non con chi su quella difesa ha costruito fortune e carriere. 

Pino Spadavecchia è nato a Molfetta nel 1954 dove vive e opera. Ha studiato Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Roma e di Bari e ha lavorato presso l’Archivio di Stato di Bari. Nel corso dei decenni si è confrontato con le esperienze e i linguaggi dell’arte contemporanea, rimanendo, comunque, fedele a un proprio modo originale di esprimersi e di relazionarsi con il sistema dell’arte. Ha realizzato numerose personali in Italia e ha spesso partecipato ad iniziative artistiche, anche internazionali, di supporto e sostegno a cause di valore etico e civile.

Il suo autoritratto, nella mostra, affianca sei specchietti orientati in modo che ci si possa riflettere, disposti sopra sei carte assorbenti allineate, ognuna più sporca dell’altra: sono i sei giorni della settimana passati a guardarsi, da estraneo, giorni in cui, a poco a poco, per decenni, ha dovuto lasciare pezzi di vita a marcire per nulla che abbia valore, solo per un salario, aspettando di uscire dall’ufficio per entrare nel suo studio e riprendersi ciò che rimane della sua libertà. Lacerato tra il ripetersi ineluttabile di uno squallore impiegatizio e il bisogno urgente e insopprimibile della bellezza, l’espressione d’arte per Spadavecchia non è piacere o vocazione, ma spazio di libertà e salvezza. In questo spazio trovano cittadinanza, di volta in volta, i colori e le forme, le monocromie e le deformità, l’olio, l’acrilico, la china, il ducotone, il pastello, l’acquerello, la matita, la penna, vernici e smalti, materiali occasionali e fortuiti. E poi l’abrasione, il ritocco, il fotomontaggio, il collage.

Tele, cartoni, cartoncini, carta, nel mondo di Spadavecchia non ci sono gerarchie di strumenti o di formati, solo il bisogno di parlare ad un mondo che, essendo ormai assordato, sta diventando anche muto. Questa mostra esprime nel modo più nitido il conflitto tra labor, la fatica dolorosa e frustrante di una condanna biblica, e opus, la fatica gioiosa e creativa di un Eden perduto che qualcuno si ostina, nonostante tutto, a desiderare.

Nei decenni trascorsi tra i primi bozzetti e la sua più recente produzione, Pino Spadavecchia è riuscito ad esprimere le paure di fantasmi mai definitivamente cacciati, il lirismo per una bellezza agognata, sfiorata e vissuta, la nostalgia di un mondo tramontato e la speranza per un’alba mai spuntata.

I suoi compagni di viaggio, i pendolari tra Molfetta e Bari e ritorno, un tempo parlavano di calcio, di donne e di politica; giocavano a tressette e leggevano libri o gli appunti dell’ultima lezione. Negli ultimi anni guardano ossessivamente, ciascuno per proprio conto, lo schermo di uno smartphone. L’antica idea greca che il bello possa e debba essere anche buono, se tornasse in auge, potrebbe riportare gli sguardi all’altezza degli occhi. Questa mostra, con tutto il suo carico di ostinazione e amore, ci scommette.     

La mostra: Io, l’imperfetto. Opere 1980-2022
Sala dei Templari, Molfetta
Sino al 2 ottobre