Volto, anima del corpo

©Piero Gemelli, Io non sono io , still life

Nel XII secolo si supponeva che il sudarium su cui era impresso il volto sudato e sanguinante di Cristo fosse conservato a San Pietro a Roma. Una donna di Gerusalemme, di nome Veronica, avrebbe offerto un fazzoletto al Signore per asciugare il sangue e il sudore dal volto mentre saliva al Calvario, ed egli glielo avrebbe restituito con l’impronta del suo volto. L’oggetto venne chiamato veronica, vera eikon, poiché solo una classe di immagini consente di evitare inesattezze, ed è l’impressione diretta del volto o del corpo. Le altre possono solo sforzarsi di ottenere la maggior verosimiglianza possibile. A metà Ottocento, lo scienziato francese Guillaume-Benjamin Duchenne de Boulogne, che lavorava all’ospedale della Salpêtrière, aveva ideato un sistema sperimentale per isolare i vari fasci muscolari. Usando leggere scosse elettriche, stimolava certi muscoli facciali facendoli contrarre. Poi, insieme al fotografo Adrien Tournachon (fratello minore di Gaspard-Félix Tournachon, alias Nadar), Duchenne fotografava il risultato. In questo modo scoprí che un sorriso genuino viene generato da fasci muscolari diversi rispetto a un sorriso finto e le fotografie servivano a documentare i risultati della sua ricerca. Nel primo caso attraverso la fede, nel secondo attraverso la scienza, il volto diventa la superficie, la “faccia”, che va letta per comprendere l’anima.
Da un lato c’è la vita emotiva e intima di una persona, che è privata, fluida e mutevole, e dall’altra esiste la vita politica e sociale dell’individuo, dove si deve apparire sempre nella forma che gli altri si aspettano. Qual è dunque il “vero” volto di un soggetto, la vera eikon? La mostra Volto, anima del corpo, con le differenti sezioni dedicate al ritratto, all’autoritatto e al selfie, cerca di rispondere a questo interrogativo. La domanda si fonda sulla distinzione tra verità, ovvero l’autenticità, e finzione, ovvero la superficie di un essere. Se la superficie è la facies che sta sopra, può essere assunta come involucro esterno, ma anche come interfaccia, elemento che può fungere sia da separatore che da connettore tra ciò che sta fuori e ciò che si cela dentro. La veronica e la fotografia hanno come fine la conoscenza, la comprensione profonda di ciò che sta davanti. La verità.
Se il volto è l’epicentro dell’immagine, sono gli occhi che attraggono l’attenzione dell’osservatore. Il dialogo tra chi ritrae e chi è ritratto avviene attraverso lo sguardo. Tra la faccia di Cristo impressa sopra un panno, che ci osserva poco prima di morire, e un’immagine oscena di Duchenne, carpita dagli elettrodi contro la volontà del soggetto ritratto, entrambe espressioni indubitabili di verità, può capitare che una fotografia insinui il dubbio. L’ha scattata Piero Gemelli, e la didascalia ha la stessa forza del celebre “Conosci te stesso”, anche se va in tutt’altra direzione: “Io non sono io”.
Gemelli ritrae un’erma, una classica effigie in marmo, che indossa pesanti occhiali da aviatore. C’è l’effetto straniante di un oggetto scuro sul marmo bianco, l’accostamento astorico di antico e contemporaneo, la provocazione di un ritratto di carta a due dimensioni di uno di pietra che ne ha tre, ciò che più colpisce, tuttavia, è che il fotografo ha volutamente “accecato” la statua. Nessuno sguardo, nessuna possibilità di discorso, niente logos, nessun soggetto e nessuna identità. La negazione dello sguardo è sinonimo di assenza e segreto. Chi osserva sa, però, che dietro lo schermo delle lenti scure c’è il pericolo di uno sguardo possibile: se all’apparenza è negato, è pur sempre latente. È quello di Medusa, ciò che non si può guardare. Si chiede Remo Ceserani: «non era forse funzione di Medusa quella di fissare le sue vittime, annientarle con lo sguardo, pietrificarle (trasformarne la costituzione chimica)? E tenendo conto del procedimento ottico e chimico che presiede alla tecnica fotografica, non sarebbe forse opportuno proporre la maschera della Medusa come emblema o insegna di coloro che praticano l’arte fotografica?». Ma non c’è solo questo. Chi osserva si rende conto che non si può penetrare nel segreto dell’altro. L’ambizione di ogni ritratto, ovvero quella di entrare forzatamente nella parte più recondita di una persona, viene mostrata attraverso la sua stessa negazione. Gli occhi chiusi della statua rappresentano l’invisibile che diventa visibile. O meglio, mostrano i limiti della visione, il potere del fotografo che viene meno, poiché si specchia in un volto vuoto, e nell’idea di mancanza sottesa ad ogni desiderio di rappresentazione.

© Giancarlo Terreo, Ferruccio Parri, Reggio Emilia, 1969

Gli occhiali di Ferruccio Parri, ritratto in studio da Giancarlo Terreo nel 1969, sono spostati al di sopra del punto di messa a fuoco, in quel preciso istante non servono per vedere meglio ma per schermarsi, ritrarsi, quasi per proteggersi. Con il pugno sotto il mento, in atteggiamento pensante e vagamente perplesso. L’abito nero si confonde con lo sfondo nero della foto, è composto dallo stesso buio da cui sembra provenire. Immerso in uno sfondo nero e funereo, l’hic et nunc di Ferruccio Parri è un presente che ricorda la selva oscura di Dante. Il sol dell’Avvenire non è più una scelta che sta davanti, forse è evaporata nel novero delle possibilità, lassù in alto, dove puntano i suoi occhiali da presbite, di chi ormai vede bene solo le cose lontane. Una flebile luce illumina solo una parte del suo volto: Terreo ritrae un terreo disilluso padre della patria, una generazione ormai al tramonto. Con lo sguardo rivolto altrove, Parri trancia i fili della comunicazione, non cerca più il dialogo della politica, sembra sprezzantemente chiuso in un monologo esistenziale.
Ziqian Liu propone autoritratti in forma di sineddoche. Le immagini non mostrano il volto della fotografa nella sua integrità, ma solo alcuni dettagli. Nemmeno il corpo si può osservare per intero: un braccio, una mano, una gamba ne fanno semplicemente intuire la presenza. Per riflettersi, Ziqian Liu usa lo specchio. Diverso da quello di Narciso, poiché non si illude di coincidere con sé stessa, la superficie tonda e riflettente dei suoi specchi la spinge nella direzione opposta, cioè quella di evitare la facile certezza del riflesso, e privilegiare la ricerca incessante della propria forma.

 

©Liu Ziqian, Acceptance and Isolation #2
©Liu Ziqian, Ritual at the dinner table #2

I suoi autoritratti non sono dunque riferibili allo specchio, quanto al labirinto, una spirale che cattura e conduce verso il centro, un percorso interiore che richiede ad ogni parte dell’essere una riflessione sulla propria incompiutezza, per tendere poi ad una ricomposizione, ad un equilibrio complessivo che si rifiuta di essere relegato a riempire un fotogramma. Usare una parte per affrontare il tutto è la metodica umile che si rivela efficace quando l’enormità dell’impresa provoca sgomento. Penetrare l’animo umano è una sfida che si gioca sul volto, ma questo è un campo minato dall’insidia della dissimulazione, della finzione, della maschera, del doppio. Os per i latini è la bocca, ma è anche il viso, l’aspetto, la fronte, la voce, addirittura un’apertura. Pensiamo al volto, ma in realtà guardiamo la bocca, gli occhi, le narici, le orecchie, tutti pertugi che ci conducono ad un dentro tutto da decifrare, un mistero destinato a rimanere tale. Buchi che ci illudono fino a quando non si trasformano in cavità che disegnano per chi le guarda un ghigno impietoso e definitivo. Ecco perché, davanti al teschio, all’unico ritratto che sembra somigliarci, non chiediamo del nulla che vi è racchiuso, ma torniamo tutt’al più a pensare a cosa ci sia mai stato attorno.

©Marisa Rastellini, L’attrice Monica Vitti posa durante un servizio fotografico in uno stabilimento balneare, 1971, ©Credito Mondadori Portfolio-Marisa Rastellini

Il ritratto di Monica Vitti di Marisa Rastellini è una magistrale sintesi di un ritratto della tradizione con il linguaggio cinematografico. Gli elementi del volto sono perfettamente leggibili e le caratteristiche del personaggio sono evidenti e marcate. Le labbra socchiuse sembrano colte durante un dialogo, le ciglia scure e ben disegnate enfatizzano il contrasto con la pelle e soprattutto con i lunghi capelli biondi, spioventi sulle spalle. La leggera torsione del busto e la posizione poco naturale della mano rendono bene l’idea di un movimento, di un avvicinamento tra la diva e la fotografa, esplicitata da un’espressione interrogativa. La cinematograficità del ritratto trova la sua consacrazione con la scelta del piano americano e il contrasto tra i toni chiari dello sfondo e lo scuro del vestito, da cui occhieggiano, contrastanti con il tono serio del viso, starlette e cuoricini. L’attrice è al centro della foto, tra una porta chiusa e una serie di moduli aperti e ripetuti, che scandiscono una prospettiva profonda di cui si intuisce il punto di fuga ma non si vede la fine. Si è costretti a chiedersi che relazione ci sia tra quella specie di vortice squadrato, la Vitti, e la porta chiusa. Il ritratto, il suo senso, la vera icona dell’attrice, non è confinata al suo volto ma tracima nei segni che la circondano. Fiori, gioielli, coralli, libri, animali accompagnavano le persone ritratte, nel tentativo di esplicitarne i caratteri e di eternarne i motivi. La lezione rimane anche nell’età matura del cinema. Per chi ancora si interroga sul sorriso di Monna Lisa, sul realismo del Fayyum o sui colorati multipli di Warhol, il ritratto, scritto, dipinto, scolpito o fotografato che sia, rimane un genere artistico ben solido, perché non riproduce, ma rappresenta. Ha ragione Ferdinando Scianna quando afferma che «le fotografie cambiano, e cambiamo noi che le guardiamo, perché quell’istante è sì prelevato dal flusso di tempo in maniera obiettiva, diciamo così, ma è anche il prodotto di un incrocio tra caso e necessità: e questo implica anche chi eri tu, chi era il fotografo, com’era il mondo intorno a voi nel momento in cui la fotografia è stata scattata».

LA MOSTRA
Volto, anima del corpo, a cura di Irene Finiguerra e Fabrizio Lava, Palazzo Ferrero e Palazzo Gromo Losa, a Biella Piazzo, fino al 5 febbraio 2023