Soprannaturale
cŏrpus et anĭmus

© Pierluigi Fresia, Errori del nulla, 2022. Courtesy dell’autore

«Ogni uomo è fatto in un modo diverso. Dico, nella sua struttura fisica, ma anche nella sua combinazione spirituale. Quindi tutti gli uomini a loro modo sono anormali, tutti gli uomini sono in un certo senso in contrasto con la natura»

Giuseppe Ungaretti

«Ungaretti secondo lei esiste la normalità e l’anormalità sessuale?»
A questa domanda posta da Pier Paolo Pasolini nel 1963 durante un giro organizzato con Alfredo Bini lungo tutta l’Italia con lo scopo di indagare cosa pensassero gli italiani della sessualità e come era cambiato il costume nel corso dell’ultimo decennio, risponde l’ottantenne Giuseppe Ungaretti. Il poeta parla dell’Uomo come soggetto “anormale”, in contrasto con la natura e finanche, attraverso l’esercizio della “civiltà”, apertamente violento e prepotente nei suoi confronti. Il dialogo confluirà nel film documentario “Comizi d’amore” (1965) ed è del tutto evidente che Ungaretti qui non si riferisce esclusivamente alla “natura sessuale” cui allude Pasolini ma a un contrasto ben più ampio che cammina di pari passo con il progresso dell’uomo civilizzato (questione molto cara anche allo stesso regista). Continua poi Ungaretti, sollecitato da Pasolini, dicendo che essendo egli un poeta non può che trasgredire «tutte le leggi facendo della poesia» e dal momento che è “vecchio” rispetta ormai soltanto le leggi della vecchiaia che purtroppo sono le leggi della morte.
Vita e morte, chiaro e oscuro, mondo supero e mondo infero. Questa è la dicotomia che regola l’esistenza umana. Contro natura è pensare che si possa essere solo vivi nella luce del mondo supero: sì è nello stesso momento anche morti nell’oscuro mondo infero. Uguale dicotomia governa il mondo naturale, il corpo della natura è, come quello di ogni essere vivente e dunque anche l’uomo, al contempo dolce e violento, delicato e tiranno, accondiscendente e vessatore.
L’arte che si relaziona con la natura si trova sovente ad affrontarne la visione in una dimensione costretta nell’interpretazione, un’idea quasi sempre mediata dal pensiero. Fenomeni pressoché incomprensibili per l’uomo e indifferenti al suo agire difficilmente vengono colti nella loro reale manifestazione. La natura è arcaica e su questo concetto vale la pena soffermarsi. Qualunque sia l’addomesticamento messo in campo dall’essere umano la natura è e rimane una entità che produce e distrugge, un enorme organismo ciclico che le grandi tradizioni della filosofia hanno posto sotto il segno della morte e della rinascita.

© Lidia Bianchi, Per amore o per essere verticale, 2020. Courtesy dell’autrice

Null’altro quindi è in grado come la natura di destabilizzare e ammaliare al contempo. Con essa l’uomo ha una non-relazione. Il distacco – dalla madre – è avvenuto nel momento in cui l’essere umano ha capito quanto fosse utile e determinante per il suo vivere l’uso della parola e del pensiero. Da qui in avanti l’uomo non ha più fatto parte del naturale, inteso come esistenza compiuta e unitaria del mondo, ma ne ha assunto il comando, o ha creduto di farlo.

© Silvia Bigi, Are you nobody too?, 2022. Courtesy dell’autrice

A noi esseri umani contemporanei, sembrerebbe naturale pensare eppure è piuttosto difficile. È quasi come dire che ‘guardare è difficile’. E, in effetti, guardare è faticoso. Lo si può fare con attenzione e tuttavia non vedere nulla, oppure credere continuamente di vedere qualcosa, senza però riuscire a vedere nitidamente. Ci si può stancare a forza di guardare anche quando non si vede nulla. A noi qui interessa di più quanto sia difficile guardare anche se sappiamo che spesso dipende dalla difficoltà di pensare in quanto le due cose nelle abitudini “umane” sono strettamente connesse. Il pensiero è figurato, anche quando si tratta di un concetto apparentemente filosofico (pensato per pensare, pratica raffinata e alle volte un po’ fine a se stessa). Nel mondo contemporaneo così come in quello antico del resto, il pensiero sviluppa immagini più o meno complesse, soggettive o oggettive, a seconda di chi lo sostiene o lo argomenta. Possiamo così far trasmigrare il pensiero nella pratica artistica in quanto il pensare e il guardare sono questioni che è altrettanto difficile trattare in modo che l’ascoltatore, il lettore o l’osservatore possa essere non solo raggiunto dal tema affrontato, ma possa anche comprenderlo profondamente.

© Marianne Biørnmyr, Epitaph, 2020. Courtesy dell’autrice

Potremmo chiederci a che pro questo intento? La risposta è piuttosto semplice: perché è nostra precisa responsabilità – e per “nostra” intendo artisti, critici, curatori, galleristi, informatori dell’arte in generale – nei confronti del pubblico fare in modo che esso comprenda ciò che vogliamo comunicare. Tuttavia, a volte, certa arte appare abbastanza ermetica, dove qui per ermetismo intendiamo quell’oscura ragione che spinge chi lavora con la materia “arte” a sottrarre al fruitore la possibilità di sviluppare il proprio pensiero – e la propria immagine (proveniente dall’immaginazione) – affidando invece allo spettatore il pensiero artistico mutuato dall’opera.
Venendo ad altra dicotomia, cŏrpus et anĭmus, tema dell’esposizione collettiva in corso presso Red Lab Gallery Milano e Condominio, che vede impegnati otto artisti – Lidia Bianchi, Silvia Bigi, Marianne Bjørnmyr, Pierluigi Fresia, Arianna Pace, Niccolò Quaresima, Marco Rigamonti e Yorgos Yatromanolakis – in un compito piuttosto arduo, quello di identificare una modalità di relazione sulla quale al momento appare perlomeno un certo qual senso di confusione, vorrei innanzitutto porre l’accento sull’individuazione della relazione che non è, si badi bene, tra Uomo e Natura come erroneamente sempre si interpreta la posizione dell’essere umano nel mondo, bensì tra “corpo” (fisico) e “anima” (soffio vitale), dunque non una relazione tra due entità separate ma tra due entità unite, compresenti, in un certo qual senso la fusione tra ciò che è naturale e ciò che invece è soprannaturale.

© Arianna Pace, Landscape, 2021. Courtesy dell’autrice

Galileo osservava la natura – il complesso ambiente di cui l’essere umano fa parte – e ne approfondiva via via la conoscenza tramite esperimenti. Verbo latino experiri: «l’idea è originaria è ‘io provo’. Osservo con i miei occhi. Maturo così via via esperienza. Per questo devo costruirmi di volta in volta strumenti diversi. Osservando qualcosa di nuovo devo trovare nuove parole per esprimere la meraviglia, e per spiegare la novità.» Vediamo qui che qualcosa comincia ad emergere e questo qualcosa è l’esperienza data dal provare. In origine la Natura non è di per sé aggraziata, non concede, piuttosto toglie, non accetta di compiacere né di essere compiaciuta, la natura di per sé vuole dominare. Si apre quindi un confronto aperto che diviene scontro nel momento in cui l’Uomo “pensa” di poter dominare la natura a sua volta. Il significato del termine natura nella contemporaneità può essere ricondotto a più o meno sessanta nozioni, ma nella mitologia greca il dio che rappresenta la natura nella sua unità fisica e spirituale è Pan, un dio che al contempo segue il proprio istinto predatore ma anche la propria coscienza. Pan incarna entrambi questi caratteri che ci fanno ritornare al concetto di dicotomia, una dicotomia che trascende ogni religione, sia essa pagana e tribale sia ascetica e osservante del verbo di un dio supremo. Il dio Pan rincorre le ninfee per possederle sessualmente ma al contempo soffia attraverso una canna dolci melodie che incantano, evidenziando quello che oggi noi definiamo, con il pensiero, il male e il bene della natura, le due facce della medesima medaglia, come compresenti. In questo senso il corpo e l’anima della natura appaiono in un Unico, esattamente come nell’uomo che, in quanto sua particella, riflette il nucleo di cui fa parte.

© Niccolò Quaresima, Planet Agar Agar, 2020. Courtesy dell’autore

Corpo, dal latino cŏrpus “corpo, complesso, organismo”. La natura è, in quanto organismo vivente, il più grande corpo esistente con il quale l’uomo si trova a doversi relazionare (nonostante ne faccia parte). La natura si cura e si “ricostruisce”. Si replica, anche in presenza di mutilazioni feroci che possono esserle inflitte, accoglie ogni cosa “naturalmente”: l’armonia come la distruzione, la luminosità come la cupezza. Con i suoi tempi, che non sono quelli dell’uomo, riparte d’accapo ogni volta che la si abbatte. E la distruzione causata dall’uomo non è comparabile nemmeno lontanamente a quella che può mettere in atto la natura in quanto, quest’ultima, rispetto alla distruzione umana, avviene perché deve avvenire.

© Marco Rigamonti, Acqua altra , 2019. Courtesy dell’autore

La fisicità della natura, il suo restare immobile come il suo essere in tumulto, può associarsi meglio all’animo umano piuttosto che al suo corpo. L’anima è infatti l’ultimo baluardo di un rapporto diretto basato su un piano ormai nascosto e come soffocato dal deposito degli strati di civiltà umana (l’atto di civiltà che è un atto di prepotenza umana sulla natura / è un atto contro natura – Ungaretti).
L’anima, principio vitale e parte immateriale dell’uomo, a torto considerata in contrapposizione al corpo piuttosto che sua parte integrante, spesso non la si sa descrivere. Eppure è semplice: anima deriva come anĭmus, dal greco ἄνεμος che significa “soffio, vento”, dunque essa è il principio vitale dell’uomo. Dentro questa parola impalpabile – soffio – si trova la radice dell’esistenza che già in Aristotele veniva declinata in intellettiva nell’uomo, sensitiva negli animali, vegetativa nelle piante. Questa distinzione arriva con l’arte del “pensare filosofico” e pone l’accento sul concetto che l’essere umano si distingue ed emerge dal resto del regno naturale poiché possiede l’intelletto, la capacità di pensare e di veicolare attraverso questo le proprie azioni.

© Yorgos Yatromanolakis, The Splitting of the Chrysalis & the Slow Unfolding of the Wings, 2018. Courtesy dell’autore

La contemplazione della natura, dei luoghi, e lo stupore primordiale, incondizionato che ne deriva, nella mente umana, nel cervello, quest’incredibile organo messo a disposizione dell’uomo, ha così progressivamente ritratto il proprio manifestarsi lasciando sempre più spazio all’“interpretazione”, ai “concetti”. Eppure, non ci sarà mai fine al nostro peregrinare. Al dubbio. Alla volontà di “capire”, perché la luce e la tenebra combatteranno, sempre.
Come per il principio galileiano, che non è solamente scientifico ma anche emotivo (corpo/fisico e anima/soffio), gli artisti presenti nella mostra “Soprannaturale. Cŏrpus et anĭmus” si sono relazionati al tema ponendo in essere ciascuno la propria prova.

In thin section (2021), Arianna Pace cerca di “farsi” roccia provando a guardare il suo interno (l’interno della roccia ma anche quello umano, il proprio) invitando l’osservatore a guardarci e a guardarsi dentro. L’artista stampa su una superficie plastica che richiama i vetrini da laboratorio, sezioni sottili di rocce corrispondenti a una lamina di uno spessore tra 0,01 e 0,05 mm levigata e smerigliata che attraverso l’uso di un microscopio polarizzatore permette di riconoscere i minerali presenti all’interno e di determinarne la composizione. Allo stesso tempo l’opera lascia la possibilità di immaginare: «paesaggi visti dall’alto, segni incisi su roccia, forme organiche e non che si dispongono nello spazio formando nuove geografie» suggerisce l’autrice. Di un’altra osservazione tratta l’opera Landscape (2021). Anche qui l’artista prova a far nascere microorganismi, «esserini endemici della montagna», dando ad essi modo di riprodursi su una tavoletta di legno attraversata da incisioni. Un percorso labirintico che nutre dando vita. Il processo generato in natura da questo peregrinare sulla superficie del legno di cortecce abbandonate attrae la curiosità dell’artista che, quasi immedesimandosi, ricrea qui quei solchi perché possano essere ancora attraversati. L’opera è accompagnata da una immagine fotografica di grande formato che mostra la collocazione dell’oggetto nel territorio dove ha avuto origine l’installazione.

Con Are you nobody too? (2022) Silvia Bigi si aggiudica il prestigioso Premio Fabbri per la fotografia contemporanea 2022 e non è un caso. In questo terzo decennio del XXI secolo, all’indomani di una pandemia non ancora risolta e consci di un atteggiamento umano nei confronti dell’ambiente sempre più sensibile, Bigi focalizza la propria esperienza artistica su una di quelle almeno sessanta nozioni che identificano il termine “natura” provando a mettere in primo piano un aspetto sì sensibile ma affatto scontato: «La crisi ecologica è l’effetto inevitabile di una cultura patriarcale capitalista eurocentrica costruita sul dominio della Natura, e sul dominio della Donna come “natura”. O, per capovolgere l’equazione subliminale Uomo/Donna=Natura, è un effetto inevitabile di una cultura costruita sul dominio delle donne, e sul dominio della Natura ‘in quanto femminile’». Affida, Silvia Bigi, alla sociologa australiana Ariel Salleh il compito di rendere il concetto che sta alla base della sua opera.
È partendo dal ritrovamento di una vecchia fotografia di famiglia che ritrae una sua prozia che l’artista crea una sequenza insistente dove il volto della donna, allontanata dal contesto privato e da quello pubblico a causa di una presunta malattia mentale, prende “voce” rendendo udibili tutte quelle parole non dette che hanno sepolto Irma, questo il suo nome, in una profondità in-guardabile. Il video, realizzato attraverso app e programmi di intelligenza artificiale, mostra il discorso che Irma/Silvia affida al pubblico affinché possa emergere la sua verità. Il monologo che ne scaturisce, attraverso le parole di poetesse e scrittrici come lei vittime di disturbi psichici, rende l’immagine originariamente inanimata corpo vivo, ri-generato, uno «spazio di redenzione», suggerisce l’autrice, che offre allo spettatore la possibilità di provare a riconoscere una diversa trama narrativa. Oltre al video viene proposto un trittico fotografico che prelude al video stesso.

«Io sono orizzontale, da linea di mare». Così esordisce Lidia Bianchi nel presentare il suo lavoro Per amore o per essere verticale (2020), esposto come installazione e come immagini fotografiche. L’elemento visivo che determina la “verticalità” dell’autrice, mettendo a dura prova il suo immaginario ma anche il suo equilibrio, è quello che ritrae l’incisione PER AMORE sul Menhir che Tone, ex sindaco di Lozio – paese situato alle pendici dei monti che campeggiano sulla Valle Camonica – fece rimettere in piedi, perché convinto si trattasse dell’introvabile pietra arroventata delle streghe. Ancora la montagna con le sue pareti le cui altezze provocano vertigine e spavento e che solo attraverso un atto d’amore impone di restare “verticali”, un atto che implica il confronto con una materia viva, indomita ma che non ha mai fatto male a nessuno. Ed è ancora un femminile che brucia perché troppo vicino a pratiche ritenute contro natura quando invece dalla natura scaturiscono. Il processo di stampa analogico con il quale l’artista propone il “ritratto” del Menhir si nutre della stessa luce che rende visibile l’incisione sulla pietra, così la stessa evoluzione accomuna i due stati conducendo lo spettatore a una sorta di mitopoiesi che attiva quella spiritualità creatrice di miti che appartiene ai poeti. Per amore o per essere verticale prova a immaginare la posizione del corpo dell’uomo nel mondo senza un riferimento che funga da appiglio, dando spazio al Pan(ico) ma al contempo al respiro vitale.

The Splitting of the Chrysalis & the Slow Unfolding of the Wings (2018) di Yorgos Yatromanolakis si ispira ai riti antropologici di passaggio che segnano le transizioni da una fase all’altra della vita. Attraverso questo lavoro, l’artista greco tenta di catturare in modo poetico il ciclo di un processo interno di metamorfosi, quella scissione della crisalide e il conseguente lento dispiegarsi delle ali di cui parla il titolo del lavoro presentato in mostra sotto forma di immagini fotografiche. Tale pratica prende origine da una prova sostenuta da Yatromanolakis allorché, a causa di un imprevisto ritorno in patria, egli si ritrova isolato in una realtà distopica, che gli impone un confronto con il suo passato traumatico e i suoi ricordi. Gradualmente si distacca da tutto ciò che è intimo e familiare e attraverso la pratica della fotografia crea un nuovo mondo, un luogo misterioso e al limite. All’interno di questo luogo liminale, visto metaforicamente come un bozzolo di crisalide, tutto in realtà è in movimento. L’essere è in uno stato in divenire nel mezzo e tra ciò che è accaduto e ciò che sta per accadere. Questa esperienza si intreccia con processi biologici di trasformazione presenti in natura, che avvengono in parallelo e con i quali il fotografo convive e si identifica. La maggior parte delle fotografie sono scattate tra la notte e il giorno, quando la luce liminale genera visivamente una peculiare e rivelatrice condizione di trasformazione e illusione. Le immagini sono presentate dall’autore come appunti di un’esperienza che parte dalla decostruzione e dalla “scissione” per tendere al compimento e al “volo” e nel loro insieme segnano le tappe di un percorso verso una nuova realtà esistenziale.

Il lavoro Planet Agar Agar (2020), presentato dall’artista Niccolò Quaresima attraverso installazioni e immagini fotografiche, racconta la storia soprannaturale ma al tempo stesso molto vicina alla realtà naturale terrestre, di un corpo celeste scoperto durante un viaggio interstellare. Si tratta di un pianeta ricoperto da muffe e funghi – l’agar-agar, è un polisaccaride, una classe di composti chimici organici, usato come gelificante naturale e ricavato da alghe – forme di vita in continua evoluzione. La narrazione che l’autore prova a proporre alterna immaginazione e realtà, condizione microscopica e macroscopica, intrecciando elementi di biologia e fotografia. Uno degli obiettivi di Quaresima è decostruire quell’immagine che affida allo sguardo del pubblico una narrazione nota e riconoscibile, lasciando solo tracce, frammenti attraverso i quali il fruitore è invitato a costruire la “propria” narrazione. Questi segni sollevano chi osserva dalla necessità di comprendere cosa è reale e cosa non lo è, permettendogli di vagare libero sul terreno oscuro del pianeta Agar Agar. L’altro obiettivo è giocare semplicemente ancora con una narrazione che vada oltre la nitidezza delle immagini, raccontando fatti di un pianeta nascosto.  Il Pianeta Agar Agar diventa così la terra dove batteri e muffe vincono sulla vita animale, un luogo primordiale, dove il micro prevale sul macro, la vita biologica sulla tecnologia. «La muffa è affascinante, nonostante possa essere distruttiva e malsana, a volte anche mortale. Per me è una sfida intellettuale, quasi come giocare una magica partita a scacchi con un avversario che può diventare invisibile, trasformarsi in un animale e viceversa a suo piacimento, o continuare a fare le sue mosse dopo che è ovviamente morto.» (Ellen McCrady, Mold: The Whole Picture, “AbbeyNewsletter 23”, 4, 1999).

Ancora una decostruzione viene proposta con Epitaph (2020), lavoro dell’artista norvegese Marianne Biørnmyr, essa avviene nell’ambito di un’esplorazione che l’autrice opera sulla cultura del proprio territorio attraverso manufatti andati perduti. L’intento qui è di presentare la ricostruzione di oggetti in cui epoche, geografie, culture e materiali si scontrano, dissolvendosi in una fusione tra passato e presente. Molti dei manufatti originali che hanno ispirato il lavoro dell’artista sono scomparsi da tempo; distrutti, rubati o saccheggiati, attraverso la colonizzazione, la persecuzione etnica, il terrorismo religioso e ideologico e l’evoluzione antropologica. Per Biørnmyr, antropologia, cultura, politica si fondono nel suo lavoro modellando diversi livelli interpretativi. Nel gennaio del 1951 la Norvegia stipulò un accordo molto redditizio e top secret con gli Stati Uniti che garantiva l’esportazione di tutto il niobio norvegese trovato nella cava Dolimite di Ulefoss, un minerale sfruttato per lo sviluppo di reattori atomici durante la guerra fredda. Il lavoro Between a Rock and a Hard Place (2019) pone domande sul paradosso di come il valore di diversi metalli e minerali influisca allo stesso tempo sulla ricchezza e sul conflitto.

Le opere appartenenti al lavoro Hola (2017) mostrano quello che sembra un paesaggio in qualche modo imprecisato. Calchi in scala 1:100 rappresentano le montagne del fondale marino della Norvegia settentrionale, più specificamente dell’area della barriera corallina di Hola. Le immagini si concentrano su un’idea di paesaggio sconosciuto e incontaminato, che non conosciamo e si collegano alla questione della fotografia come traccia fisica di un oggetto. Stanno insieme e, a modo loro esaminando le specifiche affascinanti e fuorvianti della fotografia, stabiliscono un’imitazione credibile dell’originale.

Acqua altra (2019) è un lavoro in cui Marco Rigamonti, fotografo piacentino che racconta la sua esperienza di dialogo con un’acqua, quella del fiume Po, a lui molto familiare ma non per questo sempre riconoscibile. Presenza spesso quieta, discreta ma anche invadente, l’acqua del Po, il suo scorrere incessante accompagna chi vive sulle sue sponde, giorno dopo giorno, nell’inesorabile passare del tempo. Gli uomini nascono e muoiono mentre il fiume continua a scorrere sempre uguale e sempre diverso. Per anni l’autore non nota questa “diversità”, non prova affezione per quest’acqua, la vita scorre troppo velocemente conducendoci spesso in un altrove lontano dai “nostri luoghi” di elezione, quelli che fanno parte del nostro vissuto ma ai quali non badiamo. È un’osservazione in cui a un certo punto quasi si inciampa, quella del “banale quotidiano” che banale non è. Un’osservazione verrebbe da dire casuale che improvvisamente, giorno dopo giorno, diventa scientifica, quasi empirica. Il rumore dell’acqua, il suo profumo, il colore che varia con il variare delle stagioni o delle ore del giorno, gli alberi lungo la riva che, senza quasi che ci si accorga, rivelano il centro: una visione inaspettata che appare e magicamente ci riconduce al nostro paesaggio interiore. È un osservatorio personale quello di Rigamonti un luogo abitudinario dove muovendosi di poco, verso est e verso ovest su entrambe le rive, l’autore si è trovato suo malgrado a ricercare una dimensione individuale fino a quel momento sconosciuta, in quel paesaggio comune, quasi anaffettivo, che gli parlasse in una lingua per nulla nota eppure a lui molto vicina.

Le opere che compongono il lavoro Errori del nulla (2022) di Pierlugi Fresia «e il pensiero che soggiace ad esse è quel costante ragionare su quanto realmente la nostra esistenza influenzi il tutto; quanto poco necessari siamo nonostante l’arroganza che ci scorre nelle vene, l’arroganza di chi appena nato già è costretto a dire addio.» Il pensiero che tanto abbiamo contestato all’origine di questo testo critico, chiosa nostro malgrado il percorso di questi autori riparando a un forse eccessivo “disprezzo” nei confronti di una pratica imprescindibile per l’essere umano. E in effetti il valore del ragionamento, quando non è fine a se stesso, assume le sembianze di radice attraverso cui diventa possibile radicarsi nel terreno. Quanto è reale la nostra esistenza, si chiede qui l’autore, quanto effettivamente influisce sullo scorrere del tempo e sul modificarsi dei processi naturali? O non siamo piuttosto semplici osservatori che dovrebbero assumere su di sé l’experiri suggerito da Galileo aspettando di trovare le parole nuove per trasferire la nostra storia a quel neonato di cui Pierluigi Fresia parla nella sua nota dolente? Chi nasce non dovrebbe essere già esposto alla morte, che non è soltanto fisica. Non dovrebbe essere già costretto a “dire addio”. Addio a che cosa? Al martellare del picchio che fa eco mentre la nostra voce no; alla sicurezza che saremmo andati in paradiso; all’ammissione di una colpa nella speranza di un perdono; all’andata e ritorno in quello spazio temporale preciso ma ugualmente infinito (il secondo, il minuto, l’ora, il giorno, la settimana, il mese, l’anno, il lustro, il decennio, il secolo, il millennio); alla certezza che i capolavori, quelli che la natura ci infligge, ci uccidono (ma noi non lo sappiamo); a tutti quegli uccelli i cui nomi non possiamo elencare perché sarebbe come elencare i pezzi infiniti del nostro corpo, essenziali, tutti, a vivere. Le parole sono parte integrante del lavoro di Fresia, l’apparente incongruenza con l’immagine non deve ingannare lo spettatore chiamato invece a decifrarle nella propria personale lingua non necessariamente o non solo umana.
Errori del nulla è un lavoro inedito proposto in anteprima per questa mostra.

LA MOSTRA

Soprannaturale | cŏrpus et anĭmus, a cura di Giovanna Gammarota
Red Lab Gallery 24 gennaio – 28 febbraio 2023, via Solari 46 – Milano, info@redlabgallery.com
Condominio 25 gennaio – 28 febbraio 2023, via Melchiorre Gioia 41 – Milano, info@condominioarte.xyz.com