«C’est Fontana qui me demandait de faire une incision dans la toile.
Il disait qu’il s’agissait d’une œuvre cosmique possédant une autre réalité (œuvre spatiale).
Evidemment lorsque j’avais 18 ans, je ne comprenais pas encore ce que voulait dire le Maître.
Il affirmait aussi qu’il ne fallait pas se fermer à la couleur et à la toile,
et ne pas hésiter à utiliser tout ce qu’on avait sous la main dès qu’on avait une idée».
«Avevo diciott’anni, non capivo ancora cosa intendesse il Maestro», ricorda Enzo Pituello. Lo ricorda quando, essendo lui a sua volta giunto ad essere un riconosciuto Maestro, si inaugura a Parigi la sua mostra Ultimi Robots.
Quel maestro, che era Lucio Fontana, diceva al giovane Enzo: «Non bisogna chiudersi nell’esperienza più consueta, l’esperienza del colore e alla tela». Essere artista è di più, è sempre qualcos’altro.
C’è sempre, nell’umano agire, un’altra possibilità. Un altro modo di guardare, un’altra via da percorrere. Un altro modo di fare. Un altro terreno da esplorare.
È artista chi con più coraggio, abbandono, disponibilità, si avventura oltre ciò che è noto, scontato, redditizio, già sperimentato.
Il giovane Enzo allora non capiva. Forse le parole dei maestri non possono essere mai capite; perché il vero maestro non ti dice come devi essere. Parla di sé, di ciò che ritiene dotato di valore, non ti dice come devi essere. Ti dice: cerca te stesso.
Enzo non capiva, ma era determinato a incamminarsi lungo il cammino della sua via d’artista. Se non si ripercorrono strada già battute, non si sa dove si arriverà. Le svolte della vita, poi, di solito sono di una ironia perversa. Ma a tentoni, attraverso biforcazioni, si cammina. Non conta la meta, conta il viaggio, contano gli attraversamenti.

I primissimi anni Sessanta del secolo scorso, quando il giovane Enzo ascoltava la voce del Maestro, erano anni in cui le grandi macchine digitali esistevano già. Le chiamavano con nomi che oggi ci appaiono desueti: Cervelli Elettronici, Calcolatori. Erano macchine enormi, lontane dai cittadini, dalle nostre case, curate da specialisti in camice bianco. Eppure già in quegli anni c’era chi riteneva che in un prossimo futuro sarebbero esistite macchine superiori al cervello umano nelle operazioni affidate alla memoria e al giudizio razionale, macchine in grado di ricordarsi di tutto e di giudicare le situazioni più complesse senza sbagliarsi.
Sono passati sessant’anni, l’arco della vita d’artista di Enzo Pituello si è compiuto.
E sembra essersi compiuto anche il tempo previsto da coloro che sessant’anni fa, negli stessi anni in cui il Maestro Fontana ammoniva il giovane Pituello, immaginavano macchine autonome, intelligenze artificiali, robot capaci di sostituire noi esseri umani.
Oggi queste macchine sembrano già essere tra noi.
Viviamo in tempi in cui siamo invitati a credere nell’autonomia delle macchine digitali, ad affidarci ad esse, ad adeguarci alle loro notifiche, e ora anche a rivolgerci a loro, alle macchine, chiedendo lumi e risposte alle nostre domande di senso.
Un obbligo sociale ci impone di avere macchine sempre con noi, vicino a noi, di fronte a noi, in mano, in tasca, nel lavoro e nel tempo libro. Macchine che pretendono di dirci cosa fare, come agire, chi essere.
Macchine destinate ad apparire al cittadino, ridotto a mero utente, come scatole nere di cui è possibile conoscere solo il risultato, la precisa funzione, l’effetto meraviglioso, autorevole, indiscutibile. Macchine la cui fruizione è autoritariamente definita, a macchine il cui progetto pretende di imporci un’esperienza disegnata a priori.
Macchine che ci accompagnano in ogni istante della nostra vita. E in qualche modo ci fronteggiano: in un percorso comune, o un combattimento, in una gara, stanno tra di noi. Ci appaiono chiuse in sé, performanti, efficaci. Amichevoli, ma forse anche ingannevoli, o chissà ostili. Legate a un loro progetto a noi ignoto.
Tutto questo è evocato nelle opere di Pituello. Evocato per essere riproposto come scherzoso, familiare oggetto denudato, spogliato dal suo segreto e dalla sua retorica. Svelamento giocoso, multicolore, provvisorio, di ciò che era coperto e negato alla vista e alla comprensione del cittadino.

Se i progetti della computer science sono portati avanti in segrete stanze, in laboratori protetti dal segreto industriale; se i progetti sono descritti tramite un lessico tecnico incomprensibile per il cittadino… il progetto di Pituello è un anti-progetto. Del quale, senza bisogno di tante spiegazioni, il senso – o il voluto non senso – ci risulta chiarissimo.
Le opere, infatti, appaiono non finite, non rifinite, alla portata del gesto del cittadino-non-solo-spettatore che non solo può aggirarsi per la sala, ma potrebbe – lo suggeriscono le opere stesse –, aggiungere qualcosa all’opera. O togliere, chissà.
Il lavoro di Enzo Pituello, artista, ci risveglia. Se pur queste macchine, nella stessa nostra vita quotidiana, sembrano accingersi a occupare il centro della scena; se pur forse la occupano già, ci appaiono trasfigurate negli artefatti di Pituello.
Pituello decostruisce la macchina. La spoglia del fascino alieno. Le sottrae mistero.
Gli artefatti di Pituello sono ilari, giocosi. Misteriosi ma mai inquietanti. Non solo si offrono allo sguardo; viene voglia di passarci sopra la mano.
Opere incomplete a cui ognuno potrebbe aggiungere qualcosa. Se, infatti, esiste, come esiste, una distanza tra il tecnico è il cittadino, Pituello ci dice: non esiste distanza tra l’artista e il cittadino.
E ci invita a dire a noi stessi: scopri in te l’artista.
E il Maestro aggiungeva: «Non appena hai una idea, non esitare a usare tutto ciò che hai a portata di mano».

Sarà forse così che tanti anni dopo, tornato nella terra natale dopo tanto girovagare, capitò a Enzo Pituello di avere a portata di mano qualche aggeggio elettronico, e di vederlo, o immaginarlo, aperto, sbuzzato. Sarà capitato di mettere una mano dentro e di tirar fuori qualcosa.
Si possono vedere, ed estrarre dalla macchina morta i circuiti stampati. Ma cosa sa vedere l’artista. Queste piastrine verdi coperte da segni distesi in strani, labirintici percorsi, in apparenza uguali, ma sottilmente diversi l’uno dall’altro… sono scarti, robaccia raccattati in una discarica, materiali destinati allo smaltimento. O forse anche, via via che si affinano le tecniche del riciclo, del riuso, dell’economia circolare, sono nuove materie prime.
Sono anche, in qualche modo, residuati bellici, tracce di una guerra che si sta combattendo a nostra insaputa, alle nostre spalle.
Ma sono anche, in fondo, litografie. Litografia: scrittura su pietra. La piastrina che accoglie i circuiti stampati è, in effetti, una reinvenzione per via tecnica della pietra che fa da supporto.
PCB, Printed Circuit Board, circuiti stampati: hanno molti strati, uno strato essenziale è la maschera di saldatura, sottile velo di polimeri, evita cortocircuiti e corrosione. La maschera di saldatura può essere lattiginosa, se bianca porta una idea di pulizia, se è nera nasconde, si hanno maschere rosse e blu e viola e cristalline, opache o lucide.
Ma il verde resta l’opzione più comune, consente di vedere tutto chiaramente. Ecco il verde, quasi colore dominante in queste opere di Pituello. Un colore trovato. Fatto proprio e riusato.

Con tutta la libertà che l’artista sa prendersi: accettare un colore preesistente, o quanto meno sottostante, sul quale procedere per strati successivi, coprendolo, contaminandolo.
Il Maestro infatti diceva: non esitare, usa qualsiasi cosa hai a portata di mano. Ed ecco riusato il supporto, e anche il colore. Non limitarti alla tela, ai colori consueti, diceva il Maestro. Un qualsiasi supporto può sostituire la tela, il cartone, il legno. L’opera plastica può essere ottenuta dalla saldatura di pezzi metallici o dall’aggregazione di materiali tridimensionali causali, eterocliti.
Lithos, pietra, anche come materia base per bassorilievi, altorilievi, stiacciati. Procedimento ad aggiungere: Pituello incolla, sovrappone, mischia.
Fino alla piena volumetria, fino a comporre, montare, edificare sculture: Robot.
Robot come totem. Non macchine progettate, portatrici di un proprio progetto, intenzione o scopo. Figure simboliche per nulla ostili, invece, che proteggono e accompagnano. Stanno qui, vicino a noi, in attesa che noi diamo loro un senso.
Figure esplicitamente materiali. Tangibili. Anche qui troviamo nelle opere di Pituello stimoli per una lettura critica, confortante e piacevole, della cultura digitale.
La cultura digitale ci chiede infatti di accettare un affidamento fiducioso: viviamo ormai, ci viene detto, in una infosfera, in un’onlife, in un metaverso. Ci viene proposta una realtà simulata, virtuale, aumentata contenuta nella macchina, offerta dalla macchina, accessibile tramite la macchina.
Certo potrà esserci un’arte totalmente immersa in questa dimensione. Ma intanto godiamoci le opere di Pituello, accessibili a noi senza il bisogno di nessuna mediazione tecnica. Non c’è bisogno di visori, cuffie, guanti, interfacce digitali per ‘vedere’ l’opera.
Questi robot, questi pezzi di macchina messi in mostra, ci dicono che c’è sempre qualcosa di molto materiale, dietro la pretesa dematerializzazione che la cultura digitale si sforza di proporci.
La memoria, la capacità di calcolo, la forse a suo modo esistente ‘intelligenza’ della macchina stanno scritte su supporti fisici: i circuiti stampati esposti come opera d’arte stanno lì per ricordarcelo.
L’immaterialità è un inganno: nascondere l’ingombro, il peso, il costo.

L’opera di Pituello, così, è anche un monito. Un invito a guardare dietro e dentro. I circuiti stampati, i circuiti integrati, oggetti fisici, sono chiusi nelle interiora di macchine, oggetti fisici a loro volta, macchine disposte in serie, in file serrate, chiuse in server farm, data center, enormi edifici energivori, inquinanti, sprigionanti calore, occupanti vaste porzioni di territorio. Ma cancellate dalle mappe tanto quanto, o più dei siti militari.
Materie prime non rinnovabili sono estratte dalla terra. Cose non certo immateriali sono nascoste allo sguardo dei cittadini per motivi tecnici e politici.
L’opera di Pituello, con leggerezza e con semplicità, ci fa pensare.
«Fontana che mi chiedeva di incidere la tela. Diceva che si trattava di un’opera cosmica che possedeva un’altra realtà: opera spaziale».
Incisione nella tela come rottura del continuum spazio-temporale. Si intravede nel vuoto il cosmo: in primo senso ‘ordine’, in secondo senso ‘universo’. L’infinita serie dei mondi possibili.

Nel taglio, nel vuoto aperto nella tela – greco ábyssos: ‘senza fondo’ – si intravede l’altra realtà, il mondo che l’artista creerà, la sua opera futura. L’opera che Enzo Pituello, l’allievo divenuto a sua volta maestro, ha saputo creare, e spalancare ai nostri occhi.
L’opera non è mai un edificio stabile, non è il frutto dell’agire del tutto consapevole in vista di uno scopo già definito. È semmai il tentativo di raccogliere, organizzare, portare alla luce il senso implicito in materiali conosciuti; materiali con i quali, per lungo tempo, senza coglierne pienamente il senso, si è lavorato.
E quindi ora, in tempi in cui siamo spinti ad accettare un’altra realtà digitale – che in qualche modo ci umilia, perché contiene un invito a fuggire lontano da noi stessi, da ciò che sappiamo fare, da ciò che possiamo vedere con i nostri occhi e gustare con i nostri sensi – è salutare riconoscerci in quest’altra realtà – nuova, ma vicina, calda, ironica e affettuosa – che Pituello, riusando circuiti integrati, porta alla luce.
Il percepire come nuova, ma vicina a noi, accessibile, la realtà trasformata dalla visione dell’artista, è un invito a essere artisti. A trasfigurare creativamente – con o senza l’ausilio di macchine – ciò che vediamo e sentiamo, ma sempre senza sottostare a codici già definiti, a regole imposte da una qualche autorità.
Non si può veramente ‘insegnare’ l’arte. Si può farla amare. E si può riconoscere l’artista nell’altro.
Maestri e allievi si incontrano e si trovano per strada. Si riconoscono nel provare a esercitare insieme l’arte.
E così è veramente accaduto un giorno, dipingendo insieme per strada, anzi: per terra, a Udine. Pituello, che si riconosceva allievo di Lucio Fontana, ha incontrato un artista, Andrea Martini. Hanno condiviso pensieri, hanno parlato, hanno lavorato insieme.
Senza questo incontro questa mostra non avrebbe potuto esistere.
In questo senso l’arte è un’eredità che passa da maestro a allievo. Ma bisogna ben intendere. L’eredità non è un lascito, è piuttosto l’apertura di un vuoto, di uno spazio da occupare. Un taglio nella tela che permette di intravedere un’altra realtà. Un circuito stampato, un circuito integrato, sul quale potrebbe essere codificata, scritta, qualsiasi narrazione. Quale narrazione, sta all’artista che è in noi immaginarlo.
Così, possiamo giungere a una immagine riassuntiva. Quei poveri oggetti dalla dominante verde, i circuiti stampati salvati da Pituello, salvati dall’oblio e dalla discarica, preludono, da un punto di vista tecnico, ai più compatti, compressi, densi circuiti integrati.
Questa mostra è un circuito integrato e ci parla di circuiti integrati.
Il circuito ci fa pensare oggi a sottili, quasi invisibili filamenti e contatti, base materiale dell’elettronica. Ma dietro l’immagine del circuito sta un’altra immagine, che ci parla dell’inattingibile, ma sempre tentata perfezione a cui ambisce l’artista: il cerchio.
E dietro l’integrato, l’integrazione sta, sempre risalendo a ritroso con l’immaginazione, il richiamo alla purezza del cerchio. Il cerchio è integro, intero, intatto. Il tocco dell’artista sui materiali restituisce loro la purezza formale, riconduce verso uno stato originario della natura.
E tutto questo avviene in un luogo che è, per volontà dei suoi fondatori, uno Spazio Vitale.
Un luogo di ripensamento della cultura digitale, un luogo di incontri, dove l’arte si integra, in un unico cerchio, con la parola condivisa, la conversazione, la discussione, la comune costruzione di conoscenza.
La mostra antologica delle ultime opere di Enzo Pituello, a cura di Andrea Martini e Francesco Varanini, sarà visitabile presso Spazio Vitale, a Verona, dal 4 ottobre al 4 novembre 2025.