In questi ultimi anni stiamo assistendo a una rigogliosa fioritura della cosiddetta Intelligenza Artificiale, ma questa branca dell’informatica, che ci appare come una novità assoluta, non è un fenomeno di oggi. Vanta una storia abbastanza lunga, a partire dagli anni Cinquanta, con i lavori di Alan Turing, e affonda le proprie radici in un passato ancora più antico, animato dal sogno di ‘meccanizzare’ il pensiero umano.
La grande rivoluzione ‘pop’ cui stiamo assistendo potrebbe far pensare a una carriera folgorante di successi e fasti incontrastati, ma, come in ogni vicenda umana, anche l’Intelligenza Artificiale ha avuto i suoi momenti difficili.
Nella trama di questa storia, troviamo fasi di bruciante disillusione, noti come “Inverni dell’IA”. Questi periodi, caratterizzati da una contrazione dei finanziamenti e da un generale disincanto verso le promesse dell’IA, hanno segnato l’evoluzione di questa disciplina. Il primo di questi inverni, manifestatosi tra il 1974 e il 1980, nacque dall’amara consapevolezza che le aspettative ottimistiche degli anni precedenti si erano scontrate con ostacoli ben più complessi del previsto: l’esplosione combinatoria dei problemi, la difficoltà intrinseca nella comprensione del linguaggio naturale, la resistenza del senso comune alla formalizzazione algoritmica.
È proprio nel periodo successivo a un “primo inverno”, durante la rinascita trainata dai sistemi esperti degli anni Ottanta – quando il paradigma dominante sosteneva che “la conoscenza è potere” – che si colloca la riflessione di Giovanni Piana1, la cui indagine si è sviluppata lungo territori concettuali diversi, ma caratterizzata da un’attenzione posta alla “filosofia dell’esperienza”: dalla teoria della conoscenza alla filosofia della musica, dall’analisi della percezione allo studio dell’immaginazione.
Con il suo intervento del 1987 per Radiotre, nell’ambito di una tavola rotonda organizzata da Corrado Mangione, considerato «uno dei padri della rinascita degli studi di logica in Italia nella seconda metà del secolo scorso»2, Piana ci offre una meditazione lucida e sorprendentemente attuale sull’espressione stessa “intelligenza artificiale”, invitandoci a considerare le implicazioni filosofiche e i presupposti concettuali che si celano dietro questo termine, non lasciandosi ammaliare dalla melodia flautata delle promesse tecnologiche.
Mentre i ricercatori dell’epoca si confrontavano con quello che definivano il “collo di bottiglia dell’acquisizione della conoscenza” – la straordinaria difficoltà di trasformare il sapere umano in regole formali utilizzabili dai sistemi esperti – Piana ci invita a compiere un’altra indagine: che cosa intendiamo realmente quando parliamo di “intelligenza” e in che senso possiamo considerarla “artificiale”?

L’intervento si apre con questa considerazione:
«Forse un modo molto semplice per impostare una discussione che tenda a cogliere le implicazioni di ordine filosofico della tematica dell’intelligenza artificiale è quello di soffermarsi su due modi piuttosto diversi di impiegare questa espressione.
Si può parlare di intelligenza artificiale usando questa espressione tra virgolette o sottintendendole in ogni caso quando se ne parla oppure senza virgolette o addirittura con una virgoletta sola, come se cominciassimo con l’aprire le virgolette e ci dimenticassimo poi di chiuderle. È evidente che usare le virgolette, prima aperte e poi accuratamente chiuse, significa impiegare questo termine con un alto grado di convenzionalità, come una sorta di designazione convenzionale per indicare una determinata fase nello sviluppo dei linguaggi di programmazione ed un ambito problematico ben definito»3.
Piana ci propone di osservare attentamente l’espressione “intelligenza artificiale”. La prima tentazione sarebbe quella di prepararsi a un approccio linguistico. Se seguissimo questa direzione, se attribuissimo al ragionamento una valenza puramente interpretativa, rischieremmo di deragliare, equivocando l’intenzione dell’autore. Sarebbe riduttivo intendere questa riflessione iniziale come un mero esercizio semantico o una digressione sulla terminologia. Ciò che Piana sta facendo è molto diverso: attraverso l’analisi del linguaggio, egli ci invita a penetrare negli strati più sostanziali della questione, a svelare le implicazioni filosofiche che si celano nelle pieghe dell’espressione stessa.
La distinzione tra l’uso “virgolettato” e “non virgolettato” dell’espressione “intelligenza artificiale” rivela una tensione fondamentale nel nostro modo di concepire questa tecnologia. Quando impieghiamo l’espressione tra virgolette, ci muoviamo in un territorio di convenzione, adottiamo un’etichetta tecnica che designa semplicemente una determinata fase nello sviluppo dei linguaggi di programmazione e un ambito problematico ben definito. In questa accezione virgolettata, non vi è alcun riferimento sostanziale all’intelligenza umana, né tantomeno un confronto implicito tra le capacità cognitive dell’uomo e i procedimenti computazionali delle macchine.
Quando invece l’espressione viene impiegata senza virgolette, o con quella che Piana chiama metaforicamente “una virgoletta sola”, come se avessimo iniziato a segnalare la convenzionalità del termine, ma ci fossimo poi dimenticati di chiudere le virgolette, allora lasciamo vivere e agire il riferimento all’intelligenza umana e alla sua possibile ricostruzione artificiale. In questo uso non virgolettato si annida la suggestione che la tecnologia stia per impossessarsi di qualche scintilla dell’attività della ragione.
La tesi avanzata dal filosofo è tanto semplice quanto radicale. Potremmo rinunciare completamente al riferimento all’intelligenza e all’artificio, senza perdere nulla della realtà del tema. I problemi concreti che i ricercatori, i programmatori e gli studiosi di elettronica affrontano hanno una loro specificità che non necessita di essere ancorata al concetto di intelligenza umana. Anzi, una discussione filosoficamente rigorosa dovrebbe prendere le mosse proprio dal riconoscimento dell’inessenzialità di questa designazione.
In questa prospettiva, il nome stesso “intelligenza artificiale” appare in qualche modo fuorviante, carico di suggestioni che rischiano di distogliere l’attenzione dalle questioni filosofiche autentiche che emergono in questo campo.
Piana ci invita a uno sguardo che sappia attraversare il velo delle parole per cogliere la sostanza dei problemi, indipendentemente dall’etichetta sotto cui vengono riuniti.
È un invito alla sobrietà concettuale, a non lasciarsi sedurre dalle risonanze antropomorfiche che il termine evoca, per concentrarsi invece sulle problematiche concrete e sulle loro implicazioni effettive. È un invito che, nella sua apparente semplicità, rivela la fecondità dell’approccio fenomenologico di Piana.
È interessante notare che nell’edizione dei Frammenti epistemologici, del 2015, introduca nel testo una citazione da Odifreddi:
«Voglio riprendere a questo proposito un’informazione che traggo dal gustoso saggio di Odifreddi, Il teorema di Gödel e l’Intelligenza artificiale.
“Nel 1936 il matematico inglese Alan Turing sviluppò le basi teoriche dell’informatica, introducendo in particolare un modello astratto di macchina calcolatrice programmabile, oggi chiamata appunto macchina di Turing. Egli prese spunto da un’analisi del processo mentale di calcolo e, benché il suo lavoro fosse puramente matematico, Turing usò a più riprese una terminologia antropomorfa, parlando in particolare di ‘stati mentali’ per riferirsi a configurazioni interne della macchina. Pochi anni più tardi egli incominciò ad accarezzare il sogno di costruire fisicamente una tale macchina, e continuò ad usare l’analogia originaria, parlando del suo progetto come della costruzione di un ‘cervello’. Tali espressioni non erano altro che analogie stimolanti ma superficiali, e così erano viste da coloro che conoscevano Turing. Ad esempio Max Newmann, che fu relatore della sua tesi di laurea ed ebbe un ruolo di rilievo nella costruzione dei primi calcolatori inglesi, nel necrologio di Turing dice che egli ‘aveva un talento per analogie comiche ma brillanti, che dispiegò nelle discussioni su cervelli e macchine’. In seguito l’ironia di Turing andò perduta e, quando i computers divennero disponibili, l’analogia fra essi ed il cervello incominciò ad essere presa seriamente» (Odifreddi, 1992)”»4.


In questa integrazione, che assumiamo per se stessa, senza addentrarci in una disamina del pensiero di Turing a proposito dell’IA – che ci porterebbe fuori tema – troviamo una chiave di lettura del pensiero di Piana. Ciò che emerge è una trasformazione semantica carica di implicazioni: le analogie hanno subìto un processo di progressiva “letteralizzazione”.
Questa metamorfosi rischiara quel passaggio dall’uso virgolettato a quello non virgolettato dell’intelligenza artificiale che Piana analizza. È come se assistessimo a una graduale erosione della consapevolezza metaforica. Ciò che può essere un gioco analogico, uno strumento euristico consapevolmente distante dal suo referente, si è progressivamente solidificato in un’equivalenza ontologica tra processi computazionali e processi mentali.
Nel preservare quello spazio “di respiro” concettuale, che le virgolette garantiscono, risiede la possibilità stessa di una relazione matura con la tecnologia, ritrovando quella distanza riflessiva che permette di vedere l’intelligenza artificiale come uno specifico territorio di problemi tecnici e filosofici da affrontare nella loro concretezza, al di là delle suggestioni antropomorfiche che il suo nome evoca.
«Veniamo all’impiego dell’espressione intelligenza artificiale senza virgolette o addirittura con una virgoletta sola. L’espressione impiegata senza virgolette lascia vivere ed agire proprio il riferimento all’intelligenza umana ed alla sua ricostruzione o imitazione artificiale, lascia vivere il suggerimento o la suggestione di una tecnologia che sta ormai per impadronirsi di alcune scintille dell’attività della ragione. Mi permetto di ascrivere (non so se a torto o a ragione) l’uso dell’espressione intelligenza artificiale con una virgoletta sola prevalentemente proprio agli addetti ai lavori, che in realtà vorrebbero evitare la virgolettatura, ma che sanno molto meglio di quanto sappia io che la realtà del problema non sta nello svampimento filosofico di quella espressione, ma nella concretezza delle problematiche teoriche e pratiche che vanno affrontando di volta in volta, e che quindi sono subito pronti a chiudere in un momento qualunque le virgolette che hanno lasciato ambiguamente aperte»5.

Quando parliamo di “intelligenza artificiale” tra virgolette, ci muoviamo dunque nel territorio della convenzione e adottiamo un’etichetta che designa un ambito problematico specifico, senza necessariamente implicare un riferimento all’intelligenza umana. Quando, invece, lasciamo cadere le virgolette, permettiamo che si insinui nel discorso una suggestione ben più potente, ossia quella di una tecnologia che sta per impossessarsi di scintille dell’attività razionale umana.
Questa oscillazione tra l’uso virgolettato e non virgolettato rivela una tensione nascosta nel nostro modo di concepire la tecnologia. Da un lato, il rigore della designazione convenzionale, dall’altro, la seduzione di un’analogia che rischia di trasformarsi in identità. Piana ci suggerisce che potremmo completamente abbandonare il riferimento all’intelligenza e all’artificio senza perdere nulla della sostanza del problema, anzi, guadagnando in chiarezza concettuale. Ma perché, allora, questa denominazione persiste e prolifera?
La risposta ci conduce verso territori più complessi. Dietro l’uso non virgolettato, Piana scorge l’emergere di concezioni filosofiche che, paradossalmente, appaiono regressive proprio nel cuore di uno dei settori più avanzati dello sviluppo scientifico-tecnologico contemporaneo. Si profila il rischio di un materialismo riduzionistico che, partendo dalla formalizzazione dei processi mentali, approda alla loro “riduzione” – appunto – a meccanismi puramente fisico-materiali, riproponendo l’immagine dell’homme machine di lamettriana memoria6.
La riflessione si arricchisce quando Piana identifica una seconda forma di regressione: le “fantasie di onnipotenza” che sembrano aleggiare in molti discorsi sull’intelligenza artificiale. Queste fantasie, che Piana caratterizza come “infantili”, tradiscono un rapporto non ancora maturo con la tecnologia, oscillante tra timore reverenziale e aspirazione al controllo assoluto. L’espressione stessa “intelligenza artificiale”, suggerisce Piana, non sarebbe mai stata coniata senza che sullo sfondo vi fosse una simile fantasia di potere.
Il terzo aspetto regressivo che Piana individua è quello che desta più meraviglia, poiché appare estremamente attuale oggi e sicuramente profetico nel 1987, ossia l’emergere di un linguaggio fortemente antropomorfico che non si limita alla divulgazione, ma permea anche il discorso tecnico e scientifico. Questo antropomorfismo linguistico non rappresenta una risposta adeguata a un effettivo cambiamento nelle macchine, quanto “una paradossale riviviscenza di animismo preistorico” che appare, in modo inaspettato, nel punto più avanzato della tecnologia novecentesca.
La questione si fa più complessa quando Piana confronta l’antropomorfismo nell’ambito dell’intelligenza artificiale con quello presente in altri campi tecnologici.
«Il problema che sto toccando dovrebbe certo essere considerato più a fondo: la tendenza ad una modalità di discorso antropomorfico è ovunque presente nell’ambito della tecnologia ed ha molte giustificazioni dalla propria parte. Questa tendenza non riguarda solo l’elettronica o il calcolatore. Ad esempio, parliamo della sensibilità di una pellicola fotografica. Questa parola ha una ovvia origine analogica. Ma vorrei quasi dire che la gente è stata fin dall’inizio educata ad escludere o a mettere da parte questa valenza antropomorfica e a orientarsi invece sui processi fisici corrispondenti: cosicché a nessuno verrebbe in mente di parlare di sensibilità artificiale della pellicola o della macchina fotografica come una macchina che ha un occhio artificiale, o che vede artificialmente. L’aspetto singolare è che vi è invece, nel nostro caso, una tendenza ad educare la gente nella direzione opposta: benché si sappia benissimo che, nonostante la complessità maggiore, gli organi sensori di un robot, la sua sensibilità non differisce nell’essenziale da quella di una pellicola fotografica»7.
L’esempio permette a Piana di illuminare un paradosso. Mentre in ambito fotografico le persone sono state educate a riconoscere la natura metaforica dell’espressione e a concentrarsi sui processi fisici sottostanti, nell’ambito dell’intelligenza artificiale e della robotica si osserva la tendenza opposta, quasi un’educazione all’accettazione acritica della metafora antropomorfica.La posizione di Piana emerge con chiarezza. Egli propende per un uso strettamente virgolettato dell’espressione “intelligenza artificiale”, perché in quelle virgolette sta la possibilità di un rapporto più maturo con la tecnologia e non per un mero feticismo terminologico. È un rapporto che non ha più bisogno né di fantasie di onnipotenza né di dichiarazioni di impotenza, ma che cerca un nuovo livello di consapevolezza, un punto di vista più corretto per comprendere, giudicare e valutare.
La posizione di Piana emerge con chiarezza. Egli propende per un uso strettamente virgolettato dell’espressione “intelligenza artificiale”, perché in quelle virgolette sta la possibilità di un rapporto più maturo con la tecnologia e non per un mero feticismo terminologico. È un rapporto che non ha più bisogno né di fantasie di onnipotenza né di dichiarazioni di impotenza, ma che cerca un nuovo livello di consapevolezza, un punto di vista più corretto per comprendere, giudicare e valutare.

La riflessione di Piana si conclude con un’immagine efficace e allo stesso tempo provocatoria:
«Si tratta dunque di attenersi alla dimensione reale del problema. Ciò che io mi chiedo è, in altri termini, se non dobbiamo prendere atto, appunto realisticamente, di un momento nuovo nel rapporto tra l’uomo del Novecento e la tecnologia del Novecento, tra noi e la nostra tecnologia. Per caratterizzare questo momento nuovo parlerei forse di una sorta di pacificazione, o, ancor meglio, di superamento del disagio di fronte agli eccezionali sviluppi tecnologici che il secolo XX ha conosciuto e che fanno parte della sua storia più interna e profonda. Questo disagio ha dato luogo a forme equivoche di rifiuto, a posizioni catastrofistiche, ad atteggiamenti depressi e deprimenti di fronte alla tecnica. L’uomo è diventato antiquato – si è detto efficacemente, cioè con un’efficace dichiarazione di impotenza. Una eco di questo disagio si avverte in realtà anche in molti discorsi orientati in direzioni opposte, nei discorsi euforici piuttosto che in quelli depressi»8.
Questa metafora temporale ci restituisce l’idea di una maturità acquisita nel rapporto con la tecnologia, una sorta di “pacificazione” che supera sia l’entusiasmo ingenuo sia il rifiuto apocalittico. Una maturità che ci permette di affrontare la dimensione reale dei problemi posti dall’intelligenza artificiale, al di là delle suggestioni utopiche o distopiche che il suo nome inevitabilmente evoca.
Eppure, osservando il panorama contemporaneo, mi domando se questa pacificazione si sia davvero realizzata, se questa maturità sia stata acquisita una volta per tutte. Nella nuova aurora dell’intelligenza artificiale che stiamo vivendo, ritrovo infatti quegli atteggiamenti tipici “dell’essere umano fanciullo” che Piana identificava – non superati, ma perfettamente replicati nella nostra attuale relazione con la tecnologia –.
Riconosco ancora il pensiero magico, dimentico del pegno da pagare a ogni formula pronunciata, come se le macchine potessero comprendere al di là della loro struttura formale. Scorgo un comportamentismo vetusto e acritico che, invece di essere consapevole della propria storicità, si ripresenta come novità assoluta. Osservo una sciocca competizione con le macchine, proprio su un terreno in cui sappiamo d’essere perdenti – come se la velocità computazionale potesse essere l’unità di misura della dignità umana –.
Persistono paure irrazionali che, lungi dall’alimentare un pensiero critico e una maggiore consapevolezza, turbano e intorbidiscono la limpidezza di idee chiarificatrici. Si manifesta una volontà di potere attraverso l’uso della macchina che maschera, forse, un’insicurezza più intima. Emerge una sottile rinuncia alla responsabilità di “essere umani” quando continuiamo a confrontarci con le nostre stesse invenzioni, ponendoci però al loro stesso livello, come se la “differenza ontologica” potesse essere cancellata da una similitudine funzionale.
Si delinea così, progressivamente, la configurazione di un mondo a “misura di macchina”, in cui, paradossalmente, solo le macchine potranno abitare con agio. Persiste l’illusione di poter sfuggire a una logica “servo-padrone” in cui, invece di essere noi a servirci delle macchine, rischiamo di diventarne schiavi, non per una loro ribellione fantastica, ma per la nostra stessa abdicazione al pensiero autonomo.
L’idea di Piana, tuttavia, mi infonde un senso di serena fiducia. Invece di interpretarla come la presa d’atto di una maturità definitivamente acquisita, la accolgo come uno stimolo, un incoraggiamento, un invito a pensare. Non è una pacificazione conquistata una volta per tutte, ma una proposta per esercitare quel “pensiero adulto” ciò che ci proteggerà da una minorità che tanto temiamo, ma che, nel nostro rapporto con la tecnica, così febbrilmente produciamo.
Forse, in queste virgolette che Piana ci invita a mantenere, dimora un gesto filosofico essenziale: quello spazio di sospensione, quella pausa riflessiva, del “chiedere ragione”. Un esercizio di libertà che, nella sua apparente semplicità, racchiude la possibilità stessa di un rapporto autenticamente umano con le nostre creazioni più sofisticate.

NOTE
1 Giovanni Piana (1940-2019) è stato un filosofo italiano, esponente di spicco della fenomenologia nel nostro Paese. Allievo di Enzo Paci, ha insegnato Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Milano dal 1970 al 1999. Il suo pensiero filosofico si distingue per l’elaborazione di una forma di “strutturalismo fenomenologico”, influenzato principalmente da Husserl, Wittgenstein e Bachelard. Si è dedicato alla filosofia della conoscenza, con particolare attenzione alla filosofia della musica e ai campi della percezione e dell’immaginazione.
2 AA.VV., Logic and Philosophy in Italy. Some trends and perspectives. Essays in Honor of Corrado Mangione on his 75th Birthday, a cura di Edoardo Ballo e Miriam Franchella, Polimetrica Publisher, 2006 (raccolta di studi in onore di Corrado Mangione).
3 Piana, G., A proposito dell’espressione “intelligenza artificiale”, 1987, in «Frammenti epistemologici, È giusto parlare di “intelligenza artificiale”?», 2015, pp. 195 e 196.
4 Ivi.
5 Ivi, p. 197.
6 Nel suo celebre trattato L’uomo macchina (1747), Julien Offray de La Mettrie propone una visione radicalmente materialista e meccanicista dell’essere umano. Secondo La Mettrie, l’uomo non è che una macchina complessa, il cui funzionamento – compresi pensiero, emozioni e coscienza – è interamente riconducibile ai processi fisici e biologici dell’organismo. L’anima, tradizionalmente intesa come principio immateriale, viene ridotta a un semplice “principio di movimento” materiale, una funzione del cervello e del corpo. La Mettrie rifiuta ogni forma di dualismo cartesiano, negando la separazione tra mente e corpo, e sostiene che tra uomo e animali non esista una differenza di natura, ma solo di grado di complessità. L’opera, fondata su un approccio empirico e sulle conoscenze mediche dell’epoca, rappresenta una rottura con la metafisica tradizionale e pone le basi per una concezione unitaria e naturalistica della vita.
7 Ivi, p. 200.
8 Ivi, p. 201.