Dietro il muro
La fotografia di Hans-Christian Schink

© Hans-Christian Schink, LA - Mulholland drive, 2002-2003

Cosa spinge un fotografo a uscire dal proprio Paese e a girare mezzo mondo scattando fotografie? Perché si comincia a errare alla ricerca di qualcosa che ci faccia sentire parte di un luogo? Hans-Christian Schink – artista tedesco nato a Lipsia nel 1961 – ha 28 anni quando la Germania dell’Est si riunifica a quella dell’Ovest dopo la caduta del muro nel 1989. Fino a quel momento per tutta la vita ha vissuto in un paese diviso, ricostruito due volte: dopo le macerie della Seconda Guerra Mondiale e quelle della caduta del muro. Dapprima comincia a fotografare in bianco e nero ritraendo le trasformazioni del paesaggio suburbano, perimetro di confine attorno alla città. Solo dopo quattro anni passa al colore e al grande formato. Risulta emblematico come la prima ricerca che lo mette in evidenza riguardi proprio i “muri”. «Vagavo per la città cercando di capire cosa attraesse la mia attenzione fino a quando mi sono ritrovato davanti a un muro». Da questa visione parte il suo percorso artistico e esistenziale, un percorso che lo porterà in molti paesi ma che conserverà una traccia, indelebile, originata proprio da quelle prime immagini e che lo accompagnerà ininterrottamente sino ad arrivare a oggi.
«Il regalo più bello che abbia mai ricevuto nella mia vita, in occasione del mio settimo compleanno, fu una semplice macchina fotografica a rullino – racconta – fino ad allora, la fotografia non era particolarmente importante a casa mia, a parte le solite foto di famiglia. Tuttavia crescendo ho avuto modo di vedere molte immagini perché i miei genitori insegnavano arte».
Il desiderio di fare della fotografia il centro della sua vita nasce quando, a causa di una scelta professionale piuttosto involontaria derivata dal rifiuto di prestare il servizio militare, che ebbe come conseguenza quella di non poter frequentare l’Università (succedeva spesso nella Germania Est comunista), pose fine all’ambizione di Hans-Christian di studiare paleontologia. Ma proprio l’aver trascorso sette anni impegnato in un lavoro che non gli piaceva lo ha in qualche modo spinto verso la fotografia.
Un’antologia pubblicata nel 2011 da Hatje Cantz Verlag, Hans Christian Schink-Photography, riassume bene tale percorso. Partendo dagli esordi, nel 1995, mostra l’evoluzione creativa di Schink che rispetto ai luoghi ritratti appare eterogenea, mentre è invece essenzialmente omogenea nei concetti più profondi espressi dall’autore. Gli elementi fondamentali presenti nelle immagini di Schink sono infatti tutti riconducibili al suo punto di partenza: il muro, la luce, le macerie, le forme architettoniche rigorose, il confine dove le periferie incontrano le città. Ognuno di essi trova una sua precisa collocazione in un cammino coerente che non devia mai, ma che, al contrario, si rafforza sempre più acquisendo nuovi significati man mano che altri luoghi si aggiungono ai precedenti.

© Hans-Christian Schink, Wände – Ichtershausen, 1995-2003
© Hans-Christian Schink, Wände – Günthersdorf, 1995-2003
© Hans-Christian Schink, Büro (4), 1998

Il muro è ovviamente quello che separava Berlino crollato sotto i colpi increduli dell’una e dell’altra parte, ma l’idea di Wänd (1995-2003) non è così banale. Il muro di Schink è “ricostruzione” di una identità anch’essa crollata. L’immagine del suo muro contiene sempre una parte di terreno e un pezzetto minuscolo di cielo a testimoniare l’architettura del soggetto. Il muro sta in piedi, ma è come se l’idea non fosse più quella di separare, bensì di-mostrare l’impercettibile possibilità di raggiungere una sorta di consapevolezza dell’esserci. L’idea è poter esistere nonostante il muro. Schink dunque ritrae muri “moderni” – in esterni come in interni (Büro, 1998) – ordinati, che delimitano lo spazio, identificano una zona. Le superfici sono omogenee per colore e materiali, parlano di un’esistenza condizionata e regolata, ma che evidenzia comunque un certo fascino.

© Hans-Christian Schink, Peru – Sacsayhuaman (3), 2004
© Hans-Christian Schink,Peru – Trujillo, Huaca del Sol , 2004

Questo elemento fondamentale, il muro, attraverserà gli anni e i paesi e l’autore lo riproporrà, più o meno inconsciamente, in tutti i lavori che seguiranno fino alla sublimazione presente nelle immagini che fanno parte di 1h, dove il muro è diventato quel monolite di kubrickiana memoria, elevato spiritualmente a Dio Sole: una traccia scura nel cielo, nella posizione in cui si trova la luce che infonde la vita. Schink l’aspetta con pazienza per un’intera ora.

© Hans-Christian Schink, 1h – 4/12/2009, 4:11 pm – 5:11 pm, S 21°47.094‘ E 015°39.829‘, 2003-2010
© Hans-Christian Schink, 1h – 9/17/2006, 8:45 am – 9:45 am, N 78°13.370’ E 015°40.024’, 2003-2010

Negli anni successivi alla caduta del muro, nella Germania dell’Est si ricostruisce furiosamente, come se si percepisse una sorta di inadeguata arretratezza o un impellente desiderio di uniformarsi velocemente all’Ovest, così da soffrire il meno possibile di quel divario stabilito dall’isolamento comunista. Ed ecco che le macerie lasciano il posto a nuove architetture, infrastrutture moderne che riportano la parte a Est al pari di quella a Ovest ma che al contempo lasciano dentro l’autore altre “macerie”. Schink forse non sa che le sta cercando, quelle macerie. Forse lo scoprirà soltanto più tardi, in Perù, quando a Lima, nel quartiere in cui abita, la sua curiosità viene attratta da un cumulo di apparenti detriti, piccole montagnole protette da recinzioni. Si tratta di antiche piramidi “crollate”. Ne segue le tracce come a voler ricostruire una mappa di luoghi perduti. E non è forse un luogo perduto quel mondo in cui è cresciuto e che un muro separava da tutto il resto ma che conservava una sua precisa identità? Non risulta sconvolta, questa identità, dai monumenti di cemento che attraversano le colline e passano con violenza sopra i fiumi in nome di un progresso necessario per stare al passo con ciò che ci circonda in una sorta di accerchiamento inevitabile?

© Hans-Christian Schink, Verkehrsprojekte – ICE-Tunnel Behringen, 1995–2003
© Hans-Christian Schink, Verkehrsprojekte – A 20, Peenebrücke Jarmen, 1995–2003

Autostrade, ponti, cavalcavia, ferrovie, ognuno di questi interventi modernizza il territorio ma al tempo stesso lo ferisce e tutto questo sortisce un fascino perverso che pone l’uomo difronte alla inevitabile relazione con il luogo, ma anche con se stesso. Accettare il cambiamento non significa dunque sottostare a esso, significa scoprirne la giusta dimensione e, di conseguenza, conviverci mantenendo la propria integrità.
L’altro forte elemento che compare nelle immagini di Schink è la luce. Osserverete che è fondamentale per chi si occupa di fotografia, ma anche qui siamo ben oltre la banalità di questa affermazione. La luce in Schink appartiene anch’essa alla memoria del proprio luogo primordiale, appartiene alla sua Heimat. Questo risulta molto chiaro nel momento in cui, trovandosi a Los Angeles (LA 2002/2003) comincia a lavorare sulla città e subito si rende conto che qualcosa non va. Si tratta della luce quasi innaturale e un po’ cinematografica del cielo: è troppo azzurro e l’autore ne è disturbato. Decide allora di fotografarlo con il sole difronte in modo da farlo diventare grigio, come quello della sua Germania. Anche qui ritornano le periferie, zone di confine/passaggio testimonianza di una variazione sempre in essere che è fisica del luogo ma anche interiore dell’uomo. Così la luce della periferia di una città lontana mille miglia dal proprio luogo d’origine torna ancora a manifestarsi, nella volontà di Schink, in una sorta di ponte tra Est e Ovest, tra realtà e finzione/rappresentazione.

© Hans-Christian Schink, LA – Glendale, Ridge Drive, 2002–2003
© Hans-Christian Schink, LA – Azusa, Sierra Madre Avenue, 2002–2003

Schink percorre i luoghi del mondo avanti e indietro senza posa, realizzando un fluido continuo di immagini coerenti come raramente le si può vedere, e mostrandoci al tempo stesso una evidente evoluzione. Egli cerca inconsciamente (o forse no), viaggiatore errante in Vietnam (2005) come in Giappone (Niigata 2009) o in qualsiasi altro luogo, i segni del passaggio di coloro che vi abitano ma anche del proprio: non come semplice fotografo delle trasformazioni del paesaggio, bensì come testimone del cambiamento interiore che non può prescindere dal luogo in cui tutto ha origine e che, nel contempo, si apre all’altro creando una mescolanza rispettosa.

© Hans-Christian Schink, Vietnam – Bach Ma (4A), 2005
© Hans-Christian Schink, Tōhoku – Ogatsucho Ohama, Miyagi Prefecture, 2012

A volte è necessario aspettare. Schink lo sa e lo dimostra molto bene con 1h (2005-2010) che necessita di una osservazione di due anni prima che l’autore capisca quale sia il fenomeno che sta osservando. Un’ora è un tempo relativo, può risultare lungo o breve a seconda di ciò che si vuole realizzare. Attendere un’ora per poter scattare una fotografia è decisamente un tempo lungo, che potremmo definire meditativo. Il luogo dunque assume una nuova valenza, non ha più importanza la sua identificazione reale, anzi l’autore non vuole intenzionalmente renderlo riconoscibile. L’attesa diventa quella “cosa” da sempre allontanata che riconquista il proprio spazio: prende forma proprio perché la si attende, permettendo alla fine all’uomo di entrare in comunicazione con se stesso.

Il sito di Hans-Christian Schink