Goya e le mostruosità della ragione

Francisco Goya, La Famiglia di Carlo IV, 1800-1801

La lectio facilior è dura a morire. I luoghi comuni consolidati nel lessico e nella memoria collettiva sembrano impermeabili a ogni approfondimento critico. La frase che leggiamo sull’incisione 43 della serie Caprichos di Francisco Goya y Lucientes è comunemente intesa come apologia della ragione, la laica divinità che andava affermandosi alla fine del 1700: El sueño de la razón produce monstruos.

Francisco Goya, Capricho 43, El sueño de la razón produce monstruos

Facile seguire questa via, per artisti orientati alla retorica, tesi a educare il popolo e invece restii a cercare attraverso l’arte la conoscenza profonda di sé stessi. Ecco così Renato Guttuso usare il titolo Il sonno della ragione produce mostri nel 1980, per la sua opera dipinta sull’onda emotiva della strage di Bologna.

Renato Guttuso, Il sonno della ragione produce mostri, 1980

Possiamo vedervi una banale citazione della Guernica di Picasso, o con giudizio più lusinghiero possiamo apprezzare la critica dell’orrore, del terrore. Niente però a che vedere con l’opera di Goya. Difficile immaginare due opere più diverse.
Guttuso, va detto, non è certo il solo a travisare. Vale la pena qui, per iniziare, dire subito che il fraintendimento dell’opera è giustificato dall’ambiguità del titolo, dovuta al fatto che in spagnolo una sola parola, sueño, sta al posto occupato in italiano e in ogni altra lingua da due differenti parole: sonno e sogno.

MALATTIA

Nel 1792 Goya appare al culmine della carriera. È da sei anni pittore di corte; è personaggio pubblico di successo, di riconosciuta autorità. Dipinge con perfetta tecnica scene storico-mitologiche, immagini pastorali, sereni panorami, ritratti di regnanti, nobili, cortigiani. Esegue cartoni per arazzi.
Proprio allora, nell’autunno, all’età di 46 anni, è colpito da una grave malattia. I medici inizialmente diagnosticarono una colica. Ma i sintomi si accumulano, diversi e preoccupanti.
Goya è costretto ad abbandonare il lavoro. L’amico Sebastián Martínez lo ospita a Cadice. La convalescenza è lenta, segnata da ricadute. L’amico annota: «una malattia della testa, che è il luogo in cui ha tutti i suoi disturbi». «Il rumore nella testa e la sordità non si sono affatto attenuati, ma la sua vista è molto migliorata e non ha più la confusione che aveva, che gli faceva perdere l’equilibrio». «Ora cammina molto bene su e giù per le scale e finalmente fa cose che non riusciva a fare».

Francisco Goya, Don Sebastian Martinez, Por su Amigo,1792 (en el papel que lleva en la mano)

L’infermità resta misteriosa. In quegli stessi giorni varie interpretazioni del malessere si rincorrono e si contrappongono. Ancora ai giorni nostri è oggetto di cavillosi articoli scientifici; uno degli ultimi parla di una qualche rara malattia autoimmune. Possiamo ben lasciare da parte questi gratuiti esercizi, che portano sempre il segno dell’abuso: il personaggio famoso è il pretesto per facili esercizi, lontanissimi dall’attenzione al dolore della persona, alla sofferenza dell’artista.
Gli storici annotano che due anni servono a Goya per riprendersi. E che i postumi sono gravi: il più evidente è la sordità. ‘Riprendersi’ significa solo: tornare in attività, tornare alla propria professione.
Del resto la mano dell’artista era ferma e precisa quando nel pieno della malattia ritrae l’amico Sebastián.
È “una malattia di testa”, che coinvolge il corpo e la psiche: la persona intera e il suo essere artista. In realtà, la guarigione sta nell’accettare la propria malattia. Il Goya di prima non tornerà più. Il nuovo Goya è più consapevole, ma lacerato. Accetta una doppiezza, una scissione. E accetta che il suo tormentato modo di essere si manifesti nell’opera. I dipinti placidi, manierati e perfezionisti non torneranno più.
Al loro posto, anche nelle opere dedicate a ritrarre regnanti e governanti, il giudizio critico e sardonico traspaiono. A questa produzione almeno in apparenza agiografica si aggiunge un lavoro segreto, la cui fruizione è riservata a pochi amici, o all’autore stesso: l’opera ‘nera’. Opera che Goya – nota il filosofo Ortega y Gasset – crea «con la chiaroveggenza di un sonnambulo». Opera che ci parla del lato oscuro, doloroso, dannato dell’essere umano.

DISCONTINUITÀ

Il passaggio è evidente. Una prima fase è caratterizzata dall’apparire di immagini dove scompare ogni tratto idilliaco, bucolico, ed entra in campo invece il turbamento della coscienza.

Francisco Goya, Vuelo de brujas, 1793

Francisco Goya, La Maja desnuda, 1795

L’evoluzione termina nelle Pinturas negras dell’età matura: affreschi che Goya dipinse sui muri della Quinta del Sordo, la villa che possedeva alla periferia di Madrid, sulle rive del fiume Manzanares. Immagini tenebrose, angosciate. Segrete, provenienti dal profondo.

Francisco Goya, Cabezas en un paisaje 1820-1823

È un transito lento, sfumato. Potremmo forse usare la metafora cinematografica della dissolvenza.
Possiamo però soffermarci su un momento, un passaggio. In termini musicali potremmo dire un interludio: un intermezzo che coglie il senso del precedente, e allude a sviluppi anche inattesi. Qui infatti Goya, pittore, sente il bisogno di usare una tecnica per lui non consueta: l’incisione. Come se l’urgenza di esprimersi imponesse una scelta: l’abbandono del colore. Solo così Goya poté descrivere una scena buia, attraversare le tenebre e scoprire dinnanzi a sé una nuova strada.
La raccolta di incisioni ha per titolo Caprichos. Lì Goya incide i fantasmi che lo attanagliano.
Un’opera per molti versi complessa. Complesso è tema che l’opera promette di affrontare. Complesso è il rapporto tra la profonda motivazione personale e la necessità, dopo la pausa forzata, di riavvicinarsi al mercato e tornare a guadagnare.

“CAPRICHOS”: PUBBLICAZIONE

L’annuncio della pubblicazione delle stampe appare anonimo sul Diario de Madrid il 6 febbraio 1799. Ma la mano e il pensiero di Goya appaiono evidenti.

Diario de Madrid 6 de febrero de 1799

Persuaso che la censura degli errori e dei vizi umani (sebbene sembri peculiare dell’eloquenza e della poesia) possa essere anche oggetto di pittura», «tra la moltitudine di stravaganze ed errori che sono comuni in tutta la società civile, e tra le preoccupazioni e le menzogne ​​volgari, autorizzate dalla consuetudine, dall’ignoranza o dall’interesse», l’autore «ha scelto di esporre agli occhi forme e attitudini che sono esistite finora solo nella mente umana, oscurata e confusa dalla mancanza di illuminazione o accalorata dalla dissolutezza delle passioni».
Non si tratta certo di «ridicolizzare i difetti particolari di uno o un altro individuo». «La pittura (come la poesia) sceglie l’universale che giudica più adatto ai suoi fini: riunisce in un solo personaggio fantastico circostanze e caratteri che la natura ha distribuito in molti, e da questa combinazione, ingegnosamente disposta, risulta quella felice imitazione, per la quale il buon artefice acquista il titolo di inventore e non di copista servile».
Il testo risponde a molteplici esigenze: spingere all’acquisto, ma anche giustificare l’opera di fronte alle autorità, edulcorandone in qualche misura la genesi e le motivazioni. Goya fa appello alla libertà dell’artista; esplicita, sia pure in modo velato, gli intenti morali e politici; ma cerca anche di mettere le mani avanti, giustificandosi a priori di fronte a chi potesse vedersi ritratto nei vizi e nei difetti. Cerca, insomma, di evitare riflessi sulla sua immagine pubblica, e di evitare di cadere sotto il giudizio dell’Inquisizione – che è uno dei bersagli polemici dei Caprichos.
Eppure, anche in queste righe rivolte a lettori disattenti, distratti o prevenuti, traspare la rivendicazione del profondo valore autobiografico dell’opera. È l’opera che l’autore ha avuto bisogno di creare. E traspare anche l’orgoglio dell’ardito tentativo: descrivere l’inconscio: esporre agli occhi forme che esistono nella mente umana. E orgoglio anche per la novità: il tentativo, che sembrava perseguibile solo attraverso le arti letterarie, è qui perseguito per via visiva.
Un’arte visiva nuova, che consapevolmente resta confinante con la letteratura: in essa sono indispensabili anche le parole scritte. Non solo i titoli, accuratissimi. Ma anche parole scritte all’interno dell’opera.
Si legge in calce alla presentazione, sul Diario de Madrid, che le stampe sono in vendita «en la calle del Desengaño número 1 tienda de perfumes y licores». Via del Disinganno, della Delusione, della Disillusione: l’indirizzo del luogo si rivela simbolicamente significativo. I Caprichos mettono in guardia di fronte agli inganni. Inganni del potere ai danni dei cittadini, trappole mentali con le quali ognuno inganna sé stesso. Probabilmente allora nessuno si soffermò a cogliere la coincidenza, ma subito il traffico in calle del Desengaño superò i limiti di guardia. Conti, duchi, borghesi, accompagnati dalla loro servitù, scendevano dalle loro carrozze per entrare nel negozio di profumi e liquori. Chi entrava per comprare, chi solo per guardare, i passanti si fermavano, tutti parlavano della collezione di stampe del pittore Francisco de Goya, e dei suoi soggetti stravaganti, inusitati.
L’aristocrazia parassitaria, il clero reazionario, un popolo facilmente manipolabile sono il bersaglio delle critiche feroci dell’artista, ma anche i fautori della immediata notorietà che accompagna l’opera.
È così che, nonostante la cautela di Goya, l’annuncio pubblico, l’esposizione e le notizie che subito iniziano a girare provocano polemiche, sconcerto e scandalo.
L’Inquisizione ha condannato l’opera, la notizia non può non giungere all’orecchio dell’artista, primer pintor de cámara del re Carlos IV. Goya reagisce rapidamente. Evita di essere posto formalmente in stato d’accusa. Le stampe rimangono in vendita solo per 14 giorni. Goya sceglie di ritirarle dal mercato. Nel 1803, per salvare l’opera – già leggendaria, ma non mostrabile in pubblico – dona e lastre e le 240 stampe esistenti al re, affinché tutto sia conservato nella Real Calcografía.

“CAPRICHOS”, O MEGLIO: “SUEÑOS”

I Caprichos: raccolta di 80 stampe, pensate come tasselli di una unica composizione. Ma la genesi stessa dell’opera ci spinge a concentrare l’attenzione su una singola incisione, la numero 43 nella versione finale; e numero 1, invece, in una prima sistemazione dell’opera intera, dove al posto del titolo Caprichos stava il titolo Sueños. Ritroviamo la parola sueño nel titolo del Capricho 43: El sueño de la razón produce monstruos.

Francisco Goya, Capricho 43: El sueño de la razón produce monstruos

I Caprichos: originale fusione di satira politica, e di rappresentazioni di visioni, di incubi. E al cuore dei Caprichos, El sueño de la razón produce monstruos, recapitolazione, sintesi estrema dell’opera. Allo stesso tempo, elogio dell’oscurità e della luce.

FONTI

L’opera rompe i canoni vigenti. Appare di primo acchito, ai contemporanei, come esemplare frutto di quel nuovo sguardo che si era affermato in Europa nel 1700: Aufklärung, Lumières, Enlightenment, Illuminismo, in spagnolo: Ilustración. Eppure è anche evidente il forte radicamento nella cultura spagnola. Sono visibili le tracce del Siglo de Oro, dell’epoca barocca. Si può certo cogliervi l’influenza di opere d’arte visiva: Velázquez, Murillo, Ribera, Zurbarán, El Greco. Ma le originali caratteristiche della raccolta – narrazioni visive, ognuna accompagnata da un titolo accuratamente scelto –, e anche l’insistito parallelo con la poesia proposto nella presentazione sul Diario de Madrid, ci autorizzano a cercare precedenti e chiavi di lettura, più che nella pittura, nella letteratura.

Juan De La Cruz

L’immagine della persona sola nelle tenebre ha un vivo precedente nella Noche oscura di Juan de la Cruz – poema mistico composto attorno al 1578.

En una noche obscura,
con ansias en amores inflamada
-o dichosa ventura-
salí sin ser notada,
estando ya mi casa sosegada.

In una notte scura
con ansie in amori infiammata
-o felice sorte-
uscì senza essere notata,
mentre la mia casa era quieta.

L’anima canta la dichosa ventura. Trovarsi a lasciare l’avvolgente tranquillità della casa. La felice sorte: uscire, trovarsi immersi nella notte oscura. L’unica luce e la guida, ci dicono i versi successivi –sin otra luz y guía/ sino la que en el coraçón ardía– sta nel proprio cuore ardente. Luce interiore più efficace del sole di mezzogiorno, guida verso il luogo del benessere. Che però non solo è invisibile: nel presente è assente. Nel presente c’è solo il disagio, l’ansiosa preoccupazione. Il buio. Eppure è una condizione felice, che già fa percepire alla persona la pienezza dell’essere. L’accettazione del passaggio necessario, inevitabile, porta a godere l’anticipazione della felicità.
Il cammino di Juan de Cruz – il cammino dell’anima verso Dio – è rivissuto laicamente, illuministicamente da Goya.

Luis De Góngora

Come accadrà poi a Goya, nell’estate del 1593 Góngora visse la terribile esperienza di una ignota malattia: una rottura nella continuità della sua vita. Ne riemergerà attraverso un nuovo peculiare modo di fare poesia, quel lussureggiare di immagini che noi posteri associamo indissolubilmente al suo nome. Il nuovo modo si mostrerà appieno con il poema Soledades, composto nel 1613. Ma le tracce del nuovo stile appaiono già in un sonetto scritto nei mesi della convalescenza, nel 1594.
La prima quartina stabilisce un nesso tra Góngora, Juan de la Cruz e Goya.

Descaminado, enfermo, peregrino,
en tenebrosa noche, con pie incierto
la confusión pisando del desierto,
voces en vano dio, pasos sin tino.

Conviene tradurre alla lettera, mantenendo per quanto possibile la rima.

Fuori strada, malato, pellegrino
in tenebrosa notte con pie’ incerto
la confusion pestando del deserto
voci invano diede, passi maldestri.

I versi ci lasciano sospesi in uno stato di dubbio esistenziale: la malattia è il passaggio, dove incipit vita nova. L’artista ipersensibile si trova a calpestare nuove terre, ma non vede i propri passi perché è immerso nell’oscurità della notte. Invano parla cercando risposte. Ma nonostante tutto, sia pure con passi sgraziati e insicuri, avanza nella notte e nel deserto.

Baltasar Gracián

Gesuita, scrive sotto pseudonimo, ribellandosi senza ostentazioni agli ordini impartiti dai superiori.
La sua opera è giudicata poco seria e lontana dalla professione religiosa.

Copertina della prima edizione de El Criticón 1651

La cifra delle sue riflessioni morali è l’agudeza, parola che ricorre nelle sue opere e nei titoli delle stesse. Possiamo tradurre acutezza, acume, ma ricordando che l’espressione spagnola comporta un qualche spostamento rispetto al senso latino, che parla di ‘essere aguzzo’, ‘appuntito come un ago’. Si aggiunge in spagnolo il senso di ‘sottile’ e ‘tagliente come una lama’.
Lo stile di Gracián si precisa e si manifesta più libero nell’opera della maturità, El Criticón, 1651, 1653, 1657. Nell’opera, dove lo stesso autore è un personaggio di invenzione, sono comprese false approvazioni da parte di censori. Questo non risparmia a Gracián punizioni disciplinari, confinamenti.
L’opera è articolata in capitoli, chiamati crisi: ogni storia è una allegoria di un aspetto della vita umana. Gracían stesso fa descrivere nel suo stesso testo al falso censore gli aspetti salienti dell’opera: «Sotto una ingegnosa fabula o una finzione tragica e comica», documenti morali, «dichiarati con un linguaggio gravemente colto e dolcemente piccante».
È questo, anche, lo stile dei Caprichos di Goya. Ogni Capricho, come ogni crisi, è una compendiosa narrazione che propone senza pietà una situazione o un argomento. Ogni Capricho come ogni crisi si presta a una prima interpretazione formale, letterale. Ma è presto evidente che esiste una seconda interpretazione, violentemente critica, inizialmente velata, ma presto svelata, dalle ambiguità che segnano la narrazione.
Nei Caprichos la narrazione è sdoppiata, viaggia per la via dell’immagine e per la via delle parole.
Ma anche proprio nel maneggio delle parole, nel lessico e nella sintassi e nella semantica, Goya si mostra un grande autore, seguace di Gracián: i titoli, le frasi che leggiamo sulle incisioni sono aforismi, taglienti e strazianti, su uno sfondo di crudele presa in giro.

Miguel de Cervantes

Basta leggere l’incipit del Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha, dato alle stampe nel 1605, per cogliere un illuminante riferimento al modo di intendere la ragione di Cervantes – e, possiamo credere, di Goya.
La narrazione inizia e subito veniamo a sapere che Don Quijote vende redditizi terreni agricoli per comprare libri. Fra tutti apprezza le opere di Feliciano de Silva, la chiarezza della cui prosa gli pareva una perla. Chiarezza della prosa? Subito Cervantes precisa: «aquellas intrincadas razones suyas». Quelle intricate ragioni. Cervantes non ci fa mancare un esempio di questa prosa. «La razón de la sinrazón que a mi razón se hace, de tal manera mi razón enflaquece, que con razón me quejo de la vuestra fermosura»: «La ragione dell’ingiuria che alla mia ragione si fa, in tal modo la mia ragione indebolisce, che con ragione mi lamento della vostra bellezza». Razón de la sinrazón: sinrazón è ‘azione compiuta contro giustizia, contro il dovuto, contro il ragionevole’. In italiano: irragionevole, sragionare. Questione intricata? Cervantes come Goya non può concepire la ragione senza avere presente il suo opposto. L’illusione della ragione. Il muoversi sul confine, dove la ricerca della pura razón è sempre sul punto di svolgersi in sinrazón.
Se poi andiamo alla conclusione della prima parte del Quijote (Prima parte, capitolo LII) possiamo considerarla conclusione dell’opera a tutti gli effetti, perché Cervantes aggiunse la seconda parte dieci anni dopo, solo per coprire con un proprio testo la continuazione che un anonimo aveva nel frattempo dato alle stampe – troviamo il sonetto scritto dal Burlón, Academico di Argamasilla, autore fittizio, dedicato a Sancho. L’ultima terzina suona così:

Oh vanas esperanzas de la gente!
¡Cómo pasáis con prometer descanso,
y al fin paráis en sombra, en humo, en sueño!

Possiamo tradurre:

Oh vane speranze della gente!
Come è facile passare da promettere riposo
all’andare a finire en sombra, en humo, en sueño!

Soffermandoci sull’ultimo verso: è agevole tradurre sombra, ombra; humo, fumo. Ma c’è una differenza sostanziale nel tradurre l’ultima parola sonno o sogno. Alfredo Giannini, nell’accreditata traduzione del 1923, traduce l’ultima parola sonno. Ma come? Il romanzo ci parla di sogno e follia; misera realtà o folle sogno. Quijote non dorme, è un sognatore errante. È l’emblema di chi crede nei propri sogni e per questo combatte.
Possiamo infatti osservare come Goya ritrae Quijote.

Francisco Goya, Visiónes de don Quijote

Don Quijote legge romanzi di cavalleria. Ma balza agli occhi la vicinanza tra Visión de don Quijote il ritratto di sé stesso, nel Capricho 43, intitolato El sueño de la razón produce monstruos. Non è sonno; descanso: riposo, è impegnativo sogno. Le stesse immagini simboliche mostruose si stagliano nell’ombra sopra il capo del Quijote e di Goya. Le visioni turbano, il Quijote, però, alimentato dal suo delirio, dalla sua follia, forse anche dalla sua austera moralità si interroga senza soccombere – che è invece quello che sembra accadere a Goya.

Pedro Calderón de la Barca

Un secolo e mezzo prima del momento in cui Goya, nel suo tentativo di rinascita, ritrae sé stesso, accompagnando l’immagine con la frase El sueño de la razón produce monstruos, Pedro Calderón de la Barca, nel 1635, aveva intitolato il suo dramma La vida es sueño.
La cultura spagnola, apparentemente ripiegata su sé stessa, parla all’uomo universale del profondo senso dell’essere. Diversi motivi portano a vedere una contiguità tra Calderón e Shakespeare.
La vida es sueño ruota attorno alla privazione della libertà di Sigismondo da parte del padre, il re Basilio di Polonia. Basilio rinchiude il figlio per paura che si avverino le predizioni di un oracolo da lui consultato, secondo il quale Sigismondo sarebbe diventato un sanguinario tiranno, a danno del popolo e di Basilio stesso.
Il dramma ci guida a comprendere come un essere umano può elevarsi al di sopra del proprio destino. Non siamo schiavi di un destino crudele e imperturbabile. Il principe Sigismondo non diventerà il tiranno sanguinario che suo padre aveva profetizzato.
Se la predestinazione sembra determinare la vita, il sogno permette di immaginare un’altra vita. Se la vita è oppressione, il sogno permette di progettare la propria vita come libero arbitrio.

Yo sueño que estoy aquí,
destas prisiones cargado;
y soñé que en otro estado
más lisonjero me vi.
¿Qué es la vida? Un frenesí.
¿Qué es la vida? Una ilusión,
una sombra, una ficción,
y el mayor bien es pequeño;
que toda la vida es sueño,
y los sueños, sueños son.

Io sogno che sto qui
sotto il peso di questa prigione;
e ho sognato che in un altro stato
più lusinghiero mi sono visto.
Cos’è la vita? Una frenesia
Cos’è la vita una illusione,
un’ombra, una finzione,
e il maggior bene è piccolo;
ché tutta la vita è sogno,
e i sogni, sogni sono.

Goya sogna schiacciato da immagini mostruose, sogna sotto il peso di questa prigione, sogna un’altra vita possibile.

Francisco de Quevedo

Nato nel seno di una illustre famiglia, genio precoce, studia lingue classiche, francese, italiano, filosofia, fisica, matematica, teologia. Mostra presto la sua vena caustica, che si manifesta nei Sueños, serie di opere che l’accompagnano dagli anni giovanili all’età matura.
Già il primo, El sueño del Juicio final, 1606, fu aspramente criticato dalle autorità religiose. Ne fu impedita la pubblicazione. Quevedo è invitato a smentirne la paternità.
Solo nel 1627 esce Sueños y discursos de verdades descubridoras de abusos, vicios y engaños en todos los oficios y estados del mundo, che raccoglie Sueño del Juicio Final, El alguacil endemoniado, Sueño del Infierno, El mundo por de dentro, Sueño de la muerte.
Comunque l’opera cade sotto i rigori della censura. Quevedo allora, nel 1631, pubblica quindi un’edizione purgata e mitigata intitolata Juguetes de la niñez travesuras del ingenio. Le parole deluse che Quevedo scrive nel Prologo sembrano anticipare lo stato d’animo di Goya di fronte all’insuccesso dei Caprichos. «Il timore degli stampatori è stato così grande da togliermi il piacere di divulgare queste cose. Sono stato costretto a discolparmi e punito del averle scritte. Se voi, mio lettore, che mi avete comprato come facinoroso, non mi comprate ora come modesto, confesserete che gradite solo i delitti e che vi piacciono solo i discorsi di malefatte».
I racconti oscillano tra la disquisizione filosofica e il trattato morale. Come nei Caprichos di Goya si descrivono tipi umani, si attaccano vizi dei contemporanei. Il genio satirico di Goya ha molte parentele con lo stile di Quevedo. Dai sogni e dall’inferno di Quevedo nascono i demoni, i mostri e i pipistrelli di Goya.
Se i riferimenti a Quevedo son già ben evidenti nei Caprichos, diverranno più espliciti nelle pinturas negras degli anni successivi.

Fray Luís de León

La rottura nella vita di Fray Luís de León – umanista, religioso agostiniano – non è dovuta a una malattia. O forse lo è, si sa della depressione che patì. Ma c’è nel suo caso una precisa causa esterna. La prigione. Dispute politiche e teologiche, soprattutto a quanto pare dispute tra ordini religiosi, costringe il teologo e professore nel carcere tra il marzo 1572 e il dicembre 1576. La sua opera poetica circolò in copie manoscritte, ma fu data alle stampe solo nel 1631, quarant’anni dopo la morte di Fray Luís, per inziativa di Quevedo.
Non esiste certezza sulla data di stesura della Primera ode, che porta il titolo Vida retirada. Il momento può essere precedente o forse successivo alla permanenza in cella. Si suppone una prima redazione nel 1557 e un’ultima nel 1583. Altri sostengono l’esistenza di una prima stesura anteriore all’incarcerazione.
Ma in ogni caso i versi servono al poeta per contenere l’amarezza causata da ingiuste censure. Servono per trasformare la malinconia in beatitudine, il livore in saggezza. Il tema appare evidente già nella prima famosa strofa.

¡Qué descansada vida
la del que huye el mundanal rüido,
y sigue la escondida
senda, por donde han ido
los pocos sabios que en el mundo han sido!

Che riposta vita
quella di chi fugge il mondano rumore,
e segue il nascosto
sentiero, per il quale sono andati
i pochi saggi che nel mondo sono stati!

Fray Luís propone la metafora del viaggio, la vita come viaggio. Viaggio per mare. Leggendo i versi non possiamo fare a meno di pensare ai viaggi dei Conquistadores, alla ricerca dell’oro americano, viaggi condotti

con sed insacïable
del no durable mando

con sete insazibile, perché comando, “mando”, non dura mai abbastanza per estinguere la sete del potere.
Viaggi che erano il vanto e la fonte dell’apparente ricchezza della Spagna negli anni in cui Fray Luís de León scrive. Viaggi condotti costringendosi ad attraversare tempeste, durante le quali

en ciega noche
el claro día se torna

in cieca notte
il chiaro giorno si volge.
Torna nei versi l’immagine della rottura.

Roto casi el navío,
a vuestro almo reposo
huyo de aqueste mar tempestuoso.

Rotta quasi la nave
al vostro almo riposo
fuggo da questo mare tempestoso.

“Vuestro almo reposo”. Almo: vivificante. Il poeta si affida alla fede, a luogo dono divino in cui trovare alimento lontano dai pericoli del mondo. Goya non ha quella fede, non cerca un altrove edenico, non si ritira dal mondo. Dopo la pausa dei giorni trascorsi a Cadice presso l’amico Sebastián Martínez, tornerà a Madrid, a corte; apparentemente tornerà alla vita di prima. Ma la sua vita resterà segnata da una cesura, una rottura, un cambiamento di rotta. A questo fa pensare l’immagine autobiografica rappresentata nel Capricho 43: l’immagine di sé stesso ripiegato nel sonno, o nel sogno. Perciò valgono per lui i versi di Fray Luís:

Un no rompido sueño,
un día puro, alegre, libre quiero;
no quiero ver el ceño
vanamente severo
de a quien la sangre ensalza o el dinero.

Un non rotto sogno,
un giorno puro, allegro, libero desidero;
non voglio vedere il cipiglio
vanamente severo
di chi il sangue esalta o il denaro.

Sonno e sogno allo stesso tempo. È un sogno perché cerco un luogo e un tempo nel quale ora come ora non mi è dato di vivere. È un sonno, nel senso di descansada vita: vita serena, riposata, libera dalla fatica e dalla stanchezza causate dalla ricerca della fama, del potere, della ricchezza. Vita libera dal sogno della ragione. I cui mostri, in effetti, sono ben rappresentati dal “ceño/ vanamente severo/ de a quien la sangre ensalza o el dinero”.
Goya ha viaggiato nella notte, lontano dalla luce che illumina la vita, lontano dal sé stesso più profondo, essenziale. Per questo si ammala. Si curerà raccontando della duplicità sonno/sogno, e dipingendo poi nel resto della sua vita quadri dove il chiaro giorno si trasforma in cieca notte.

PRESENTE STORICO

La morte nel 1700 di Carlo II d’Asburgo, e la successiva Guerra di Successione, porta il regno di Spagna nelle mani dei Borboni. Nel 1788 Carlo IV di Borbone prende il posto del padre Carlo III. Nel 1792 è stato nominato Primo Segretario di Stato, un oscuro membro della piccola nobiltà di Estremadura. Secondo voci diffuse è amante della moglie di re Carlo, la reina María Luisa de Parma. Godoy, il vero dominus della politica spagnola di quegli anni, in carica fino al 1798, è tra i protettori di Goya.
È forte in Spagna l’influenza francese, anche per motivi dinastici. Nei pochi giorni in cui resta aperta l’esposizione dei Caprichos, inizio di febbraio 1799, si parla sulla stampa e nei salotti di Napoleone impegnato nella Campagna d’Egitto: persa la flotta a Aboukir nell’estate precedente, cerca di risalire la china tentando la conquista della Siria. Referendum in Piemonte; le truppe francesi sono entrate a Napoli. La Vandea, già scossa dalla guerra civile, è distrutta da un terremoto.
Gli echi della Rivoluzione Francese sono vivi. Il diffuso timore che eserciti stranieri e monarchici attaccassero Parigi spinge i comitati di sorveglianza della Comune alla mobilitazione pubblica, che si risolve, tra il 2 e il 7 settembre 1792 in stragi e massacri. L’onda si allarga a Versailles, Orléans, Reims.
Nel gennaio del 1793 il re di Francia Luigi XVI, cugino del re di Spagna, è morto sotto la ghigliottina: quell’ordine sociale che sembrava immutabile mostra ormai la sua precarietà. Si scopre presto, però, che la violenza impersonale della nuova giustizia di Salute Pubblica non è meno impietosa della violenza del vecchio regime. L’approvazione della Loi des suspects, il 17 settembre 1793 segna il momento culminante della prima fase della rivoluzione. La paranoia rivoluzionaria reprime le libertà individuali. Tra 1793 e 1794, arresti, processi sommari, esecuzioni, massacri: si stimano cinquecentomila carcerati, diverse decine di migliaia di ghigliottinati, fucilati, affogati.
L’8 giugno 1795 muore, detenuto nella prigione della Tour du Temple, Luigi XVII, secondogenito e successore di Luigi XVI.
Goya ha ben presente come dai nobili intenti dell’Illuminismo nascano rivoluzioni che proclamano libertà, uguaglianza, fraternità. Rivoluzioni però sempre a rischio di degenerare in disumana violenza di massa, in guerre civili. L’artista non può non restarne turbato. I Caprichos parlano anche di questo fosco clima. Possiamo anche forse trovare una significativa chiave di lettura in una concomitanza: la fase acuta della malattia di Goya coincide con gli anni del Terrore.

ARTE COME AUTOBIOGRAFIA E COME AUTOTERAPIA

Nel tempo in cui scrivo, vittime del primato delle neuroscienze e di un comportamentismo meccanicistico, rinunciamo allo sguardo psicologico e psicanalitico. Perdiamo così di vista la relazione tra arte e malattia, l’arte come cura, come allontanamento dalla malattia. O forse meglio: come consapevole convivenza con la propria malattia, con i dolori del corpo e dell’anima che fanno parte della nostra storia, della nostra sensibilità nel vivere il tempo, l’ambiente.
La malattia è perdita dell’armonia che contraddistingue l’essere umano. Armonia di corpo e mente, di pensiero e azione. Armonia con la società, la natura. Appartenenza alla complessa vita. Integrità: sentirsi interi, non ‘a pezzi’. Ma l’integrità è forse solo un desiderio, inevitabilmente inappagato, una visione in un sogno.
Goya si cura rinunciando a dipingere scene pastorali, arcadiche, si libera dei mostri e del buio disegnando e dipingendo i mostri e il buio. La discontinuità, la rottura che segna la vita è raccontata con le immagini che in ogni fase della vita si sceglie di disegnare, di dipingere.
Freud e nella sua scia Melania Klein ci insegnano a leggere nell’arte un atto riparatorio. Il gesto creativo mira a riparare, a ripristinare, l’oggetto d’amore perduto, o distrutto. Jeanine Chasseguet-Smirgel, in Pour une psychanalyse de l’art et de la créativité, 1988, ci guida nel porre l’accento, più che sull’opera stessa, sul valore soggettivo della creazione artistica. La vicenda di Goya, infatti, più che attenzione all’oggetto della creazione – l’opera in sé – ci parla di come il creare un’opera, una certa opera cambia – ripara, restaura – l’artista stesso. L’opera contiene mostri per liberare l’artista dai mostri, l’opera può anche essere brutta, come la bruttura che rappresenta: «La creazione assume nell’inconscio il senso di una riparazione del sé a spese dell’oggetto». L’opera è cura di sé stessi: «La creazione è autocreazione e l’atto creativo trae il suo impulso più profondo dal desiderio di compensare, con i propri mezzi, le mancanze lasciate o causate da altri».
Goya rende visibile l’invisibile, dando forma alle paure e agli spettri che abitano la mente umana. Ma questa è ancora una lettura esterna, oggettiva. L’opera che abbiamo ora sotto gli occhi, e la sua genesi, lasciano, crediamo volutamente, le tracce per seguire Goya nella sua personale, soggettiva ricerca di un modo per convivere con la malattia, il malessere. Rari sono i casi in cui la riparazione del sé appare così evidente, esposta per immagini, come è nel caso del Capricho che porta l’emblematica scritta: El sueño dela razón produce monstruos.
I Caprichos sono l’inizio di una nuova vita che accompagnerà Goya fino alla morte. Una doppia vita: sotto lo sguardo della corte, dell’aristocrazia, della borghesia, del pubblico tutto, attraverso incarichi formali, l’artista si mantiene nel quadro delle regole sociali del tempo. Intanto però, nel segreto del suo mondo privato, offre campo libero a immaginazione, incubi, mostruosità, razón che volge in sinrazón: opere incomprensibili alla luce della ragione.
La salute è mantenuta accettando la malattia. I Caprichos, pur così strani, possono essere esposti in pubblico. Opere dipinte negli anni successivi nel segreto del proprio atelier privato giungono invece a essere tanto mostruose da non poter essere mostrate.
L’artista disegna e dipinge per sé stesso. L’opera è terminata nel momento in cui l’artista non ha più bisogno di lavorarvi. L’artista è un artista nel curarsi.

GENESI DELL’OPERA

Così come è un luogo comune l’interpretazione di Guttuso del terrore e dell’orrore – debitrice evidente di opere precedenti, mera citazione di Guernica, potremmo a prima vista intendere l’immagine dell’artista rappresentata nel Capricho 43 come mero elemento di una serie di immagini precedenti, o coeve: basta osservare il frontespizio di un’edizione di Quevedo, o di Rousseau filosofo.

Frontespizio Quevedo
Frontespizio Rousseau

Ma Goya ci impone una diversa lettura, autobiografica, introspettiva: immagine di sé, pubblica e privata, storia della propria malattia e della propria cura.

Capricho 1
L’artista di profilo, abbigliato con i moderni segni della propria raggiunta autorità. È l’immagine del proprio apparire pubblico, maschera che nasconde il turbamento interiore. Altero, forse anche sdegnoso, ma preoccupato. Allo stesso tempo, l’artista fa di questo apparente sé stesso oggetto di satira.
Guarda di sbieco, in basso. Alla luce delle immagini successive, del tutto differenti, non può non notarsi il contrasto, la distanza: l’artista osserva dall’esterno il suo stesso mondo interiore. Ricordiamo che Goya, prima di fissare il titolo in Caprichos, aveva pensato a Sueños.

Francisco Goya y Lucientes Pintor, Autoritratto, Capricho 1

Lavori preparatori e versione finale del Capricho 43
L’immagine centrale dei Caprichos, lontanissima dall’immagine pubblica, riguarda coraggiosamente, spudoratamente, l’artista più intimo e segreto. Si arriva a questa immagine attraverso due passaggi.

Primo disegno preparatorio 1796-1797

Nel disegno preparatorio 1796-1797 l’immagine di sé ritratta di fronte, preoccupata, si scompone, si trasforma in teschio, in maschera delirante, fino a piegarsi in stato di abbandono, testa abbattuta, appoggiata sulla superficie del tavolo. Davanti al volto sono appoggiate sul tavolo le dita intrecciate, in tensione. Segni circondano a raggiera la testa: energia concentrata.
La genialità della rappresentazione sta nello sdoppiamento della figura. Sdoppiamento dell’apparenza, in realtà, che parla della profonda natura del Sé. C’è il modo in cui appariamo, ma la sincerità nel ritrarsi lascia vedere l’immagine interiore di noi stessi. Osserviamo lo sdoppiamento della figura: Goya sorveglia sé stesso schiacciato dalla dolorosa presenza della malattia. Si osserva come è, in preda a una forza che opprime, lontano dall’essere come vorrebbe.
L’adulto, nella sua solitudine, ha bisogno di una guida. Ma la maturità sta nel non appellarsi ad altre figure: l’adulto è lui stesso la guida di sé stesso; costruisce sé stesso riflettendo sulla propria esperienza.
C’è il Goya prostrato nel sonno, e c’è il Goya adulto, il Goya come vorrebbe, come potrebbe essere, che magnanimamente osserva. Le immagini del Sé si riassumono, si fanno una, solo nel sogno.
Sullo sfondo, alle spalle, nel buio, a sinistra, un sinistro pipistrello.

Secondo disegno preparatorio, con scritta ydioma universal.

Il secondo disegno preparatorio è meno drammatico: si fa evidente il cedimento al sonno, le mani sovrapposte sostengono la fronte. Goya appare in stato di abbandono, in qualche modo riposa.
Lo spazio che nel primo disegno è occupato dal Goya che osserva è qui lasciato vuoto. Come in segno di provvisorietà, attesa, incompiutezza. L’unico Goya che appare dorme e sogna.
Dietro si affollano ombre scure e incombe in modo più evidente il pipistrello. Appaiono gufi, uccelli notturni.
E la lince. Goya conosceva bene, e usava, l’Iconologia di Cesare Ripa. Ripa descrive così la lince: «una vista sommamente acuta ed in ciò superante qualunque altro animale», che «esprime acutezza dell’occhio intellettuale», acutezza che si estende «per ovunque possa il pensiero trascorrere».
Il lato anteriore del tavolo è ora un supporto destinato ad accogliere un testo scritto.
Goya usa con grande libertà e originalità, insieme, il linguaggio delle immagini e la scrittura alfabetica.
A differenza degli altri Caprichos qui le parole scritte non sono un titolo, esterno, ma una componente essenziale dell’opera grafica, interna ad essa. Goya riempie, per ora, lo spazio vuoto con annotazioni tracciate con lapis.

Capricho 43

La terza versione, la finale, è ovviamente più rifinita. Ma resta evidente, nel precisarsi della scena, il filo che la lega alle due precedenti versioni.
La testa reclinata è abbandonata nel sonno. È un sonno popolato da sogni. Sogni popolati da mostri.
Lo spazio aereo dal quale l’autore nelle versioni precedenti osservava sé stesso è ora perso, annullato nella scura notte. Intorno al corpo reclinato svolazzano incombenti uccelli notturni, più in alto pipistrelli. In basso a destra, ai piedi dell’artista dormiente, lo sguardo della lince è sempre più acuto. Sguardo della fantasia, come dice Ripa: greco faino, mostrarsi, luce che buca le tenebre, facoltà della mente umana di creare immagini, insomma, sogno che genera mostri.
L’artista non toglie nulla al dramma, ma cerca la simmetria, l’ordinata convergenza di segni: lo sguardo della lince, al quale si accompagnano gli sguardi degli uccelli – che via via che li si osserva appaiono sempre più simili allo sguardo della lince.
Il capo reclinato rimanda al testo sottostante. La nostra attenzione è indirizzata su un testo, segni alfabetici, parole. Una frase incisa nel cuore dell’opera.
Nell’evolversi della scena, nelle tre messe in scena dell’immagine, evolve e si precisa lo spazio destinato ad accogliere la frase scritta. All’inizio è una intelaiatura che lascia vedere fogli, libri, alla fine è una sorta di tela, di sfondo teatrale, necessario per mettere in primo piano le parole, facendole risaltare come controcanto dell’immagine.
Il commento più importante, personale e determinante all’opera di Goya, l’ha scritto lo stesso Goya. È scritto sotto tutti quei fogli abbandonati sul tavolo, sotto il pennello e gli strumenti per l’incisione.
Così si mostra il pensiero di Goya. La testa pensante si è svuotata, forse ora l’artista può dormire.

NON “SONNO” MA “SOGNO”

I titoli di Quevedo, Calderón de la Barca, come quello di Goya, sono giocati attorno alla parola sueño. A nessuno verrebbe in mente di tradurre in italiano il titolo di Quevedo Sonni; e il titolo di Calderón de la Barca La vita è sonno. Già solo l’immaginare simili titoli provoca fastidio. E invece sembra impossibile schiodare il titolo di Goya dal suo riferimento al sonno.
Nella lingua spagnola la parola sueño sta sia per sonno, sia per sogno; sia per sommeil, sia per songe; sia per Schlaf, sia per Traum, sia per sleep, sia per dream. Ci si dovrebbe quanto meno interrogare sull’ambiguità. Invece, non solo in italiano, si sceglie, senza interrogarsi, di tradurre sonno: Le sommeil de la raison engendre des monstres, Der Schlaf der Vernunft gebiert Ungeheuer, The Sleep of Reason Produces Monsters.
La letteratura spagnola, come abbiamo visto, ci parla di peregrinare nelle tenebre, di scura notte infiammata da ansia e amore, ci parla di illusioni, ombre, di sogno ininterrotto, di speranze andate in fumo, di cui resta traccia solo nei sogni. E noi ci accaniamo a leggere piattamente, elusivamente: sonno della ragione.
E le immagini ci parlano. La testa ripiegata, l’atteggiamento dell’intero corpo, non ci parlano di un sonno riparatore. Goya non sta solo dormendo, sta sognando. Goya ci sta parlando del suo sognare.
Per confermare fuor di ogni dubbio questa lettura, vale la pena di soffermarci innanzitutto a un primo livello, puramente linguistico. Si può quindi subito dire che le parole che Goya non solo propone come titolo, ma incide con la sua mano nel cuore della sua opera, vanno lette alla luce del puro significato della parola sueño.
Se è prevalsa la lettura del titolo errata, uno dei motivi sta nel fatto che gli studiosi che si sono dedicati all’opera appartengono alla famiglia professionale dei critici d’arte. Al critico d’arte si richiede magari competenza nello studiare i titoli delle opere come testi letterari – non di rado, come in questo caso, i titoli sono capolavori in sé –, ma non la competenza del filologo, del lessicografo o dello storico della lingua.
Eppure si può dire che nel caso specifico lo studio del senso della parola usata da Goya non presenta difficoltà. Lo spagnolo è lingua precisissima, già regolata da dizionari e grammatiche dalla fine del 1400. La Real Academia Española, fondata nel 1713, pubblica tra il 1726 e il 1739, i sei volumi del Diccionario de la lengua castellana, noto come Diccionario de Autoridades.


Diccionario de Autoridades

Si legge sulle copertine che nel dizionario «se explica el verdadero sentido de las voces, su naturaleza y calidad, con las phrases o modos de hablar, los proverbios o refranes, y otras cosas convenientes al uso de la lengua», «si spiega il vero significato delle voci, la loro natura e qualità, con frasi o modi di parlare, proverbi o detti, e altre cose convenienti all’uso della lingua».
Il Diccionario attesta chiaramente che nello spagnolo di allora, come nella lingua di oggi, sueño sta sia per sonno che per sogno. «El acto de dormir. Significa tambien el sucesso, ò especies, que en sueños se representan en la imaginacion». «L’atto di dormire. Significa anche quello che succede durante il sonno, o le cose che nel sonno appaiono nell’immaginazione».
Ma l’ambiguità, nello spagnolo di ieri e di oggi, si scioglie nei verbi. Leggiamo ancora nel Diccionario de Autoridades: Dormir: «Tomar reposo y descansar […] para recobrar las fuerzas, agotadas por la vigilia o el cansáncio». «Prendere riposo e riposare […] per recuperare le forze consumate dalla veglia o dalla stanchezza». Soñar: «Revolver en la phantasía alguna especie, durmiendo», «Agitare nella fantasia qualcosa, dormendo».
L’immagine di sé che l’artista pone sotto i nostri occhi non è semplicemente l’immagine di Goya durmiendo, è invece l’immagine di Goya soñando. Non c’è spazio per equivoci: lo scrive lui stesso, sul secondo disegno preparatorio.
Leggiamo.

Secondo disegno preparatorio, dettaglio

Goya non scrive «El autor durmiendo», scrive: «El autor soñando». Dunque è certo che Goya vuole dirci: il sogno della ragione produce mostri.

IDIOMA UNIVERSALE

Allusioni e impliciti occhieggiano in questa nota d’autore.
«Ydioma universal. Dibujado y Grabado por Fco. de Goya, año 1797». «Idioma universale. Disegnato e inciso da Francisco de Goya, anno 1797». Linguaggio delle immagini, idioma universale, che riesce a parlare di ciò che le rigide parole scritte con i segni degli alfabeti occidentali non sa dirci. Anche a proposito dell’umano sognare.
E aggiunge Goya, specchiandosi nell’immagine di sé intento a sognare: «Su yntento solo es desterrar bulgaridades perjudiciales, y perpetuar con esta obra de caprichos, el testimonio solido de la verdad». «Il suo solo intento è bandire volgarità pregiudizievoli, e perpetuare con questa opera di caprichos, la testimonianza solida della verità».
Caprichos è il titolo della raccolta di incisioni. Titolo sul quale si è ricamato e divagato in vario modo, senza badare abbastanza al fatto che il significato del capricho è perfettamente spiegato nel Diccionario de Autoridades. «Dictamen formado de idea, y por lo general fuera de las reglas ordinárias y comúnes». Dictanmen è «Opinión, juício particular, o sentir próprio de uno o muchos sobre alguna cosa». Idea è «figura, imagen de algún objeto, representación que se forma en la phantasía».
Nel Diccionario possiamo leggere ancora che il capricho «en la Pintúra vale lo mismo que Concepto». Capricho, especie, concepto, idea: tutti sinonimi di imagen, immagine, ci dice il Diccionario. Immagini che appaiono in mente se accettiamo di non farci condizionare da regole ordinarie e comuni; se non cediamo ai luoghi comuni.
Il linguaggio delle immagini ci porta oltre la soglia dove le parole non bastano. Le parole non riescono a dirci che non solo Goya è immerso nel sonno, ma sta sognando. L’immagine che mostra Goya che sogna mostri è invece inequivocabile.
Per questo suo sognare, e per la sua singolare capacità di raccontare i suoi sogni, Goya è hombre de capricho. Così può definirsi, ci dice il Diccionario, «el que tiene agudeza para formar idéas singulares, y con novedad, que tengan feliz éxito. Y tambien se toma por el que es temoso, porfiado y duro en sus idéas y resoluciones». «Chi ha l’acume e la sottigliezza per formare idee singolari, nuove, efficaci. Ed è tenace e di fermi propositi, duro nelle sue idee e risoluzioni».
Uomo stravagante e originale, eccentrico. Goya mostra come dovremmo o potremmo essere. Lontani dai luoghi comuni e dalle regole deresponsabilizzanti, cercatori di verità. Lo spagnolo capricho deriva dall’italiano capriccio, che significa semplicemente: capa riccia, testa riccioluta. Simbolico riferimento, appunto, a un carattere fantasioso, vitale, stravagante, ma non facile da dipanare.

IL SOGNO DELLA RAGIONE PRODUCE MOSTRI

Vale la pena di ricorrere ancora al Diccionario de Autoridades, par avvinarci al modo in cui Goya poteva intendere la razón, ragione.
La verdad, verità, è «conformità di una cosa con la ragione», «in tal modo che persuade e convince a crederla certa e infallibile». La razón come orden y méthodo, la ragione come cómputo, cuenta o número. La razón racional. Ma più puramente e semplicemente la razón, ci dice il Diccionario, è potencia intelectíva, acto del entendimiento, expressión, voz o palabra que explica el concepto, latino Verbum.
Oltre il Verbum, la parola, le parole, il linguaggio delle immagini, idioma universale, apre la strada all’interpretazione. Illumina le tenebre.
Torniamo a guardare l’immagine. Non vi vediamo pericolose conseguenze del sonno della ragione. Vediamo Goya prostrato sotto il peso di sogni angosciosi. La sua angoscia nasce dal timore delle pericolose conseguenze del trionfo della ragione. Goya vede la minaccia: il sogno, che andava crescendo nei giorni in cui il Diciottesimo Secolo volgeva al termine, di una ragione infallibile, implacabile, alla quale l’essere umano deve soggiacere. Ragione come ordine o metodo. Ragione che sta nel calcolo, nella logica, della matematica. Ragione Illuministica. Ragione scientifica e tecnica. Ragione di Stato. Ragione che nella Rivoluzione si trasforma in Terrore.
Il sogno di una ragione alla quale affidare la propria salvezza, la propria salute, la Salute Pubblica: questo Goya ci invita a esecrare e ad evitare. La Ragione, nuova religione, regola esterna, superiore, esatta, indiscutibile, in mano a sacerdoti, scienziati, tecnici, guardiani che riducono i cittadini a sudditi, è mostruosa.
La Ragione che l’essere umano è chiamato ad accettare passivamente, è un sogno elusivo, illusorio, deresponsabilizzante: genera mostri.
Ma l’essere umano cura sé stesso: attraversa le tenebre sapendo che potrà trovare la luce. L’intento dell’artista è mettere alla berlina queste pregiudizievoli volgarità. Per questo Goya usa il linguaggio delle immagini: se non bastava la parola di Juan de la Cruz, di Góngora, di Gracián, di Cervantes, di Calderón de la Barca, di Quevedo, di Luís de León, ecco le immagini di Goya, dove le parole sono fuse nell’immagine visiva.
A differenza dell’autorità che vuole costringere il cittadino alla ragione, Goya non insegna, non impone, ma mostra. Mostra sé stesso alle prese con i propri mostri. Si denuda. Usa la sua arte per curare sé stesso. Mostrandoci così come curarci. Possiamo risvegliarci con lui dopo aver sognato mostri. La forza inconscia che si manifesta nel sogno può trasformarsi nella nostra potenza, nella veglia.