Pier Paolo Pasolini
La lunga strada d’estate dove finisce l’Italia felice

© Paolo Di Paolo, Sorrento, 1959 (Archivio fotografico Paolo Di Paolo)

Sulle povere voci, sulla povera spiaggetta, il temporale getta un’ombra leggera, biancastra.
Qui finisce l’Italia, finisce l’estate.
(Pier Paolo Pasolini in “La lunga strada di sabbia” parte terza, Successo, 5 settembre 1959)

Sono queste le parole conclusive del diario di bordo tenuto da Pier Paolo Pasolini, tra il giugno e l’agosto 1959, quando, al volante di una Fiat 1100, l’autore corsaro e luterano “pedina”, per dirla alla Zavattini, i tempi, le “creature” e i luoghi, che stavano irrimediabilmente cambiando per entrare trionfalmente nella modernità. Pasolini percorre migliaia di chilometri partendo dal confine con la Francia per poi spingersi fino al comune siciliano più a sud, dove fa il bagno nella «più povera e lontana spiaggia d’Italia». Risale fino a Trieste, precisamente fino alla spiaggetta del Lazzaretto, luogo di resurrezione evangelica o di morte, dove, appunto, «finisce l’estate» tra «povere voci» che si stemperano come la bellezza con l’avanzare del cemento.

© Paolo Di Paolo, Pier Paolo Pasolini sulla spiaggia del Cinquale, in Versilia, 1959
(Archivio fotografico Paolo Di Paolo)
© Paolo Di Paolo, Forte dei Marmi, 1959 (Archivio fotografico Paolo Di Paolo)

Questo reportage gli viene commissionato dalla rivista Successo e, corredato dalle fotografie di Paolo Di Paolo, sarà una sorta di cartografia sentimentale di un’Italia in mutamento, sulla scia de Un paese di Cesare Zavattini e Paul Strand (1955) o del successivo e celeberrimo lavoro a più mani Viaggio in Italia (1984). Come è noto, Pasolini ricerca spasmodicamente quel terzo mondo ancora intatto, puro, quelle campagne tremende e sensuali, le borgate violente perché umanamente vere, viaggia in Africa con Dacia Maraini, in India, il cui “odore” verrà raccontato in compagnia di Alberto Moravia e Elsa Morante. È assetato di quelle terre non ancora corrose dall’omologazione culturale, da quel famoso “genocidio”, a cui l’Italia post bellica era ormai condannata dall’intrusività sempre più ossessiva dei mass media e della civiltà dei consumi con le sue “distorsioni”.  Nel 1959, Pasolini è un intellettuale scomodamente affermatosi: ha appena pubblicato Una vita violenta e Ragazzi di vita (1955) – per cui fu processato per oscenità e assolto grazie anche all’engagement di altri scrittori – e ha ricevuto il premio Viareggio con la raccolta Le ceneri di Gramsci del 1957. Sempre nel 1957, ha collaborato alla sceneggiatura del film Le notti di Cabiria dove Fellini “pedinerà” una prostituta, una “creatura” per dirla alla Auerbach, il cui fondamentale Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale era stato oggetto di profonda riflessione da parte del regista di Accattone. Pasolini, dunque, “assetato di notizie”, segue se stesso sdoppiandosi, scrive di sé, del suo viaggio, della sua “avventura” che diventa censimento e testimonianza di un mondo che sta scomparendo fiocamente come “le lucciole” del suo famoso articolo del 1975. Lungi da eccessive riflessioni sociologiche e antropologiche, il Pasolini de La lunga strada di sabbia è un fanciullino felice, quasi speranzoso, la cui scrittura è lineare, colta sul vivo del farsi e arricchita da echi e metafore pascoliane, come al suo arrivo a Ostia, quando viene accolto da «un temporale blu come la morte». È una ricerca del puro, di luoghi dove ancora «biancheggiano i marinai», dove la gente «della propria umiltà fa […] una specie di vanitosa leggenda» che stride terribilmente con gli enormi templi «del Dio della Grande Borghesia», ovvero quei complessi residenziali, sale da gioco, lungomari, dove ormai latitano ragazzi «liberi e felici» e migliaia di borghesi «tolgono il respiro». Paesaggi diventati insopportabili cartoline per quei «turisti sacrileghi» che invadono, per esempio, Capri, primi precursori di un turismo di massa che cambierà per sempre il volto del paesaggio italiano.

© Paolo Di Paolo, Bagnanti al lido di Coroglio, Pozzuoli, 1959 (Archivio fotografico Paolo Di Paolo)
© Paolo Di Paolo, Famiglia sul carretto a Vieste, 1959 (Archivio fotografico Paolo Di Paolo)

Ma Pasolini quell’eden tanto atteso lo trova nel profondo e dimenticato Sud, ignorato dalle magnifiche sorti e progressive e dove Cristo ancora per poco si è fermato; dove ci sono i «banditi», i «fuori dalla legge», «l’esercito dei poveri pidocchi», icastica metafora della condizione esistenziale dei parassiti fuori dalla Storia. Ma, lasciata la Sicilia, la Calabria e i picchi sul mare del selvaggio Gargano, città dopo città, dopo un’ascesa negli inferi dei dimenticati, risale verso il settentrione, verso il Centro. A San Benedetto del Tronto, lascia definitivamente questo meridione «cafarnao sterminato […] brulichio di miseri, di ladri, di affamati, di sensuali, pura e oscura riserva di vita». Supera gli Abruzzi, le Marche, l’Emilia Romagna, approdando al confine tra il Veneto e il suo Friuli, dove non riconosce più nulla, dove afferma di essere «in terra straniera» a causa del progresso che tutto ha cambiato, che tutto ha distrutto e omologato, sancendo la fine dell’estate, metafora di una felice età dell’oro definitivamente tramontata. Come spesso accade in Pasolini, anche questo è un testo profetico. Oggi, infatti, per grandissima parte del territorio italiano, i luoghi dei giovanili ricordi sono ormai una terra straniera dove ci si affatica per ritrovare appigli sentimentali e memoriali da innestare nel presente, per dargli/darci senso e slancio affettivo, per sentirsi “periferici” e trovare la giusta meraviglia per iniziare a filosofare. Per iniziare a pensare. Tremenda e inascoltata attualità del pensiero pasoliniano.

© Paolo di Paolo, La prima volta al mare, Rimini, 1959. (Archivio fotografico Paolo Di Paolo)

La ricerca febbrile del puro, dell’altro, oggi diviene anch’essa oggetto di mercificazione per turisti sedotti da un marketing narrativo e d’immagini promettenti un’alterità in realtà artefatta, svuotata del “sacro”, studiata: gioiosamente istituita per rendere più dolce lo spendere, senza spaesare il forestiero. E il paesaggio originario, selvaggio, la sua anima, il genius loci, vengono rimodellati in funzione della richiesta del turista-re, delle sue aspettative esotiche, tramite una disneylandizzazione e folklorizzazione di luoghi e culture che devono acculturarsi per sedersi al banchetto della civiltà dei consumi e partecipare alla edonistica e superficiale joie de vivre del vacanziere. Percezione gioiosa di-sé-in-vacanza e attributo fondamentale della filosofia del presentismo dove l’ontologica e fondativa mancanza d’essere viene colmata illusoriamente da acquisti compulsivi, rassicuranti. In una estate dove il viaggio non è più scoperta, non è più ricerca affannosa dell’incerto e del sorprendente, non è più occasione di slancio vitale e di feconda destabilizzazione, ma validazione di panorami già visti su internet da riprodurre poi all’infinito in immagini, quasi a voler provare la veridicità dell’acquistato in rete dove il comprare implica il suo possesso e la comprensione della sua ragion d’essere. In una estate dove tutto è uguale, dove la temporalità è sospesa, e dove, come dirà Pasolini rivolgendosi idealmente agli Argonauti, «nessuno mai potrà più viaggiare come avete fatto voi» (cioè a gettare fondamenta di sogno per ulteriori viaggi realistici).

Pier Paolo Pasolini, La lunga strada di sabbia. Guanda editore, 2017