Interpretazioni in cerca di un senso

© Marta Dell’Angelo, TARARA - 9 luglio 2017 Moint Aragats, 2017. Video, colore, suono, 5’52’’. Courtesy artista

Per quanto l’uomo cerchi di penetrare il cuore della Natura, spesso definita semplicisticamente “ambiente” o “paesaggio” a seconda dei contesti, la sua relazione con essa appare sempre troppo ragionata. Ovverossia: non si riesce proprio ad affrancarsi dal pensiero intellettuale e a mettersi sullo stesso piano del mondo naturale, ove “natura” non è da intendersi come concetto filosofico derivante da meditazioni più o meno spirituali, ma corrisponde a un “esserci” al pari di una pianta o di una roccia.
Nelle sue trattazioni sul tempo, Martin Heidegger parla del “tempo della natura” come di un tempo che non necessariamente scorre bensì di un tempo che “resta”. Nelle strutture fondamentali enunciate dal filosofo tedesco sull’esserci nel tempo vi è l’assunzione di un essere-nel-mondo dell’uomo che si attua in prevalenza nel parlare, cioè: formulare pensieri.
Dunque come può l’essere umano avere con la Natura una relazione paritetica, pur essendone egli comunque parte, quanto meno biologicamente, se possiede la parola parlata che la Natura non ha?

La mostra in corso fino all’11 settembre presso il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano – Take Me To The Place I Love – dimostra ampiamente questo affanno dell’uomo nel voler trovare un senso di appartenenza alla Natura che non riesce ad ottenere e non solo per il distacco da essa avvenuta a causa del suo sviluppo (non necessariamente industriale o tecnologico). Il distacco è avvenuto nel momento in cui l’essere umano ha capito quanto fosse utile e determinante per il suo vivere l’uso della parola e del pensiero. Da qui in avanti l’uomo non ha più fatto parte del naturale, inteso come esistenza compiuta e unitaria del mondo, ma ne ha assunto il comando.

Guardandola da questa prospettiva la mostra del PAC è per certi versi concettualmente inutile. In che modo? Nella misura in cui gli artisti pretendono di stabilire un contatto, qualsiasi forma esso abbia, con l’ambiente naturale. Il concetto stesso insito nel titolo – portami nel posto che amo – ne è la dimostrazione. L’uomo può infatti amare un luogo in particolare che rappresenta la propria fusione con il creato ma è, giustappunto, una rappresentazione, tanto che l’artista sente la necessità di documentarlo attraverso l’opera.

I lavori esposti appaiono quindi come tentativi di riportare le cose a un equilibrio di sensi (e di senso) nell’esistere del mondo naturale che contempli “anche” la presenza umana. Si parla spesso di rapporto uomo-natura e del suo equilibrio, ma l’uomo è parte integrante della natura! e quindi, cosa significherebbe il concetto “ritrovare l’equilibrio”? Assolutamente nulla. In realtà la relazione appare quantomeno duplice. Da un lato vi è la contemplazione dei luoghi naturali i quali si rivelano in modo quasi intellegibile allo sguardo umano, dall’altro l’interazione con essi che sempre, ormai, equivale al loro sfruttamento.

Questi sono i due principali filoni sui quali si basa l’impianto pressoché totale dell’esposizione in corso, ancora per pochi giorni, al PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano). Entrambi però non parlano “dell’appartenenza” dell’uomo alla Natura ma, come si è detto, del suo rapporto con essa. «Gli artisti invitati al PAC – si dice nella presentazione della mostra – raccontano o ritraggono un luogo reale, metaforico, metafisico o immaginario tra fascinazioni, introspezioni e affondi critici, declinando in termini anche molto diversi la propria poetica, che riguarda temi come l’immersione nella natura, la memoria e le mitologie dei luoghi, il rapporto dell’uomo con l’ambiente, il clima e la politica». Quasi tutti gli autori – Dorothy Cross, Lara Almarcegui, Marta Dell’Angelo, Ettore Favini e Antonio Rovaldi, Flatform, Richard Long, Francesco Simeti, Melanie Smith, Ilaria Abbiento – hanno prodotto dei video, pratica che evidentemente più di ogni altra riproduce una realtà stabilita dall’autore stesso.
Provo allora a ragionare su alcuni dei lavori presentati, a mio parere i più significativi e al tempo stesso i più controversi.

In Tarara, di Marta dell’Angelo, in collaborazione con l’artista armena Gohar Martirosyan, la macchina da presa riprende due individui mentre camminano su un terreno impervio e misto: sassi, erba, neve. Scopriamo che si tratta del terreno corrispondente al monte Aragats, seconda cima, per importanza, dell’Armenia dopo il ben più noto monte Ararat. La suggestione biblica emanata dal luogo si manifesta nella performance non solo per le reminiscenze religiose e politiche legate a questi posti ma anche per un espediente utilizzato che rende il cammino ancor più “spirituale”, vale a dire il rito precristiano del monosandalismo dove un piede del pellegrino rimane scalzo mentre l’altro è protetto dal sandalo. Simbolicamente il piede nudo comunica la connessione con gli inferi e dunque, supponiamo, l’inconfutabile mortalità dell’uomo nonché l’assunzione di tale certezza di mortalità. Quello che calza il sandalo, viceversa, sviluppa la protezione da esso e quindi un’idea, a mio avviso, di “separazione” da tale mondo. Si tratta di una dualità che manifesta la natura intellettuale dell’uomo: scoprirsi mai completamente e al tempo stesso proteggersi, una debolezza che non accetta di subire le eventuali conseguenze di essere nel mondo naturale e non unicamente di contemplarlo. Qual è la relazione che si instaura qui? Sembrerebbe il “contatto” con il suolo che, a detta di chi scrive le note della mostra, dovrebbe addirittura «trasformare la superficie della montagna modellandola come una sorta di scultura».

© Lara Almarcegui, Gravera, 2021. Video digitale, colore, suono, 10’15’’. Courtesy l’artista e Mor Charpentier

Nel lavoro di Lara Almarcegui, Gravera (2021), vi è una pura osservazione, quasi metafisica, che dovrebbe innescare un meccanismo capace di agire sulla coscienza politica dell’individuo. Il video, girato all’interno di una cava di ghiaia in un complesso industriale nei pressi del sito Plana del Corb(Spagna), alle pendici della catena montuosa dei Pirenei, mostra in realtà un luogo “deserto”, nel senso di assenza dell’uomo. Curioso come questo termine venga utilizzato per connotare un luogo dove l’unica presenza di cui si tiene conto per definirlo come tale è quella umana, come se tutto il resto non fosse vivo. Qui il territorio è evidentemente sottoposto a sfruttamento per esigenze di edificazione. I macchinari necessari all’estrazione della ghiaia appaiono come mostri inanimati che lo sovrastano ma che non riescono a deturpare la bellezza della materia. L’emblematico silenzio che si osserva ci pone in una condizione di colpa e al contempo ci “espelle” dal luogo stesso non tollerando alcuno sguardo. Qui, a mio avviso, l’intervento dell’autrice appare quasi sacrilego, come se non fosse già abbastanza grave essere “ferito” ma vi fosse una necessità tipicamente umana di voler “guardare” la sofferenza che, in questo lavoro, diviene altera.

© Ettore Favini e Antonio Rovaldi, To Say Nothing Of The Dog.
Video HD, colore, suono, 21’27’’. Courtesy degli artisti

Nella “relazione uomo-natura” non può mancare il rapporto con l’acqua. Gli artisti Ettore Favini e Antonio Rovaldi hanno calato una piccola imbarcazione, tutto sommato abbastanza “di fortuna”, sulla superfice irruente del fiume Po. To say nothin of the dog per lo spazio della narrazione visuale (21’27’’, 2014-2018) ridisegna il famoso rapporto uomo-natura in termini un po’ più equilibrati. Anche se è il fiume a farla da padrone, l’equilibrio qui sta nel non tentare di sopraffarlo. In agguato oltre all’irruenza dell’acqua mai totalmente sicura, vi è la possibilità per certi versi leggendaria di incontrare il “pesce siluro” che, nelle parole di un giovane pescatore, può arrivare ad essere lungo fino a 200 metri! Del resto la leggenda, si sa, è mistero, è credenza popolare ancora sacra e quindi giustamente temuta. Il fiume può togliere molto di più di quel che può dare, può togliere la vita. I mulinelli che si formano in alcuni punti della superficie “assorbono attanagliando”, risucchiando, come bocca vorace, tutto ciò che incontrano in un fondo senza scampo, giù in quegli inferi in cui troneggia il pesce siluro. In questa visione che gli autori restituiscono del loro “viaggio” l’uomo teme il fiume e i sui abitanti profondi, non cerca di sovrastarlo in alcun modo e chiunque abbia tentato di sfidarlo lo ha fatto sempre consapevole di poter soccombere alla sua forza. Questa è l’acqua. Qui gli autori, forse nell’unico caso in mostra, non intellettualizzano il rapporto uomo-natura ma cercano di riportare le cose “al loro posto”, come in una sorta di ordine divino.

© Richard Long, Warli Spiral, 2004. Installazione ambientale composta da sanpietrini
In porfido del Trentino, dimensioni variabili. Courtesy Museo del Novecento, Milano. PH Claudia Capelli

“Pietre e mosche”. Un uomo immagina una linea circolare, come un cammino che vive di vita propria, e pietre, quasi tombali, che la coprono. Ne nasce una scultura. Le mosche sono quelle che si posano sul volto dell’artista mentre viene ripreso durante il suo percorso randagio (ma non troppo) per il mondo, in cerca del “luogo amato”, motivo che lo spinge a errare e a costruire le sue performance artistiche di land art. Richard Long è in qualche modo la matassa da cui si dipana il filo del racconto di questa mostra. Una matassa che ha origine circa vent’anni fa da una esposizione dell’artista inglese – Jivya Soma Mashe. Un incontro in India – svoltasi proprio al PAC. 

“Dormire e camminare. Dormire e camminare” dice l’artista nel video esposto, come una sorta di mantra, come unica attività possibile per giungere a un totale annullamento all’interno del territorio attraversato. Un annullamento che lascia però tracce (come è giusto che sia, come accade per ogni animale che si trovi a passare di lì). Non sappiamo quale durata avranno queste tracce. Se non fosse per la documentazione filmata e fotografata dall’autore stesso, potremmo dire abbastanza breve (come è giusto che sia, perché le tracce di un animale non rimangono in un luogo in eterno).

Il cerchio (di pietre) è l’unico elemento che “resta”, lo troviamo riprodotto sul pavimento del PAC. È imprescindibile. Il cerchio deve essere visibile, è la traccia. 

In conclusione, “portami nel posto che amo” equivale alla necessità di mostrare la propria idea di relazione con il mondo naturale che non tiene però conto di ciò che questo mondo vuole. Le relazioni non sono mai univoche e la realtà vera è che il problema di rapportarsi ai luoghi naturali è, invece, esclusivamente univoco, interessa soltanto all’uomo (non interessa alla Natura) che da tempo si è auto-estromesso dal contesto del mondo, auto-negandosi la relazione. Si tratta solo di concetti, estranei all’ambiente. Di interpretazioni in cerca di un senso.

La mostra Take Me To The Place I Love è ancora visitabile fino all’11 settembre 2022, presso il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano.