La cura del sogno
Tra realtà e immaginario

Rêver sous le capitalisme, un film di Sophie Bruneau, Belgio, 2017

 

Durante il sonno tutta quell’azione, primigenio trascendere della vita,
diminuisce lasciando apparire, come un mare che si ritira dalla spiaggia,
i corpi degli esseri vivi in abbandono, più corporei che mai.
Maria Zambrano

Se si sogna da soli, è solo un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia.
Proverbio africano

Un film non è un sogno che si racconta, ma un sogno che stiamo sognando tutti insieme.
Jean Cocteau

Rever sous le capitalism – “I sogni del capitalismo” nella versione italiana – è un documentario realizzato nel 2017 da Sophie Bruneau e trasmesso in chiaro, lo scorso inverno, da Arte Tv. La sua autrice, una antropologa di formazione di origine belga, ha al suo attivo, da sola o in coppia con Marc-Antoin Roudil, numerosi documentari su temi ecologici, o sociali, spesso relativi al mondo del lavoro e alle sue sofferenze. Ma con questo film si è spinta più in là. Per mettere a fuoco la perdita di ‘senso’ del lavoro oggi, la regista ha raccolto i sogni di alcuni lavoratori e lavoratrici.  I sogni raccontano storie esemplari dell’attuale nuova era del capitalismo, quel Surveillance Capitalismche controlla e soprattutto influenza i comportamenti individuali e sociali, anche ovviamente nell’ambito lavorativo (non più confinato ai ‘luoghi di lavoro’, ma divenuto ormai uno spazio ubiquo), dove monitora soprattutto la produttività e l’efficienza delle risorse (umane e non). Sui titoli di coda e poi in una intervista sul film, la Bruneau aveva ammesso di aver tratto ispirazione da Il Terzo Reich dei sogni, opera seminale della giornalista tedesca di origine ebraica Charlotte Beradt. Un libro che ciclicamente riemerge e fa risuonare un grido d’allarme che, oltre che riferito alla immane tragedia del nazismo, è in realtà universale e senza tempo rispetto alle angosce di individui e popoli di fronte ai totalitarismi della Storia.

Sogni sotto dittatura

Tra il 1933 e il 1939 (anno in cui sarebbe riuscita a espatriare, a Londra e l’anno successivo a New York) la Beradt aveva scandagliato l’inconscio di circa 300 tedeschi, raccogliendo come testimonianze ‘a futura memoria’ i loro sogni, in realtà incubi spaventosi. I racconti onirici restituiscono a pieno il senso di continua minaccia, reale o incombente, e la progressiva spersonalizzazione imposta agli individui dalla dittatura nazista.  Dopo alcune anticipazioni apparse nel 1943, in pieno conflitto mondiale, su una rivista statunitense, l’edizione integrale dell’opera avrebbe visto le stampe solo nel 1966. Al montaggio dei sogni e alla loro trama collettiva sarebbe stato riconosciuto il valore di fonte storiografica, assimilata alla categoria documentale dei testi di invenzione. Anche se per l’autrice i materiali più interessanti tra quelli raccolti risalgono alle fasi iniziali del regime, questi sogni non hanno solo una valenza premonitoria. Non si limitano a presagire, ad avvisare del pericolo o a rivelare minacce future, descrivono piuttosto con precisione i processi volti al dominio totale sugli individui, come singoli e al tempo stesso come massa: “…sono una testimonianza del terrore, ma rappresentano al contempo, gli strumenti esecutivi di quello stesso terrore. Non solo si sogna il terrore: i sogni ne sono essi stessi parte integrante. Vengono impressi nel corpo come un dettato” (Reinhart Koselleck, nella prefazione del libro).
I sogni del Terzo Reich pre-dicono e pre-vedono la realtà a venire, ma non sono profezie o vaticini, elaborano pronostici basati su dati di realtà. Dati, e soprattutto fatti, rimossi nelle ore di veglia, ma che riaffioravano di notte, quando, sole nel letto, le persone si concedevano di raccoglierli (non senza sensi di colpa, al risveglio e persino dentro i sogni, consapevoli di infrangere simbolicamente quel ‘divieto di sognare’ che è immagine e topos ricorrente nella raccolta).

Charlotte Beradt, 1968 – Museum of Dreams

Parecchi anni dopo, agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, il libro della Beradt avrebbe fortemente ispirato lo psicosocioanalista inglese Gordon Lawrence del Tavistock Institute of Human Relations di Londra nell’elaborazione del metodo del Social Dreaming (sognare sociale). Attraverso di esso, i sogni personali vengono condivisi con altre persone, già conosciute oppure completamente estranee, all’interno della matrice (da matrix, grembo, utero): il contenitore spazio-temporale che accoglie i sogni offerti dai partecipanti, ma anche le loro “libere associazioni” e le “amplificazioni” che come diceva Lawrence, “espandono la narrazione, tracciando percorsi  paralleli al sogno ispirati dal cinema, dalla letteratura o da qualsiasi altro oggetto sociale o culturale.”

Il testo della Beradt – Meltemi
“Sorry, we missed you” (ovvero, incubi al lavoro)

Ma torniamo al film della Bruneau del 2017. Per raccontare i loro ‘sogni di lavoro’, la regista convoca 12 persone (7 donne e 5 uomini), impegnate a vari livelli di responsabilità in diversi settori economici del Belgio, del privato ma anche del pubblico. Alcune sono inquadrate in primo piano o in campo medio, il loro sguardo un po’ intimidito dall’occhio della camera. Più spesso sentiamo solo la loro voce fuori campo (spesso ancora esitante o turbata), mentre la camera indugia su piani, sempre fissi, di paesaggi urbani stranianti, vuoti di umanità o affollati da gruppi di persone solitarie. Ricorre di frequente, nelle diverse ore del giorno, la sagoma dalle vetrate trasparenti (l’architettura ostenta spesso la ‘trasparenza’ aziendale…) di un ufficio multi-piano dentro cui scorgiamo aggirarsi, anche a tarda ora, le ombre dei suoi abitanti.
I sogni narrati sono percorsi da una costante tensione, reale o latente, all’aggressività esercitata o subìta, ma anche all’autodistruzione. Se le vicende di ordinaria alienazione lavorativa del film sono assai meno cupe dei terribili racconti del libro della Beradt, è impressionante come molti meccanismi psicologici appaiano assai simili nel disegnare una deriva di isolamento e deprivazione affettiva e valoriale. Qui, come spesso avveniva nei sogni del Terzo Reich, la spoliazione della dignità umana avviene in primo luogo attraverso quella professionale.

Rêver sous le capitalisme, Trailer, di Sophie Bruneau, Belgio, 2017

Rievochiamo solo alcune di queste storie, in un crescendo drammatico che investe varie dimensioni sensoriali e simboliche: la cassiera del supermercato che sogna di continuo il tic tic dello scanner che legge i prodotti, la funzionaria pubblica nel cui ufficio avevano murato la finestra (non permettendole più di vedere uno spicchio di cielo), l’impiegata che portata in barella nell’infermeria aziendale scopre i colleghi “avvolti nelle bende, imbavagliati e ridotti al silenzio”, ma anche lei perde la voce mentre cerca di gridare aiuto, un’altra funzionaria più anziana a cui svuotano il cranio con dei cucchiai molto sottili e lunghissimi. Capi e colleghi, ovviamente, affollano i sogni, quasi sempre sotto forma di zombie, cadaveri, mummie, fantasmi, da cacciare via, magari stipandoli a badilate dentro gli ascensori. Si tratta spesso di sogni ricorrenti o che si cristallizzano, all’arrivo sul posto di lavoro, in spaventose ‘immagini fisse’. In un caso, un tecnico sogna di essere in una sorta di dormitorio, dove si può essere sempre svegliati e chiamati a interventi di lavoro. Quello che inizia come un “sogno lucido” (non solo sa di sognare, ma si accorge di essere non presso la sua azienda, ma dalla concorrenza), finisce quando lo svegliano e allora – così dice – “il lavoro mi ricade addosso”.

Il potere dei sogni (condivisi)

La pandemia con cui ci confrontiamo da circa un anno e mezzo ha indotto in ciascuno di noi risposte diverse e in molti casi opposte, rivelando potenzialità o fragilità latenti o nascoste. L’aumento dei livelli generali di incertezza e di precarietà, in particolare rispetto alla situazione economica e lavorativa, insieme alla evidente pressione psicologica di norme, raccomandazioni, divieti e limitazioni di diversa natura ha evocato in non pochi cittadini analogie (spesso, peraltro, ispirate da un malinteso senso della libertà individuale) con situazioni e dinamiche (anche del passato) di coercizione politica e/o securitaria.
Non a caso, dal febbraio 2020 (e non solo in Italia, crediamo), la metafora centrale, divenuta via via esclusiva, per definire la nuova condizione umana durante la pandemia, è stata quella… della guerra. Poche voci, per quanto autorevoli, si sono levate a contrastare questa deriva cognitiva, tanto strumentale e pericolosa quanto infondata, se non altro per una ovvia ma decisiva ragione: in una vera guerra conosciamo i nostri nemici, in una pandemia no (a cominciare, purtroppo, dagli stessi virologi…).
Ma più che le metafore belliche, di fronte ai traumi collettivi, forse possono aiutarci i sogni, specie se condivisi. In varie parti del mondo, abbiamo infatti assistito, alla riscoperta dell’antica ‘scienza dei sogni’ (da sempre al confine tra mito, religione, arte, filosofia, antropologia, psicologia), oltre a quella, assai più moderna, che esplora il sonno. Molti studi scientifici, clinici, psicoanalitici, oltre a vari reportage di “costume”, hanno ridato impulso a diverse iniziative di Dream Archiving, ‘raccolte di sogni’  (anche per via telematica): tra queste citiamo l’iniziativa “Guardians of Sleep” (così Freud aveva chiamato i sogni) avviata dal Museum of London insieme al canadese Museum of Dreams o, per l’Italia, la “dreamer community” di Sous la plage.

Su questa scia, si è registrato anche un rinnovato e ampio interesse per il Social Dreaming, metodo fondato, per definizione, sulla condivisione dei sogni tra persone in una relazione orizzontale e paritaria e in una dimensione non terapeutica ma che potremmo dire associativa e generatrice di “nuovo pensiero”.  Nei suoi primi 40 anni, grazie anche al lavoro a tutto campo (come studioso, operatore, promotore) di Gordon Lawrence e dei suoi collaboratori in varie parti del mondo, il Social Dreaming ha avuto innumerevoli applicazioni in vari contesti: sociali, istituzionali, organizzativi, profit e non profit, ma anche in relazione a traumi collettivi, come attentati (in particolare dopo l’11 settembre), terremoti, guerre civili, ecc. Da notare poi come, specie a partire dagli ultimi dieci anni, si siano moltiplicate le esperienze internazionali che hanno visto il Social Dreaming utilizzare spazi pubblici o creare a sua volta nuovi “spazi sociali”, formali o informali, favorendo il dialogo anche in contesti segnati da una conflittualità endemica (come per esempio in Israele) e aggregazioni di “comunità”, per lo più eterogenee e non strutturate, ma fondate su processi democratici e/o autogestiti (alcune di queste esperienze, come quelle legate alle azioni dell’ Occupy Movement a Londra, sono descritte in dettaglio in un volume curato da Susan Long e Julian Manley.
La vita (e la forza) dei sogni, come rivelatrice dell’inconscio individuale e sociale, offre del resto da sempre un luogo e un serbatoio creativo di immagini e immaginario che aiuta a salvaguardare spazi di libertà e riflessione critica, di pensiero e di parola. Questa capacità dei sogni assume particolare rilievo in quelli che Hanna Arendt chiamava dark times: tempi in cui la violenza e l’ingiustizia sociale e politica che hanno luogo in svariati contesti, sono sempre più visibili ma difficili da far riconoscere e da imporre nel dibattito pubblico come nell’agenda politica (si pensi solo alle discriminazioni su base etnica o di orientamento sessuale).

Corpo e anima (Testről és lélekről), 2017 regia di Ildikó Enyedi, Ungheria
L’invasione della realtà (nei nostri sogni)

Tra gli studi che ci hanno spiegato come la pandemia ha cambiato, in senso sia letterale che simbolico, i sogni (rendendoli più vividi e idiosincratici, e anche qua è da chiedersi se torneranno come prima), segnaliamo quello condotto dalla UCL-University College London a fine 2020 con un campione di studenti post-graduate di diversi paesi e che abbraccia il periodo delle prime due ondate della pandemia.
Uno degli scopi principali della ricerca era esplorare il collegamento tra contenuto visuale ed emozionale dei sogni. Dai quali emerge tutto l’armamentario (i ricercatori usano il termine antico di parafernalia) della pandemia: mascherine che ci impediscono di parlare e/o di capirci l’un l’altro, disinfettanti, tamponi di tutti i tipi, siringhe, vaccini. Introiettata a un livello inconscio più profondo, ricorre poi la sua dimensione sociale, dalle pratiche del ‘distanziamento’ (connesso alla diversa misura della personal bubble, la sfera di intimità, nelle diverse culture) a quelle della virtualità (le riunioni zoom e i webinar continui).
Le rappresentazioni più frequenti enfatizzano il carattere ‘invisibile’ della minaccia, come l’immagine di gas tossici introdotti nell’aria per controllare le persone, ma anche il ruolo delle tecnologie che invadono le nostre vite, in specie sui luoghi di lavoro: “Il lavoro invadeva i nostri sogni così come invadeva le nostre case”. Di fronte agli schermi, sia pure virtuali, è ricorrente il sogno di ritrovarsi nudi ed esposti agli sguardi dei partecipanti alle riunioni on line (e la cronaca di questi mesi avrebbe offerto numerosi esempi in tal senso).
Come accadeva, ben prima della pandemia, nel film della Bruneau, i sogni in questi ultimi mesi sono apparsi sin troppo aderenti alla realtà. In effetti, i partecipanti alle matrici dei sogni si sono ritrovati spesso a replicare le situazioni di ‘sospensione’ tra soglie e confini spazio-temporali sperimentate in questi mesi e a riprodurre gli incubi quotidiani legati al coronavirus e ai suoi effetti (cosa che produceva a sua volta, al risveglio, una notevole frustrazione).

L’immaginario visuale come antidoto?

È frequente osservare come durante le matrici dei sogni le libere associazioni che attingono al nostro immaginario cinematografico siano numerose e significative. Se resta assai difficile trarre indicazioni generali considerato il numero e la rilevanza delle variabili in gioco (contesto, finalità, tipologia dei partecipanti, ecc.), tale dinamica risulta accentuata laddove le matrici presentano come “innesco” stimoli specifici provenienti da opere filmiche (e questa constatazione riguarda la mia specifica esperienza personale di questi ultimi anni nella co-progettazione di alcuni incontri e percorsi di Social Dreaming, sia in presenza che, durante il lockdown, on line).  In ogni caso, e analogamente a quanto avviene nell’ambito della formazione per gli adulti, la forza del linguaggio cinematografico – che condivide da sempre col sogno la sua natura enigmatica e polimorfa – deve essere sempre adeguatamente presidiata e i testi filmici utilizzati posti all’esclusivo servizio, senza eccessi o forzature, di una metodologia non ingombrante, sicuramente aperta alle sperimentazioni, ma al tempo stesso rigorosa come il Social Dreaming.

© Khoa Võ by Pexels

Lo scorso inverno, ancora in pieno lockdown da “seconda ondata”, ho partecipato a un ciclo promosso da Ariele (intitolato “Il coraggio di sognare”). In uno degli incontri, durante il ‘Dialogo di riflessione’ – il momento che segue immediatamente la matrice e in cui partecipanti e host , i “facilitatori” del processo, cercano insieme di rintracciare una trama di senso dai vari fili emersi – un partecipante, riferendosi alle tante ‘associazioni’ relative a opere filmiche, del passato o recenti, aveva detto: “Mi sembra strano che parliamo tanto di cinema quando non possiamo andarci perché sono chiusi”. Al di là di possibili risposte di superficie,l’osservazione rivela va, a mio avviso, una dinamica più profonda, tipica della fase pandemica: una sorta di travaso tra l’immaginario filmico e quello legato alla vita reale. Se la realtà ha invaso i nostri sogni, in qualche modo ‘imbavagliandoli’, l’immaginario cinematografico prova a riemergere liberando tracce ‘finzionali’ a cavallo tra il sogno e la realtà quotidiana. È un immaginario più propriamente visuale, dunque assai più vasto, dove si intrecciano e confluiscono diversi linguaggi e narrazioni (dalla video-arte alle serie tv). Un immaginario “ibrido”, praticato in modo più immediato dalle generazioni più giovani, ma dal cui orizzonte, sembra essersi ritirata – di fronte, potremmo dire, agli “ultracorpi” della realtà pandemica – proprio quella fantascienza  che un originale contributo di Francesca Cogni su questa rivista invocava  come possibile forma narrativa collettiva per provare a riappropriarci del futuro.

© Francesca Cogni – www.mikoko.org

In un mondo sempre più distopico e “adulto”, in cui, sin da piccoli, oltre che sognare sembra ormai “vietato giocare”, ci sembra pertinente la metafora usata dallo scrittore e insegnante Marco Lodoli per il quale i sogni sono “cortili espressivi”. Di fronte, aggiungeva Lodoli in una recente trasmissione radiofonica, a una “fabbrica dell’immaginazione che produce film, musica, vestiti, pensieri, oggetti per ragazzi che rischiano di essere i depositari passivi di questa catena di montaggio”, occorre recuperare l’esperienza infantile del cortile come luogo in cui “si mescolano le voci e ci sei tu che entri nel gioco”. Una regressione forse tale solo all’apparenza. Sognare insieme (come giocare e come tante altre azioni praticate collettivamente, dal camminare all’andare in bicicletta, dal leggere libri al suonare, all’andare al cinema) non solo afferma istanze di libertà ma crea una rete, anche invisibile, di legami, fondati su percorsi comuni. Come dimostra l’esperienza delle matrici dei sogni, anche nella dimensione on line, la condivisione dei percorsi e delle immagini del nostro mondo onirico può cambiare la polarità delle nostre paure e ansie individuali, e per questo può trasformare il nostro pensiero e le nostre visioni (anche virtualmente, sfruttando qua la ricchezza dell’incontro e dello scambio tra persone appartenenti a luoghi e culture diverse). Queste azioni possono porsi come antidoto alla progressiva scomparsa “del mondo interiore del romanzo, della capacità di giocare, dell’immaginazione, del sogno, dell’inconscio e del senso di solidarietà collettiva” di cui parlavano oltre dieci anni fa John Clare e Ali Zarbafi.
Alle riflessioni in corso da tempo sui fondamenti teorici del Social Dreaming si affiancano le numerose sperimentazioni operative della comunità di ricercatori e professionals (sperimentazioni che hanno trovato nuovo impulso dalla nuova dimensione dell’on line e dalle sinergie sempre più frequenti con i linguaggi artistici). Da entrambi i versanti emergono indicazioni e insegnamenti che di certo si riveleranno molto utili a precisare e rafforzare l’impatto sociale del metodo, in un futuro che, anche per il Social Dreaming potrebbe prospettarsi “ibrido”, tra presenza e virtuale.

 

Riferimenti bibliografici

Hanna Arendt, L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing (ed. originale 1968), Milano, Cortina, 2006
Charlotte Beradt,  Il Terzo Reich dei sogni (ed. originale 1966), Meltemi 2020
Roberto Campari, Sogni in celluloide. Reale e immaginario nel cinema, Marsilio 2008
Elias Canetti, Massa e Potere (ed. originale 1960), Adelphi, 1981
John Clare, Ali Zarbafi (eds.) Social Dreaming in the 21st Century: The World We Are Losing, Karnac, 2009
Sergio Di Giorgi, Dario Forti (a cura di), Formare con il cinema. Questioni di teoria e di metodo, Franco Angeli, 2012
Gordon Lawrence e Claudio Neri (a cura di), Social dreaming. La funzione sociale del sogno, Borla, 2001
Gordon Lawrence, Introduzione al social dreaming. Trasformare il pensier (ed. originale 2005), Borla, 2008
Marco Lodoli, Marco Malvaldi, Rosa Matteucci, Michela Murgia, Mariapia Veladiano, Di cosa sono fatti i sogni, Rai Libri, 2016
Susan Long, Julian Manley (eds.), Social Dreaming. Philosophy, Research, Theory and Practice, Routledge, 2019
Alice Robb, La nuova scienza dei sogni. Imparare a sognare per trasformare la nostra vita e migliorare la nostra salute, Rizzoli 2019
Giancarlo Stoccoro, Occhi del sogno. Cinema e Social Dreaming, Giovanni Fioriti Editore, 2016