Ho deciso, un po’ di anni fa ormai, di diventare fotografa perché pensavo che così non sarei mai più dovuta stare ferma seduta su una sedia. Guido Guidi in una giornata di maggio particolarmente fredda e ostile – ci trovavamo a Rubiera – mi ha detto: «Sai… ho scelto di essere fotografo perché non volevo stare chiuso in una stanza, volevo stare sempre fuori». Da studente ho interpretato quella frase come il segnale che il percorso che stavo intraprendendo fosse quello giusto per me. Non sapevo di certo che stessi proiettando la mia esistenza nell’incertezza e nella precarietà e che al chiuso in una stanza ci sarei rimasta tanto. Ma questa è un’altra storia.
La mia pratica artistica è volta a mettermi in ascolto del mondo tramite il mio corpo. È un tentativo di integrare, di riavvicinare la mente al corpo in modo intuitivo. Scattare fotografie impone di fermare un momento nel tempo e di stare nel qui e ora, anche se solo per una frazione di secondo. Permette di seguire una fugace intuizione e approfondirla. Mette un freno ai pensieri, richiede una totale concentrazione mentre si trattiene il respiro per non far vibrare la camera. Impone di usare il corpo per muoversi nello spazio e, a seconda della posizione assunta rispetto all’ambiente circostante, ne cambia completamente il risultato.
La fotografia, affrontata in questo modo, è una pratica liberatoria, una meditazione, un esercizio di consapevolezza per me fondamentale. Penso possa essere uno strumento di liberazione da tanti problemi che affliggono noi e la nostra società.

A Milano, a marzo 2020, durante la pandemia, era vietato uscire. Più volte i carabinieri mi avevano affiancata con la macchina per poi allontanarsi quando si accorgevano che portavo in giro il mio cane. Dalla mia finestra si vedeva solo un terreno smottato, vuoto e ormai immobile, abbandonato alle speculazioni immobiliari e al sole diafano di una primavera che sembrava non finire mai.
Sparpagliando a terra diverse fotografie con l’obbiettivo di creare una sequenza adatta ad un libro, ho iniziato a separare il mio corpo dalle immagini in cui era rimasto intrappolato per ricollocarlo in nuovi scenari. Con un paio di forbici in mano è nato The body is a revelation as is landscape.

Volevo togliermi dei pesi di dosso. Giocando con fogli di carta fragili e immagini stampate male in bianco e nero, ho iniziato a modificare il mio corpo nello spazio, a tagliarlo, riassemblarlo, eliminarlo, per cercare di mettermi in contatto con il mio stato emotivo e con quello che il mondo stava vivendo. Senza preoccuparmi di errori, imprecisioni e limiti tecnici, ho creato un flusso indistinto di pezzi di fotografie che, ricomposti, hanno dato vita un corpus di immagini nuove. Alcune combinazioni sono state fotografate nell’atto di disfarsi, alcune sono rimaste incollate insieme per sempre, altre ancora hanno cambiato posizione alla luce del sole quando ne avevano voglia.

L’esercizio si è rivelato estremamente liberatorio e profondamente effimero, un processo gestuale perennemente in divenire, guidato dall’intuizione. Affascinata dagli esperimenti Dada e Surrealisti in fotografia, giocare con l’inconscio e la categoria del perturbante ha sicuramente diretto la prima parte del flusso creativo.
Una serie di riflessioni sul corpo femminile sono poi emerse naturalmente, da sempre infatti mi interessa come le donne “gestiscono’’ il proprio corpo in fotografia. Dalla nascita della storia dell’arte in avanti, siamo state abituate a rappresentare un veicolo per comunicare altro – la nostra disponibilità sessuale per esempio – e difficilmente siamo state capaci di sintonizzarci con il nostro corpo tramite le immagini (per non parlare di cosa succede quando veniamo messe di fronte a uno specchio). Fondamentale in questo senso per me la lettura del saggio sul nudo di John Berger:
«Nella tradizione europea della pittura ad olio di nudo il principale protagonista non è mai rappresentato. É lui lo spettatore davanti all’immagine, e si suppone che sia un uomo. Tutto è inteso per lui. Tutto deve apparire come il risultato della sua presenza lì. È per lui che le figure hanno assunto la veste della nudità. Ma lui, per definizione, è uno sconosciuto – con i vestiti addosso.»
(John Berger, Ways of seeing, Penguin Books, 1972)
A parte la riflessione sul male gaze e la consapevolezza che tutti i dipinti di nudo che ho amato in giovane età non erano pensati per il mio sguardo, mi sono chiesta: è possibile utilizzare la fotografia non come un modo per alienarsi da se stesse, ma al contrario come uno strumento di embodiment, per sintonizzarsi cioè sulle proprie esperienze corporee e quindi sulle proprie emozioni e sentimenti? Questa domanda ha portato avanti la mia ricerca.
Volevo provare a evitare di raffigurare il corpo in un certo modo, con l’obbiettivo di allontanarmi il più possibile dal cosiddetto Mito della Bellezza, perché:
«Il mito della bellezza riduce la consapevolezza enterocettiva, cioè incide sulla capacità di percepire i bisogni primari e sulle prestazioni cognitive. Pensare continuamente al proprio corpo distrae dal resto, come un’interferenza costante.»
(Naomi Wolf, Il mito della bellezza, Tlon, 2022)
Già solo l’atto di concentrarsi sui giudizi che affibbiamo indiscriminatamente al nostro corpo ci rende cerebralmente più stupide, e, da una prospettiva femminista, ci toglie tempo per combattere le battaglie politiche che ci servono per vivere meglio e raggiungere la giustizia sociale. Una di queste, per me, è riappropriarmi del mio corpo. In questo lavoro esso si disintegra nell’anonimato per farsi corpo collettivo. È il contrario di un autoritratto. Nascondendo il viso e qualsiasi particolare riconoscibile, provo a ri-fondermi con l’umanità di cui faccio parte, rifiutando la mia stessa individualità.

Sara Patrone, nel volume Il malinteso della bellezza. Per un’antropologia del corpo, riflette proprio sulla storia della percezione del corpo, andando alle radici storiche della nostra concezione del corpo come un semplice fardello separato dalla mente:
«Con il Rinascimento il corpo è un residuo, non rimanda a nulla e non fa parte di niente. La natura è un oggetto sconsacrato e dominabile, il corpo è una forma vuota, una rimanenza che ostacola la conoscenza dell’uomo. […] Il divorzio dal corpo avviene nella cultura della minoranza rinascimentale, il sapere medico spezza la continuità tra la persona e la carne, fra pensiero e corpo. Dagli studi di Leonardo sui cadaveri il corpo è solo corpo. Non c’è niente dietro, non è trascendentale.»
(Sara Patrone, Il malinteso della bellezza. Per un’antropologia del corpo, Mimesis, 2022)
Nauseata da questo sistema di pensiero dicotomico che vede il corpo separato dalla mente, il mondo separato dall’individuo, la natura come qualcosa di alieno dall’umano (e quindi sfruttabile), volevo creare un universo immaginario dove mente-corpo, natura-umano, io-mondo, potessero unirsi in un continuum. Immaginare mondi e sistemi alternativi, come ricorda l’artista femminista Carmen Winant, è già world-building, è il primo passo cioè per creare il mondo dove vorremmo vivere. L’immaginazione ha un potere importante, e non va sottovalutato.

Il progetto diventa un libro nel 2023, e viene pubblicato dall’editore Witty Books. Anche nel design, pensato insieme a Tommaso Parrillo e Giulia Boccarossa, l’idea che guida le scelte stilistiche è quella di creare un oggetto che dia l’impressione di poter essere modificato, di non avere un inizio e una fine. La rilegatura a spirale crea l’illusione di avere tra le mani un bloc-notes, dove è possibile rimescolare le pagine, creare significati nuovi, dare vita a una nuova sequenza. La copertina, bianca come le pagine all’interno, rende l’esperienza dello sfoglio come un processo a spirale appunto, come un loop infinito.

Courtesy l’artista e l’Editore
La mia insegnante di yoga una volta mi ha detto «Il corpo è il confine della mente, non la sua gabbia. Evita che la mente si prenda tutto lo spazio disponibile, e per questo dobbiamo onorarlo giorno dopo giorno. Il confine, i limiti sono nostri amici». La mia pratica artistica vuole onorare il confine, il limite, tra piccolo e grande, lontano e vicino, conoscibile e inconoscibile, io e mondo, cercando di raccontare il processo di questo avvicinamento.
BIOGRAFIA DELL’ARTISTA
Sofia Masini (Madrid, 1991) vive e lavora a Milano. Ha conseguito la laurea triennale in Beni Culturali presso l’Università degli Studi di Milano e ha proseguito gli studi con un master in Fotografia presso l’Università IUAV di Venezia. Il suo interesse per il corpo, inteso sia come strumento euristico che come oggetto di indagine, guida la sua ricerca artistica. Il suo lavoro è stato esposto in spazi indipendenti e istituzioni italiane, tra cui: Museo MAR (Ravenna, 2019), Micamera (Milano, 2020), Diecixdieci Festival (Gonzaga, 2021), Fondazione Fabbri (Pieve di Soligo, 2021), Condominio (2021, Milano), Museo Preus/Museo Nazionale Norvegese della Fotografia (Horten, Danimarca 2022). Il suo primo libro fotografico, The body is a reveal as is landscape, è stato pubblicato alla fine del 2023 dall’editore italiano Witty Books; il volume è stato esposto come finalista al Photo Espana Book Award e al Singapore International Photography Festival.
Sito ufficiale: Sofia Masini