Cosa vedere quando si guarda. Per anni ho cercato di misurarmi con dei sistemi complessi che creano un immaginario collettivo, cercando di sezionare degli universi, creatori di icone, come l’industria del cinema, la televisione, la moda, la propaganda politica. Il tentativo è stato quello di renderli più leggibili nei loro contenuti più reconditi, cercando di determinare, congelando in fotografie, quali fossero i veri messaggi. Quelli più sottili, più subliminali per riflettere sulla vera natura del messaggio veicolato.
Il media fotografico usato come uno scudo che protegge dal flusso indiscriminato di immagini, che permette di coglierne l’essenza, attraverso l’analisi calma, ponderata e soprattutto lenta. Una battaglia contro l’inaccuratezza, la sciatteria, l’approssimazione.
La lettura di Calvino che profetico già nel 1955, ci metteva in guardia con il racconto breve La follia del mirino1 dall’avvento della civiltà delle immagini, mi ha ispirato nel tentativo di analizzare l’atto di ciò che si pensa di vedere. Mi ha invitato a essere più attento, più esigente sulla visione, per essere semplicemente più libero nel riflettere se ciò che pensavo di vedere, fosse esattamente ciò che stavo vedendo. Da quest’idea sono nati i miei primi lavori (Televisiva / Pornoland / Blanco / Babel).
Mi è sembrato necessario dopo tanti progetti di questa natura, cercare un sistematico approfondimento. Offrire un’ipotesi, un’alternativa di visione ai luoghi comuni, su cui spesso riposa la nostra visione. Una lettura che in parte ci difende dall’angoscia, ne sono cosciente, dalla paranoia di vedere sempre in un immagine un istinto manipolatorio che può sottomettere la nostra libertà di giudizio.
Credo profondamente che il ruolo di un autore, sia quello di sollecitare una visione della realtà alternativa e non accomodante.
Una prima vera occasione mi è stata offerta durante una residenza d’artista in Normandia. Questa regione è stata consegnata nella storia dell’arte a “residenza sorvegliata” dal lavoro degli impressionisti. Cosa si pensa, quando cerchiamo nel nostro immaginario un’idea della Normandia? Étretat, Giverny, i lavori di Monet, Seurat, Millet, Boudin, Pissarro.

Il movimento impressionista, si affidava all’istinto, i pittori uscivano dai loro studi per incontrare il mondo, potevano avvalersi di materiali più leggeri e potevano per la prima volta confrontarsi con le cose come le vedevano. Da qui la volontà di mettere in risalto i loro sentimenti, che si concretizzavano con un gesto rapido sulla tela con dei colori sfumati con i contorni non definiti, un’impressione di ciò che si è visto e vissuto. Un atto all’epoca rivoluzionario. Ma oggi a distanza di quasi due secoli perché dobbiamo ancorarci a questa visione?
La mia idea è stata quella di ripercorrere questa retta immaginaria che parte dall’impressione di realtà e arriva al suo punto speculare dove non c’è un’impressione, ma semplicemente la creazione dell’immagine nel momento in cui i fotoni toccano il materiale sensibile. Mi è parsa, questa, un’ipotesi più opportuna per diversi motivi.
Riallacciarsi a una realtà nuda e oggettiva, offrire una nuova possibilità di vedere dei luoghi iconizzati in modo diverso, per invitare a riflettere se i secoli trascorsi hanno lasciato dei segni di cambiamento nel territorio, e al contempo un invito più teorico e provocatorio a scoprire anche una nuova Normandia. Più in generale pensando a ciò che stavo vedendo mi è parso anche molto suggestivo – in un epoca di “verità alternative” di confusione, disaccordo e polarizzazione – ritornare alla base, a ciò che si vede. Il segno. Mi rendo conto del paradosso. La fotografia per definizione è ambigua, se in quasi duecento anni non siamo stati in grado di definirla un segno o un’icona vuol dire che la sua natura è estremamente aleatoria. Per questo la pratica del foro stenopeico a cui si apparentano i miei lavori più recenti è un’idea che mi conforta. Torniamo al grado zero della visione. Eliminiamo le scorie del ricordo alterato, dell’interpretazione, fermiamoci a guardare di nuovo, ciò che chiudendo gli occhi pensiamo già di poter vedere senza aver bisogno di esser presenti. Concetto espresso meravigliosamente da Don DeLillo nel suo libro Rumore Bianco (1984), episodio “La stalla più fotografata d’America”2.


Dal progetto Zero – Le Havre il porto industriale, 2022. Courtesy l’artista
La residenza in Normandia mi ha permesso di delimitare un nuovo perimetro di ricerca che ho sviluppato, cercando di attaccare un edificio più imponente. Grazie al supporto di istituzioni culturali come La Fondazione per la Cultura Palazzo Ducale di Genova e L’Università di Genova ho ottenuto una borsa nel 2022 (Strategia fotografia del Ministero della Cultura) per realizzare un progetto che ha la volontà di rivisitare il cliché del Bel Paese. La visione dell’Italia come il giardino delle delizie, l’Arcadia.
Un’immagine che accompagna l’Italia da circa tre secoli, creata dalla corrente dei paesaggisti a uso e consumo dei rampolli delle grandi nobiltà europee, che concludevano il loro ciclo di formazione culturale classica con un viaggio in Italia (Il Grand Tour). Dei paesaggi bucolici potenti, a volte inesistenti come nel caso dei capricci del Pannini. Essi servivano, infatti, per conservare nelle loro dimore, un’immagine iconizzata del paese che era stato una parentesi meravigliosa, una stagione irripetibile delle loro vite, prima di entrare nella parte attiva e responsabile della loro esistenza.

Tutto questo ha creato un cliché che tuttora resiste nell’immaginario collettivo. Non nego che l’Italia sia un paese con uno straordinario passato e un imponente patrimonio artistico ma è anche un paese dinamico, nel bene e nel male. Ciò che ci è negato nella visione de Il Bel Paese è una visione più reale e contemporanea del nostro paesaggio. Riprendendo il filo dei fotografi paesaggisti contemporanei (Ghirri, Guidi, Basilico, Barbieri, Cresci) che negli anni Ottanta del Novecento avevano visto con occhi nuovi il paesaggio iconizzato rendendolo più vicino al reale, ho voluto “cartografare” un nuovo Grand Tour cercando di inserire ciò che non si vuol vedere o che si è troppo visto offrendo così una nuova identità al paesaggio.

Dal progetto Il Bel Paese – Villa Adriana – Tivoli, 2021. Courtesy l’artista



Questo progetto mi ha reso cosciente della forza del Genius Loci.
Trovarmi ad ascoltare lo spirito di un luogo e cercare di rappresentarne la parte più spirituale mi ha spinto a considerare l’idea di rappresentare il continente in cui viviamo, da questa intuizione nasce il progetto a cui sto lavorando ora: Atlas Europia, una mappa del tempo.
Il progetto consiste nel suddividere il continente fotografando i siti emblematici, che dovrebbero preservare il ricordo di eventi storici chiave, che hanno sconvolto il cammino dell’umanità, contribuito al suo regresso nei recessi più bui dell’animo umano, come al progresso e alla trasmissione delle conoscenze. È dall’incontro con i destini dei paesi visitati, dalla diversità storica e culturale dei luoghi che emergono nuove idee, non da un unico polo.
Questo lavoro mi appare come un’urgenza in un’attualità particolarmente ansiogena. Considero, come il sociologo Zygmunt Bauman, l’Unione Europea come la più grande impresa mai tentata dal mondo occidentale. L’Europa, territorio plurale, vede i suoi sforzi di costruzione della pace minacciati con il ritorno di un conflitto armato dal 2022. I suoi valori fondamentali di rispetto dei diritti umani, la sua aspirazione alla solidarietà e alla cooperazione tra le nazioni sono messi alla prova dall’ascesa di movimenti populisti. Tuttavia, si sforza di preservare le convenzioni dei diritti umani e di mantenere la democrazia.
Valori fondamentali che spetta a noi difendere.
La memoria si nutre delle tracce del passato e dei ricordi di un individuo, tenendo conto del suo vissuto e delle sue emozioni di fronte alla sua esperienza personale. Ma la memoria può anche essere collettiva: si tratta allora di un insieme di fatti del passato che rimangono nel ricordo di un intero gruppo, più o meno ampio, legato da questi eventi. Il dovere della memoria è trasmettere e mantenere vivo il ricordo di eventi vissuti per trarre insegnamenti dal passato. In questo senso, il ricordo è critico per dare significato ai valori fondanti del rispetto dei diritti umani e al mantenimento della pace. Dà così la speranza che la storia non si ripeta, perché «Un popolo che non conosce il suo passato è condannato a riviverlo» (Winston Churchill). Il ricordo è uno scudo, il mio è una macchina fotografica. La dialettica tra informazione ed emozione, tra “sapere”, “comprendere” e “sentire” è al centro di questo percorso attraverso un’Europa così precaria.
Questo progetto è rivolto ai cittadini europei, di tutte le origini e nazionalità, sostenitori di un’Europa unita, che operano per la pace e la tolleranza. La sua narrazione è una geografia della memoria. Fotografando attraverso la vasta Europa i siti significativi della storia nei suoi momenti peggiori ma anche nelle sue più belle realizzazioni che fanno parte del nostro patrimonio, ognuno di noi vi ritroverà la propria storia intima. Fotografare luoghi che hanno segnato il cammino dell’umanità significa fotografare la memoria.
Atlas Europia è una metafora dell’Europa in divenire che la fotografia ha il potere di evocare. Una meditazione sul nostro cammino attraverso i secoli fino a oggi, riunita in una costellazione di immagini, in un intreccio storico, temporale e geografico, affinché emerga una visione di un futuro unito in cui gli Stati Uniti d’Europa progrediscano verso un’utopia realizzata che oggi è messo in discussione nelle sue fondamenta dai nuovi asset geopolitici in provenienza da est (Russia e Cina) e da ovest (Silicon Valley).
Un dovere generazionale il mio, quello di prendere una posizione nella tormenta attuale che ci vede malgrado tutto responsabili artefici del nostro comune futuro.




NOTE
1 La riflessione di Calvino compare dapprima su «Il Contemporaneo», rivista letteraria, in un articolo intitolato appunto La follia del mirino, successivamente trasformata in racconto e inserita nella raccolta Gli amori difficili (1970).
2 DeLillo nel suo racconto descrive la visita di Murray famosa “stalla più fotografata d’America” vicino a Farmington, raggiunta dopo un breve viaggio in auto. Sul luogo, si trovano numerosi fotografi armati di attrezzature professionali, intenti a catturare immagini della stalla, che però non è visibile direttamente. Murray riflette sul fatto che, una volta segnalata dai cartelli, la stalla diventa invisibile, simbolo di come il turismo e la fotografia creino un’aura collettiva intorno a un’immagine. Per lui, fotografare questa scena significa perpetuare un’energia collettiva, un’esperienza quasi religiosa, che si nutre di percezioni condivise. La scena si trasforma così in un rito di partecipazione a una percezione collettiva, dove l’atto di fotografare diventa un modo di entrare in un’“aura” che ci unisce a chi ha visitato il luogo prima di noi. Murray si compiace di questa esperienza, consapevole di far parte di un fenomeno che trascende l’immagine stessa.
Il sito di Stefano de Luigi