Non è mai troppo tardi

Minerale di ferro pronto per il trasporto, frame dal documentario di Chiara Sambuchi Più forti dell’acciaio, 2019, produzione TV Plus, Berlino

Lo sguardo di un’artista che riflette sul suo proprio sguardo interroga il senso ultimo del suo lavoro. Un senso che non è mai acquisito una volta e per sempre ma in continuo divenire, perché partecipe di quanto accade ogni giorno nel mondo, dentro noi stessi e nelle persone con cui ci relazioniamo. È questa forse l’altra faccia della libertà creativa di un artista (che sia davvero libero di creare), la sua più vera responsabilità: la capacità di offrire risposte nuove non a committenti o a censori, reali o immaginari, ma a se stesso, dopo avere scavato dentro e generato dubbi e domande, in un dialogo intimo, anche segreto, oppure pubblico, con il mondo esterno.
Questa rivista, del resto, nasce dalla volontà di illuminare alcune ‘zone’ grigie che riguardano i legami tra i diversi linguaggi, il rapporto tra impegno artistico e tematiche sociali e politiche (che sempre più hanno una dimensione globale), e quello tra arte, etica, memoria. Al tempo stesso, per offrire uno spazio di dialogo a distanza, ma emotivamente ravvicinato, tra gli artisti (proprio un progetto di dialogo tra due artisti ne ha rappresentato la matrice iniziale) e di riflessione comune con i lettori, che sono poi anche i destinatari delle opere.
Tutte quelle cose/Storie è il nome dell’area in cui abbiamo già accolto in questi primi mesi, riflessioni di artisti contemporanei in dialogo tra loro ma anche racconti e testimonianze dirette, senza la necessità di una mediazione critica, sulla propria opera. Quello di Chiara Sambuchi è in questo senso il primo contributo ‘in prima persona’ a Tutte quelle cose/Storie che arriva da una regista italiana, ma che vive a Berlino, dove nel 2001 ha fondato con altri soci una sua casa di produzione (cercando, come molti suoi colleghi, di sopperire a risorse limitate, presidiando l’intero processo creativo e produttivo per non subire, o per ridurre al minimo, i condizionamenti economici e/o artistici). Ogni linguaggio ha delle particolarità, anche rispetto ai processi di lavoro. Nel cinema, per i filmmaker – che fanno il cinema in maniera quanto più possibile indipendente – il senso del lavoro non è mai puramente individuale, ma richiede di essere costantemente condiviso e negoziato con altri ruoli: tecnici, organizzativi, economici.
Il cinema di Chiara Sambuchi si è occupato, con coerenza, sin dall’inizio, di questioni sociali e ambientali e dei diritti umani specie dei più fragili, come le donne e i bambini, ma sempre a partire da vicende individuali. Solo per stare agli ultimi anni, la regista ha girato il mondo seguendo le tracce dei piccoli migranti, i cosiddetti ‘minori stranieri non accompagnati’ o delle giovanissime vittime della tratta della prostituzione nigeriana nel Nord Italia (con le sue ramificazioni transnazionali). Ora, con altrettanto coraggio, racconta nel suo film più recente (Più forti dell’acciaio, 2019) tre piccole storie: la fatica e le speranze di tre persone, minuscole pedine che il cinema riesce a portare incredibilmente in primo piano, dietro le enormi quinte del complesso e spesso ‘sporco’ gioco dell’industria siderurgica mondiale.

(La redazione)

 

Scorcio idilliaco sul mare croato. Siedo sul balcone a pochi metri da un molo, di fronte a me chilometri di azzurro intenso. Assaporo gli ultimi giorni di riposo prima di dedicarmi al montaggio del mio prossimo film documentario. Di fronte a me un catamarano ormeggiato, sul ponte una ragazza in bikini si lava i capelli sotto lo sguardo apparentemente disinteressato di alcuni passanti. Ai suoi piedi troneggia un enorme flacone di shampoo di una nota multinazionale. Una lunga scia di candide bolle scivola dalla sua chioma e finisce rovinosamente in mare.

È un pugno nello stomaco: nell’arco di pochi secondi il mio cervello elabora il numero probabile di azioni che avvengono contemporaneamente nei mari e sulle spiagge di quel mondo privilegiato che può permettersi il lusso di crogiolarsi nella calura di agosto e, istintivamente, percepisco le terribili conseguenze per l’ecosistema marino. Un semplice gesto di disattenzione, inconsapevolezza, maleducazione o mancanza di senso civico, a seconda di come la si voglia chiamare, ha conseguenze nefaste. Una visione infantile e antropocentrica del pianeta ci conduce alla folle illusione di poter godere appieno delle sue bellezze senza curarci di nient’altro che del nostro effimero benessere.

La coscienza di una profonda comunione tra essere umano e natura è per me una novità. Sono una regista di film documentari e, da vent’anni, metto al centro del mio lavoro l’umanità in tutte le sue sfaccettature. I miei film sono costituiti da primi e primissimi piani di donne e uomini, spesso in situazioni esistenziali complesse, raccontati sempre in maniera molto intima. A volte li accompagno per anni con la telecamera durante i loro viaggi, nel corso dei quali sovente si affidano a mezzi di fortuna pur di salvare le loro vite. Talvolta sono anche viaggi emotivi coraggiosamente intrapresi per ricostruire una vita dignitosa fuori dal dramma della schiavitù o per trovare una via d’uscita da situazioni emotivamente difficili. Quel che mi motiva sono solitamente le sfide private degli esseri umani, i luoghi nei quali si muovono sono le quinte del loro palcoscenico, narrate in immagini, certo, ma che restano sempre sullo sfondo.

Locandina ufficiale del film

Le cose per me sono cambiate in maniera radicale nel corso delle riprese di Più forti dell’acciaio un documentario sull’industria siderurgica, completato proprio a ridosso della prima ondata pandemica. In questo film ho seguito tre protagonisti in tre luoghi simbolo dell’industria dell’estrazione e della lavorazione del ferro: un contadino della regione brasiliana del Carajas, dove sorge la miniera di ferro a cielo aperto più grande del mondo; una pediatra di Taranto, dove il ferro del Carajas arriva via mare e viene trasformato in acciaio, provocando altissimi tassi di inquinamento atmosferico che incidono pesantemente sulla salute dei cittadini, specie dei più piccoli; e infine il responsabile di una vecchia acciaieria in disuso nella regione tedesca del Ruhr. Qui gli altiforni sono stati spenti per sempre, l’intera struttura è stata trasformata in un parco, simbolo di un’industria da cui si è deciso di prendere definitivamente commiato.

Mi sono approcciata a questa storia con la mia tecnica usuale: partendo dai miei protagonisti, analizzandoli, interrogandoli e osservandoli per intere settimane, cercando di carpire anche le loro emozioni e i loro desideri più reconditi, quelli che di solito non emergono dalle interviste, ma piuttosto da uno sguardo. In questo caso lo studio dei luoghi, svolto insieme al mio direttore della fotografia, assumeva un ruolo fondamentale: dovevamo raccontare l’immensità della miniera di ferro a cielo aperto, quell’enorme buco rosso nel cuore della foresta amazzonica, simile a una dolorosa ferita. Dovevamo descrivere l’acciaieria di Taranto, la più grande d’Europa, con quel maledetto camino E312, che emette più diossina di qualsiasi altro impianto industriale italiano e infine l’acciaieria dismessa in Germania, l’unico luogo che abbiamo deciso di riprendere con un drone, perché è il solo dei tre a essere stato “domato” e non rappresenta più alcun pericolo per l’uomo e per la natura.

Più forti dell’acciaio, trailer ufficiale, 2019, produzione TV Plus, Berlino

Nonostante l’ambiente avesse in questo progetto un ruolo determinante, ero certa che non avrei cambiato il mio solito assetto di lavoro: protagonisti in primo piano e i luoghi che, seppur rilevanti, avrebbero fatto da sfondo alla loro umanità.

Poi ho capito che mi sbagliavo.

Nel corso delle riprese ho avvertito intensamente quanto la nostra individuale e unica maniera di essere sia intrinsecamente unita alla natura nella quale siamo immersi. Ci guida, ci influenza, permea ogni nostra azione e plasma il nostro essere, in modo più o meno consapevole. Questo nuovo scenario ha del tutto mutato l’approccio al mio lavoro e al racconto delle storie di cui mi occupo nei miei film. La percezione profonda e l’ascolto dell’ambiente sono diventati vitali, cruciali quanto quello sguardo intimo che da sempre caratterizza la mia maniera di fare regia. L’ambiente ne è diventato parte integrante. È una presa di coscienza di una tale grandezza per me, ma anche di una tale banalità che quasi provo imbarazzo a scriverne, eppure le sue conseguenze sulla mia nuova sensibilità sono pressoché infinite, come quella scia di shampoo caduta nel mare croato. Implica infatti uno sguardo molto più ampio a ogni situazione cui mi avvicino, una visione più profonda non solo delle storie che racconto, ma anche del mio modo di lavorare e, di conseguenza, del mio stile di vita. I protagonisti di Più forti dell’acciaio reagiscono con determinazione agli effetti dell’industria siderurgica sull’ambiente che li circonda. Pixilinga, il contadino brasiliano protagonista del mio film, vive a ridosso della miniera di ferro del Carajas, le sue mucche si ammalano a causa del minerale di ferro che fluisce nelle acque, partoriscono vitelli morti per lo stress provocato dalle esplosioni che avvengono all’interno della miniera e molti operai che lavorano nella miniera muoiono di cancro. Nel suo ambiente le connessioni tra l’inquinamento ambientale e la salute di uomini e animali non sono state analizzate, non esiste ancora una chiara presa di posizione contro l’industria siderurgica e neppure una forte consapevolezza delle lesioni dei diritti civili operate dall’industria. Assistiamo, davanti alla telecamera, ai primi tentativi di organizzazione contro quel gigante di nome VALE, il maggiore produttore ed esportatore di minerale di ferro al mondo. Pixilinga a bordo della sua moto attraversa la foresta amazzonica, deturpata da incendi quotidiani e da ampie superfici in cui la rigogliosa vegetazione della foresta vergine ha dovuto cedere il passo agli allevamenti bovini. Riflette, nel corso delle interviste, su come non piova più come un tempo e su come, laddove ora ci sono campi nudi, un tempo fosse tutto verde. Ma gradualmente si organizza con altri agricoltori per lottare insieme contro l’industria, per far valere i loro diritti, per lasciare un mondo più vivibile ai loro nipoti. «Non è mai troppo tardi per essere felici» dice ad uno di loro mentre un agricoltore che dialoga con Pixilinga esclama: «Se restiamo uniti, possiamo raggiungere grandi risultati». Ricordo molto bene il momento in cui abbiamo ripreso questa scena: ero accovacciata a terra dietro al mio direttore della fotografia, che stava effettuando le riprese, tra le galline e i cani del contadino cui Pixilinga aveva fatto visita. Ricordo il mal di schiena e la fatica di quella giornata interminabile in mezzo alla foresta amazzonica e la gratitudine di fronte a quelle parole.

Momento delle riprese di Più forti dell’acciaio nella regione brasiliana del Caracas

Il mestiere di documentarista è fatto anche di questo: spossatezza fisica che a volte non ti dà tregua, ma che si scioglie come neve al sole di fronte alla felicità, dopo ore e ore di osservazione, quando riusciamo a cogliere una frase, una situazione come questa, che è un punto di svolta, un momento catartico per il film, ma anche per la vita della troupe che la sta osservando. Essere testimoni di quel germoglio, di quell’inizio di lotta comune per il diritto al lavoro e alla vita in un ambiente sano, con la consapevolezza di dover combattere contro un colosso di abnormi dimensioni. Quell’ambiente degradato, spinge l’uomo a una svolta, lo invita a salvarlo e, di conseguenza, a salvarsi, là dove non si parla ancora di studi sull’ambiente e pochissimi media si occupano degli effetti devastanti dell’estrazione mineraria sulla popolazione.

A Taranto la lotta dei cittadini contro il mostro dell’acciaieria prosegue da decenni e ha già prodotto risultati. Ma Grazia, la protagonista del mio film, dice che la sua lotta finirà quando il “mostro”, l’acciaieria, sarà definitivamente spento. Tanti suoi piccoli pazienti soffrono di problemi respiratori, molti sono morti di tumori a causa dell’alta presenza nell’aria di diossina e di altre sostanze tossiche. Nella Ruhr, in Germania, l’enorme acciaieria domata è diventata un parco per volere dei cittadini, per non dimenticare decenni di cielo plumbeo e di inquinamento che chiunque in quei luoghi ancora ricorda. Attualmente Egbert, il protagonista del film, si occupa di bonificare ettari ed ettari di parco ancora intriso di sostanze tossiche con l’obiettivo di riportare quei terreni allo stato naturale in cui si trovavano prima della costruzione dell’acciaieria. Gli alberi e la vegetazione vengono trattati con prodotti naturali, con grande passione e determinazione si cerca di ripristinare l’ecosistema originario. A volte un martin pescatore si affaccia sul ruscello all’ombra del mostro spento. Egbert e i suoi colleghi si entusiasmano nel vederlo, dietro la loro seria facciata di professionisti tedeschi, si commuovono un po’, anche se a telecamere rigorosamente spente. Lavoro ed ecologia per Egbert sono una cosa sola. Grazia e Pixilinga lottano ancora contro un sistema industriale che schiaccia i diritti umani fondamentali, ma il loro percorso va nella stessa direzione di quello dI Egbert, come il mio del resto.

Macchinari presso la miniera di ferro cielo aperto della regione del Caracas, la più grande del mondo

Credo da sempre nella necessità di raccontare piccole storie locali di persone comuni, con cui chiunque possa identificarsi, per poter prendere coscienza di problemi globali, lontano da complesse analisi non sempre comprensibili a tutti. Il rapporto tra località e globalità cosi viscerale nella mia professione, sta per me in storie microscopiche e apparentemente irrilevanti su scala globale, ma in cui in realtà si rispecchiano le grandi sfide del nostro tempo. Grazie a questo film ho realizzato come per me non esista la possibilità di una vita consapevole e di un lavoro condotto in maniera davvero professionale, senza attento, attivo ascolto e rispetto dell’ambiente che ci ospita, in qualsiasi stato quell’ambiente si trovi: in una fase di recupero da un periodo di grande inquinamento, di deturpazione o ancora in uno di purezza, non contaminato dalla fagocitante avidità umana. In questo senso non esiste azione troppo piccola o irrilevante. Essere regista di film documentari per me significa avere il privilegio di raccontare storie che non solo informino, ma ispirino il mio pubblico, spingano a muoversi in prima persona, a partecipare a una battaglia comune, oppure a prendere in mano una qualche vecchia battaglia emotiva con se stessi, lasciata per un tempo indefinito in un cassetto, inducano insomma a una qualche forma di reazione verso se stessi e verso l’ambiente circostante, perché ognuna di queste a suo modo è fondamentale.

Direttore della fotografia e fonico di Più forti dell’acciaio, regia di Chiara Sambuchi, 2019,
produzione TV Plus, Berlino

Più forti dell’acciaio è un lungometraggio commissionato da Mani Tese alla regista Chiara Sambuchi.

Il sito di Chiara Sambuchi