La Terra è blu e color sabbia. La prima immagine diffusa nel 1972 durante la missione spaziale Apollo 17 ce la mostra così. Quell’immagine sì è fissata nell’immaginario collettivo e offre una visione perfetta di un corpo vivente sospeso, che può essere solo frutto di un’entità superiore, quella che ha creato l’Universo. Il suo nucleo è però rosso, incandescente – tutti abbiamo in mente la lava che discende dai vulcani e sappiamo che emerge dalle viscere della Terra.
Fin dal principio il Pianeta appare divino, il blu (freddo) e il rosso (con i suoi derivati, caldo), che nell’accezione comune, non a caso, vengono associati l’uno alla calma, l’altro alla passione rappresentano i caratteri divini che sono stati trasmessi all’uomo (fatto a immagine e somiglianza).
«Quando non ho più il blu, metto il rosso» diceva Pablo Picasso. Non si può ignorare che questi due colori apparentemente contrastanti siano in realtà complementari, non si può, in sostanza, immaginarli l’uno disgiunto dall’altro, proprio come duplice è la materia di cui è composto l’intricato tessuto umano e, prima ancora, quello del Pianeta.

A volte si determina uno squilibrio tra queste due forze, del tutto irrazionale, che dà origine a catastrofi. La coesistenza di elementi così contrastanti è complessa e la ragione non può nulla: uno dei due tenderà sempre a prevalere sull’altro. L’equilibro è difficile e richiede esercizio.
Ma in questo percorso dell’artista Beba Stoppani, l’uomo – così come ogni altra specie animale – è stato volutamente escluso e non per quei motivi che potrebbero facilmente condurci a puntare il dito contro il pericolo di soccombere che la Terra starebbe correndo proprio a causa delle nefandezze umane, bensì per spostare l’attenzione egocentrica che sempre l’umano vuole accesa su se stesso a illuminare la vita del Pianeta in quanto corpo libero.
Sgomberando il campo dall’uomo, infatti, ci accorgiamo immediatamente quanto lo spazio naturale sia in verità completamente indipendente e di come tale indipendenza porti inevitabilmente a un “funzionamento” perfetto, un equilibrio che non può tradursi in niente altro se non in bellezza: interiore e esteriore.
Due sono i punti di forza in questa retrospettiva: l’opera Planisfero #1/17°55’54,7”Sud 25°49’34,4”E (2018) e l’opera Cristo Balena (2016). Il Planisfero è blu, il colore dell’acqua profonda, fonte primaria della vita. Rappresenta questi primordi, quando tutto era incontaminato, che devono restare “centrali” in qualunque idea di esistenza. Il colore intenso, le increspature fanno pensare a una plasticità che si vuole quasi toccare con le dita, la forma ellittica che rimanda a quella della galassia cui apparteniamo, pone l’accento su un’idea di complementarietà cosmica.

L’altra immagine che significativamente l’artista ha voluto intitolare Cristo Balena, realizzata all’esterno del Whale Museum di Húsavik, in Islanda.
La carcassa di balena, montata come pala d’altare di un busto ligneo del Trecento, nell’immaginazione dell’artista diviene elemento e rappresentazione di una spiritualità “morta” che chiede di “risorgere”.
Entrambe le immagini assumono quindi significato di salvezza, ma attenzione: qui non si parla di quella salvezza “del Pianeta” che ideologicamente vanno sbandierando coloro che oggi si ergono a paladini di un’utopia puramente intellettuale, bensì della salvezza dell’uomo specie inesorabilmente incamminata sulla via dell’estinzione. L’immagine Corpo Balena è lì non solo a testimonianza di ciò che è stato, ma anche per osservare ciò che veramente siamo disposti a fare per cambiare le nostre abitudini di sfruttamento.

D’altronde, come ognuno sa, il Pianeta esiste da molto prima che qualsiasi forma di vita animale si sviluppasse al suo interno, ed è la sua identità primigenia che qui si narra, l’aspetto che qui prevale. Nell’osservare le opere esposte, ci troviamo difronte a una sorta di epopea del Pianeta Azzurro, come lo chiamò Franco Piavoli in un suo celebre film. Queste immagini restituiscono i luoghi per quello che sono e lo sguardo di chi le osserva è chiamato ad agire su di sé un atto di “purificazione” attraverso lo stupore della scoperta che non cede mai all’inganno del “bel paesaggio”. Questo è il motivo per cui alcune immagini appaiono un po’ fantastiche permettendo a chi guarda di andare con la mente alla meraviglia dell’immaginazione e non alla denuncia della catastrofe incombente. È un invito rivolto all’osservatore a cercare ancora una volta in sé la salvezza.
E se certe immagini, senza dubbio di grande impatto visivo, per alcuni potrebbero apparire “estetiche”, diciamo che sì, lo sono, nella misura in cui estetico è letto come dottrina della conoscenza sensibile. «Nella saggezza c’è sempre il dolore e la conoscenza delle cose conduce al pianto» dice il pittore Teofane il Greco in Andrej Rublëv (1966) di Tarkovskij: nel momento in cui ci avviciniamo alla conoscenza appare il bello. Questo traspare se si osservano le immagini della mostra nel complesso, l’occhio registra una coralità: elemento che il nostro modo di guardare – sempre più viziato dal consumo – ha perso e che rappresenta, se vogliamo, il pensiero filosofico naturale cui la Terra sottostà spontaneamente, perché è nell’ordine delle cose.

Esiste poi un altro elemento nella ricerca artistica di Beba Stoppani che a mio avviso ricopre una grande importanza, ed è quello dalla forma circolare. E qui mi corre l’obbligo di un’altra citazione cinematografica. Nel film di Stanley Kubrick 2001. Odissea nello spazio (tanto amato dall’artista) Hal9000, il computer installato a bordo dell’astronave diretta a Clavius. compie un errore e quindi gli astronauti non si fidano più, vogliono disattivarlo, escluderne l’interferenza nelle loro azioni. Nelle immagini presenti in mostra i luoghi della Terra ritratti da Beba Stoppani vengono intervallati, di tanto in tanto, da un cerchio, una forma tonda, che cerca di ricondurre lo sguardo “umano” verso il centro, come a lasciare intendere che tutto il resto è dispersivo e che ci sia bisogno di concentrarsi su un punto che ci osserva a sua volta. La dispersività è umana, il centro è soprannaturale, cosmico. Parafrasando quanto succede nel film dove Hal9000 non è umano, ma al tempo stesso ha la capacità di pensare e agire secondo un suo criterio di salvezza, nell’impianto della mostra la forma circolare (occhio scrutatore di Hal9000) si trasforma in occhio della Terra, imponendo la propria sopravvivenza, mentre l’uomo tenta di escludere il suo agire ergendo se stesso a salvatore: è un’usurpazione, un cortocircuito mentale. Nel suo goffo tentativo di “salvare” il Pianeta, l’uomo finge di non rendersi conto di quanto ogni sua azione sia inutile perché la coscienza divina insita nell’occhio non muore, si trasforma continuando a esistere.
L’operazione che Beba Stoppani fa con le sue immagini ricorda dunque quella fatta da Kubrick che del suo film dice infatti: «[…] ho cercato di rappresentare un’esperienza visiva che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio». Tutto ciò che si vede nelle immagini esposte va pertanto visto con occhi appartenenti a quell’uomo nuovo che deve ri-nascere ma che è già qui. Quello che manca, l’ultimo passaggio, è il riconoscere che soltanto vivendo all’interno ci si può sentire parte di un insieme. L’uomo invece si pone al di fuori, osserva senza rendersi davvero conto della sua posizione nel mondo. Nelle immagini di Beba Stoppani la vicinanza dello sguardo alla materia di cui è composta la Terra implica la necessità di immergersi al suo interno, di considerare quello spazio come fosse il proprio spazio vitale di cui la propria materia (il corpo umano) fa parte tanto quanto l’acqua, la roccia, la sabbia, l’aria.

cornice legno, 1/6+1AP, cm 31×42. Courtesy l’artista
Infine vi chiederete perché «Quello che ricordi ti salva»? Questo titolo ci sprona a rammentare quanto sia necessario essere all’interno della vita del Pianeta per sentirsi parte di un insieme. L’artista, nelle sue opere, compie il gesto “dimenticato” di avvicinarsi, scartando dall’inquadratura il disordine visivo che crea dispersività e fa morire la bellezza e la grazia, la forza e l’incanto. E infatti, il verso del poeta americano William Stanley Merwin, scelto come titolo della mostra, è significativamente tratto dal poema Imparare una lingua morta ed è da intendersi come un monito, come la possibilità di potersi ancora connettere alla natura attraverso il ricordo poiché ciò che al fine riemerge dalla nostra memoria naturale, guardando queste immagini, rende evidente la prospettiva che non sia la Terra a dover essere salvata, questo sa farlo da sola, ma che debba essere l’uomo a salvarsi dal suo stesso oblio.
LA MOSTRA
«Quello che ricordi ti salva» (W.S. Merwin)
Retrospettiva di Beba Stoppani, a cura di Giovanna Gammarota il cui testo critico è qui riprodotto per gentile concessione
24 gennaio – 27 marzo
BAG Bocconi Art Gallery
MIA Photo Fair in collaborazione con Red Lab Gallery