Frammenti di un’estetica
del camminare in montagna

Foto © Matteo Gerosa
MEMORIA

Abito qui, dove s’innalza la Montagna Orobica, fiera e ‘ferrigna’, Himalaya bonsai, con le sue aspre guglie, i torrioni massicci, stagliati nel cielo, che in tarda estate si tinge di un blu oltremare, quasi surreale. È musa, ancora vivente, del celeberrimo Addio ai monti.
Lucia –ragazza umile, dotata di modestia un po’ guerriera, tipica delle contadine, ma anche eterea e spirituale, mostrando una bellezza senza sfarzo, propria dei fiori di campo che, pur non indossando gli abiti sontuosi dell’orchidea o dell’ibisco, ameresti ogni giorno, senza mai stancarti della loro delicata grazia–, lascia la sua terra natia, con la testa voltata indietro, guarda i monti e canta così questi luoghi mirabili:

Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti1.

Forse si può dubitare del fatto che una semplice filatrice avrebbe potuto concepire un componimento di tale levatura lirica, ma ci s’ingannerebbe, perché Manzoni è oltre il pregiudizio e mette a disposizione di Lucia la sua arte poetica, facendosi quasi strumento nelle mani della protagonista che è, sì, una ragazza semplice, ma niente affatto sprovveduta. Al contrario, Lucia è umile e, proprio perché umile, è la ‘vestale’ del romanzo, la custode dell’essenza, dell’ideale che non è proprietà esclusiva dei sapienti, ma alberga nell’animo di ogni essere umano, in cui riposa, come un seme, la nostalgia della Verità.

Foto © Matteo Gerosa
RICERCA

Con identica aspirazione m’incammino su quei monti, percorrendo vie che s’inerpicano ripide, ‘sorgendo’ dai laghi Briantei e dal Lario, fino alle vette, lambendo la volta azzurra, screziata di cirri bianchi che, come onde setose, si frangono sugli speroni di roccia.
Mentre salgo, un passo dietro l’altro, percepisco la fatica, avverto i segnali del corpo, che si presentano evidenti all’attenzione. Le gambe sembrano appesantirsi, il battito del cuore è affrettato, il respiro affannato, il sudore scorre sulle braccia e sulla fronte. Anche i pensieri e le domande si affacciano spontaneamente: cosa sto facendo? Cosa cerco? Cosa mi spinge a salire, per poi ridiscendere? Perché mi attrae questo gesto apparentemente privo di senso, dell’andare in su, che si risolve in un necessario tornare giù? M’interrogo come fossi immemore del legame che unisce gli opposti momenti: «la via in su e la via in giù sono una unica e medesima via»2?
Le prime risposte che si manifestano sono quasi istintive. È l’impulso della sfida a guidarmi? Forse sì. Una parte di me sente una ‘non proprio ben definita’ propensione alla gara. Questa competizione è ingaggiata tra me e me, non certo con altre persone o con la montagna. Sarebbe insensato cercare di prevalere in un confronto in velocità con gli altri, non tanto perché ritengo possano essere più veloci di me –la verità è che tutti sono più veloci di me, bimbi compresi–, ma perché la camminata veloce mi priverebbe di un ritmo intimo, di quella ‘punteggiatura’ consona alla contemplazione, che mi dona un piacere indicibile e, a tratti, misterioso. La velocità mi ostacola nel notare, nell’osservare con la giusta calma, affinché mi possa accorgere di ciò che esiste attorno a me: il color cremisi delle foglie dell’acero, il profumo dei ciclamini selvatici, la rugiada che disseta la terra di prima mattina, lo schiudersi delle corolle baciate dai raggi del sole o un asolo di vento che gioca con le fronde dei faggi.
La gara non è neppure con la montagna, perché sono insensibile all’enfasi della conquista –che, comunque, farebbe sorridere, pensando a queste cime–, ma perché quel tipo di ricerca mi apparirebbe sottilmente legata all’esercizio di potere e di possesso. Non è la proprietà a muovermi. Non voglio scendere a valle e far sapere come quella vetta, che mi sfidava con il suo incombere, con la sua potenza eccedente rispetto alla mia pochezza, sia stata ‘sottomessa’, sia stata sconfitta, quasi come l’arrogante Golia, piegato dal piccolo Davide. Quando salgo, invece, risuona il pensiero che quella sovrana, affascinante e spaventosa, splendida e terribile, possa essermi meno lontana, meno estranea e io, dopo averla visitata, conosciuta un po’, dopo essere entrato nella sua incantevole dimora, possa percepirmi appartenente a essa, più umano in quanto particella della sua ineffabile natura.

Foto © Matteo Gerosa

Mi è abbastanza indifferente la montagna come luogo d’esercizio fisico. Non c’è alcun giudizio negativo nei confronti di coloro che la interpretano così. Cosa c’è di più bello e gratificante del fare sport tuffati in una natura meravigliosa, in spazi sconfinati, respirando aria pulita –più pulita che altrove, potremmo dire meglio, con un po’ di prudenza–? Personalmente vivo la montagna più come fine, che come mezzo. È la sua inseità a sedurmi, quel suo implicito donarsi che sottintende una relazione e che mi fa ‘divenire’ altro, trascendendomi in essa.
Più a fondo, come ho accennato, c’è la contesa con me stesso, la mia lotta quotidiana con la parte che si culla nell’isolamento, vivendo l’esperienza del passeggiare sui monti come evento solipsistico, estraniante, in grado di ‘portar via’ dal mondo caotico del lavoro, ma che incoraggia un vissuto scisso, in cui l’alpe diviene solamente nascondiglio, luogo che rimane non integrato, come ciò che resta nelle povere mani dopo che si è stati ‘in pausa’ dalla vita, lavorando. Questa competizione trova, a volte, il suo compimento nella ricerca d’armonia tra ciò che sperimento quotidianamente al lavoro e il vissuto dei monti. È l’opportunità che mi offre la sommità di osservarmi dall’alto, di sorprendermi, di lasciarmi prendere ‘come-da-sopra’, per camminare con più levità, senza sussiego, rimanendo collegato alla terra, alla roccia, all’acqua, alle piante, agli animali e a tutto ciò che mi rende parte del territorio in cui vivo. Inoltre mi dà l’occasione di custodire la sua immagine nel cuore, quando m’inoltro ‘nell’ampiezza uniforme e nelle città tumultuose’, per donarla, a mia volta, agli altri.

Foto © Matteo Gerosa
INCONTRO

Quando la respirazione si fa meno concitata e il pulsare nel petto riacquista un ritmo regolare –o quasi–, l’attenzione si espande più facilmente all’esterno. Gli occhi, abbassati sugli scarponi, riconoscono le pietre antiche delle mulattiere, dei sentieri e dei tratturi. A volte sono sassi taglienti, ma, più spesso, sono così levigati a causa degli innumerabili transiti di bestie da soma e persone, da mutarsi in sapone, dopo pochi istanti di pioggia. Talora sono fiancheggiati da muri a secco ornati d’erba, rosmarino, felci, fiori e muschi. Sono piccoli pianeti abitati da mille animaletti: api, ragni, farfalle, vespe, libellule, mantidi, scarabei, lucertole, ramarri e serpenti… In altri punti, l’unico confine è lo spazio sottostante, strapiombante su boschi, cuspidi argentate, contrafforti e archi, come un’immensa cattedrale plasmata dagli elementi.
Un passo ancora e m’imbatto in un torrente. L’acqua e la roccia sono sorelle, unite in un divertimento continuo di reciproca danza. Insieme, si muovono al suono ora del flauto e dell’ottavino, ora della grancassa e dei timpani. Poco lontano, accanto a un cespuglio di rosa canina, riposa, in una macchia di sole, sulla sabbia umida, una ‘francisciredi’ color mattone acceso, su cui spicca il tipico arabesco nero. Con l’occhio da gatto e la lingua forcuta sembra aver già notato il mio arrivo. Mi avvicino con cautela. Prendo la fotocamera e scatto. Lei, prudente quanto me o, probabilmente, più di me, scivola, pacifica, sotto i sassi, tra spine e foglie ‘dentate’. Un richiamo d’allarme. Sobbalzo. Levo lo sguardo bruscamente. Un gheppio si libra nell’aria, pressoché fermo, nella tipica posizione dello ‘spirito santo’, a pochi metri dalla mia testa. Forse non sono stato io a impaurire la mia compagna di viaggio.
Il sentiero s’arrampica di più, lascia i carpini, le betulle, i frassini ed entra in un bosco di faggi. La luce dorata ammanta ogni cosa. So che questa è una delle zone preferite dai camosci. Cammino quindi con ‘passo felpato’. Passano alcuni minuti e avvisto una femmina, seguita da un maschio. Proseguo lentamente, seguendo sempre il sentiero. Loro mi osservano guardinghi. Mi viene spontaneo parlare a bassa voce, con tono tranquillo: «Ehilà cari. Non voglio farvi del male. Però, se scappate non riesco a fotografarvi». Loro sembrano dubbiosi, ma si avvicinano incuriositi. Si fermano. Click! La foto è fatta. Li saluto con un inchino e mi muovo, molto quietamente.
A poco a poco le piante si diradano, per scomparire del tutto, lasciando solo erba, muschio e ghiaia candida che riflette il sole. L’ultimo ‘strappo’ e sono in cima. Da lì, ecco, il paesaggio!
Che sensazione indescrivibile, fatta d’ammirazione, sorpresa e trepidazione, che mi fa sentire il desiderio irrefrenabile di trasmettere ciò che provo agli altri e, insieme, si presenta come punto di contatto tra ciò che sta fuori di me e ciò che sta dentro, alludendo –seppur in maniera non oggettivamente attingibile­– ad altro:

Il sublime si può definire in questo modo: è un oggetto (della natura) la cui rappresentazione determina l’animo a pensare nell’irraggiungibilità della natura la presentazione delle idee. Letteralmente, e da un punto di vista logico, presentare le idee non è possibile. Quando però noi estendiamo (matematicamente o dinamicamente) la nostra facoltà rappresentativa empirica in vista dell’intuizione della natura, interviene immancabilmente la ragione, come facoltà dell’indipendenza della totalità assoluta, a produrre il sia pure inutile sforzo dell’animo, di adeguare alle idee la rappresentazione sensibile. Questo sforzo, ed il sentimento dell’irraggiungibilità dell’idea da parte dell’immaginazione, già di per sé presentano la finalità soggettiva del nostro animo, nell’uso dell’immaginazione, in vista della sua destinazione sovrasensibile, e ci costringono a pensare soggettivamente la natura stessa, nella sua totalità, come la presentazione di qualcosa di sovrasensibile, senza potere realizzare oggettivamente tale rappresentazione3.

Allo stesso tempo, l’incontro con la montagna evoca in me meraviglia mista a sgomento, qualcosa che assomiglia a ciò che i Greci chiamavano θαῦμα (thauma), e che Platone e Aristotele ponevano all’origine della filosofia. Una parola che racchiude la complessità di un sentimento di sorpresa, di timore, finanche di smarrimento. È un accadimento che spinge costantemente alla domanda, alla riflessione e alla ricerca di senso, portando all’emersione il limite.
Il mio corpo è lì a ricordarmelo. Prima di tutto è con lui che entro in relazione. C’è l’energia della salita, insieme alla fatica. È una lotta combattuta dalle scissioni duali e dalle categorizzazioni che affollano la mia mente. Per comporre questo conflitto non basta il piacere dell’estasi per il bello o l’impulso per l’avventura, è indispensabile forza di volontà, come in qualsiasi storia d’amore che non si accontenti d’essere utopica, ma aspiri al reale.
L’altro collegamento che mi sembra di poter cogliere è quello con le piante, i fiori e gli animali. Non riesco ad avere ben chiaro da dove mi venga, ma ho l’impressione di sentirmi parte integrante di quell’ecosistema popolato da altri esseri viventi e, soprattutto, intuisco che quello è il mio posto, la mia vera casa.
Nel mio ‘saliscendi’ sui monti, incontro spesso un animale d’altro tipo. È il più feroce di tutti, quello che temo maggiormente. Persino le belve più aggressive si guarderebbero bene dal misurarsi in crudeltà con lui. È inappagabile e pare sia il più dannoso per l’ambiente: il bipede implume, specie cui io stesso appartengo. Ciò che accade in montagna, tuttavia, me lo fa apparire meno ostile. Ne è segno tangibile il salutarsi reciproco, che distingue i veri montanari dai semplici turisti. L’habitat montano è impegnativo, sfidante, talora pericoloso. Il saluto vicendevole attiva le funzioni comunicative che stabiliscono un legame, che chiedono e promettono aiuto. Scambiarsi anche solo un cenno ricorda che tra gente di montagna vi è parentela, quasi una consanguineità che rinvigorisce l’antica predisposizione alla collaborazione, all’appartenenza e alla coscienza dell’interdipendenza, facendo la differenza tra vivere e morire.
Può darsi sia un abbaglio, ma in quegli incontri occasionali, nei ‘buon giorno’ accompagnati frequentemente da sorrisi o gesti del capo,  trovo maggiore prossimità e autenticità che in tanti ambienti affollati, in cui il senso di solitudine ed estraneità m’afferra, come un abbraccio viscoso e mi riconduce a una forma d’angoscia primordiale:

A Cloe, grande città, le persone che passano per le vie non si conoscono. Al vedersi immaginano mille cose l’uno dell’altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi. Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s’incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano4.

Eppure, il rapporto con i miei simili m’interroga a un livello più profondo, esistenziale –direi–, una questione così ‘indecidibile’ per me, da risultare aporetica: preferisco andare da solo o in compagnia? L’urside che c’è in me apprezza il silenzio, la possibilità di tendere i sensi per potersi ‘accorgere’, per centrarsi su ciò che sta vivendo, istante per istante. Nondimeno, c’è un’altra parte, sensibile alla forza irriducibile della ‘partecipazione al bello’, che trasforma un’escursione con gli amici in ‘bellezza elevata a potenza’.
In ogni caso, non avendo mai capito bene cosa scegliere, continuo a tenere in bilico questi due diversi modi del camminare, sapendo che possono illuminare in modo proprio le mie amate montagne.

Foto © Matteo Gerosa
MEDITAZIONE

Quando dico che amo le ‘mie’ montagne, che è bello vagabondare sui ‘miei’ sentieri, sono consapevole che sto esprimendo qualcosa di parziale, che fa riferimento al registro emotivo e sentimentale, una sorta di inflessione personale che esprime solo una piccola scheggia del fenomeno.  Non perché, banalmente, le montagne non sono proprietà dell’essere umano, ma perché l’esperienza stessa della montagna –la costruzione della sua storia, della sua simbologia, del suo significato­– è anche narrazione corale. Mi capita di trovare lampi di tanta bellezza nella poetica umana, che legge, in un gioco di specchi, il riflesso di ciò che la montagna può rappresentare per l’essere umano:

Montagne care, voi non mi mentite
non mi mandate via, né mai fuggite.
Quegli occhi sempre fissi sempre uguali
mi guardano lontani, viola, lenti
quando fallisco o fingo, o quando invano
mi attribuisco titoli regali.
Mie potenti madonne, sotto il colle,
abbiate cara la monaca riottosa
che si dedica a voi completamente.
Il suo ultimo gesto di pietà
quando il giorno svanisce su nel cielo
è levare lo sguardo verso voi5.

Le montagne sono sincere, un rifugio, un orientamento stabile, un punto di riferimento identitario, che mi riporta a ciò che sono. Mi ridimensionano quando m’inorgoglisco per i successi o quando mi sento annientato dall’insuccesso, giungendo a figurare l’orizzonte ideale cui indirizzare l’ultimo saluto al mondo.

Occupano come immense donne
la sera:
sul petto raccolte le mani di pietra
fissan sbocchi di strade, tacendo
l’infinita speranza di un ritorno.
Mute in grembo maturano figli
all’assente. (Lo chiamaron vele
laggiù – o battaglie. Indi azzurra e rossa
parve loro la terra). Ora a un franare
di passi sulle ghiaie
grandi trasalgon nelle spalle. Il cielo
batte in un sussulto le sue ciglia bianche.
Madri. E s’erigon nella fronte, scostano
dai vasti occhi i rami delle stelle:
se all’orlo estremo dell’attesa
nasca un’aurora
e al brullo ventre fiorisca rosai6.

Sono anche madri, che attendono silenziose il ritorno di un marito, partito e mai più ritrovato. Sono immagini di donne che aspettano il fiorire della vita. Non sono solo metafora della pazienza e della resilienza –questo è ciò che s’intende a prima vista–. Se si va più in profondità, appaiono come l’incarnazione della Speranza che non si estingue mai, nonostante tutto.

In una pensione di montagna andrebbe,
nella sala da pranzo scenderebbe,
i quattro abeti di ramo in ramo,
senza scuoterne la neve fresca,
dal tavolino accanto alla finestra guarderebbe7.

Mi ricordano che avvicinarsi osservando è il primo moto verso il rispetto per ciò che mi circonda, senza il dovere o, addirittura, il diritto di lasciare traccia del mio passaggio. Ciò mi eserciterà a guardare gli altri non sotto il giogo della necessità di giudicare, nell’illusione di situarmi correttamente da qualche parte, non importa quale, basta che ne sia rassicurato.

La donna alzò lo sguardo alle cime e fu come ritrovare un’abitudine mai estirpata, sentirsi ridisegnare tra solchi remoti, per lungo tempo abbandonati. Non rivedeva la sua terra da decenni. Aveva attraversato oceani per ritornare dove tutto era iniziato, ora che tutto sembrava essere stato cancellato. Eppure i suoi occhi riuscivano ancora a seguire gli antichi camminamenti per la fienagione che si inerpicavano chiari fino ai magri prati dell’altura. Il pal era lassù, oltre i boschi, con la sua corona di rocce e di trincee. Mai più solo un misero pascolo, ma sacrario benedetto.
I calcinacci scivolavano tra le sue dita assieme al terriccio.

Riconobbe nel vento il richiamo della valle.
E il ricordo di ciò che era stato tornò a scorrerle nel sangue8.

Foto © Matteo Gerosa

I monti sono memoria del pianeta, con il suo ribollire magmatico, sotto la crosta increspata, stratificata, in perenne cambiamento, scolpita dal tempo. Sono un archivio etnografico dell’attività umana, del sudore per trarre sussistenza da un ambiente severo, in una versione del vivere ancora legata alla natura e alle stagioni. Sono monumenti ai caduti nelle cruente battaglie impegnate sui pendii e testimonianze degli alpinisti che lì, per passione, hanno perso la vita.

Torrenti, ruscelli, cascate,
magiche polle d’acqua, vallette fatate:
non mi stupirei se in questa valle così ricca di incanti…
una bellissima Ninfa mi apparisse davanti!
[…] Allargo le braccia e raggiungo le alte quote: infinite praterie,
finalmente prendono vita le più folli fantasie!
Una marmotta, mi sorride, e mi dice: “Benvenuto!”
evidentemente, mi ha riconosciuto…
Allora prego Dio levando gli occhi in su
e mi metto anche a parlare con chi non c’è più
Tutto è possibile
sopra le nuvole9.

Il contesto percettivo in cui sono immerso attiva la fantasia. La montagna è uno dei posti ideali per attribuire, a ciò che cade sotto i miei sensi, significati provenienti da altri mondi, talvolta mitici, altre volte spirituali, che mi consentono di dialogare con le persone care che quei sentieri, un giorno, hanno percorso con me e ora dimorano in un aldilà, che in montagna mi è meno distante.
Più approfondisco la relazione con la montagna, più il suo universo fantasmatico mi sembra permettere altri livelli di accesso all’esperienza, fino a incontrare le pratiche di consapevolezza:

Rispetto alla meditazione, le montagne hanno molto da insegnare, quale archetipi significativi in tutte le culture. Le montagne sono luoghi sacri e l’umanità vi ha sempre cercato guida spirituale e rinnovamento. La montagna è il simbolo originario della Terra (Monte Meru), la sede degli dei (Monte Olimpo), il luogo in cui il capo spirituale incontra Dio e ne riceve i Comandamenti (Monte Sinai). Le montagne comunicano un senso di sacralità e personificano timore e armonia, asprezza e maestà. Elevate sopra il resto del mondo, la loro stessa presenza attira e incombe. La loro natura è primigenia. Dura come la roccia, solida come la roccia. Le montagne sono luoghi di visioni, dove è possibile commisurare la scala panoramica del mondo naturale e la sua commistione con le fragili ma tenaci radici della vita. […] Noi siamo montagne che respirano, si muovono, danzano; possiamo essere solidi come rocce, fermi e incrollabili e nel contempo malleabili, teneri e volubili. Disponiamo di un ampio arco di potenzialità, possiamo vedere e sentire, sapere e guarire. Possiamo imparare, crescere, guarirci, soprattutto se sapremo imparare ad ascoltare l’armonia interiore delle cose e a mantenere la perpendicolarità della montagna nel bene e nel male10.

Avvicinarsi a quest’attività del ‘portare l’attenzione’ a sé, attraverso le qualità immaginate della montagna, impegna in una disciplina esercitata quotidianamente, con pazienza e lentezza, come il montanaro che cammina adagio per i sentieri. Mentre risale, comprende la montagna, la ‘assimila’ e ne è ‘assimilato’, divenendo una cosa sola con essa. Quando sarà lontano la porterà in sé, la potrà vedere, percepirsi presente ed essere se stesso:

Per cominciare la meditazione della montagna, adottiamo la posizione seduta […]. Chiudiamo gli occhi e immaginiamo, davanti all’occhio della mente, una montagna che già conosciamo o che non conosciamo direttamente, ma in immagini, oppure una d’invenzione. Osserviamola, osserviamone i colori in lontananza, osserviamo il cielo, le eventuali nuvole: manteniamo questa immagine della montagna, attendendo che la mente aggiunga sempre più particolari, nella vegetazione. “Mi sembra quasi di poter scorgere scroscianti ruscelli, profumati e ampi alpeggi, dalla larga base che spunta dalla crosta terrestre, lungo i versanti, la montagna si erge fino alla cima o alle cime, rotondeggianti o appuntite, o un tavolato, una serie di cime o una sola cima” […].
La montagna è magnificamente immobile, irradiata da una potenza elevatissima di calore di luce diretta dal globo solare, che è in perfetta corrispondenza con la sua vetta o le sue vette, ed al giorno segue l’imbrunire e poi  la notte e io posso sempre sentirmi quella montagna e riposare con  fuori stelle, fiori, luna, e con dentro la montagna, la sua base rocciosa immutabile. “E sento il mio respiro: è una montagna che respira, flessibile, elastica…
Porterò all’uscita dalla meditazione le emozioni positive e i cambiamenti che l’incarnazione con la montagna, nella mente più profonda, mi consentirà. Nella mia essenza di montagna e nelle ore e nei giorni a venire incarnerò questa presenza, la potrò visualizzare, a ogni cambiamento attorno o dentro”11.

Foto © Matteo Gerosa

NOTE

1 Alessandro Manzoni, I promessi sposi, Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, Edizione riveduta dall’autore. Storia della Colonna Infame inedita. Milano, Tip. Guglielmini e Redaelli, 1840.
2 Eraclito, Diels-Kranz, 22 B 60.
3 Immanuel Kant, Critica del giudizio, a cura di Alberto Bosi, Unione tipografica torinese, Torino, 1999, par. 29, 115-116.
4 Italo Calvino, Le città invisibili, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1993, p. 51.
5 Emily Dickinson, Montagne care.
6 Antonia Pozzi, Le montagne.
7 Wisława Szymborska, In pieno giorno.
8 Ilaria Tuti, Fiore di roccia, Longanesi, Milano, 2020, pp. 9 e 10.
9 Michele Garimberti, Varroncello.
10 Jon Kabat-Zinn, Dovunque tu vada ci sei già, ed. Kindle, cap. La montagna e la meditazione, Corbaccio, Milano, 1997.
11 Ennio Preziosi, Corso di meditazione di Mindfulness, Franco Angeli, Milano, 2014, pp. 77-78.

Le immagini che accompagnano questo articolo sono di Matteo Gerosa. Laureato in Ingegneria al Politecnico di Milano, la sua passione per i video e la fotografia lo ha portato ad approfondire questo ambito d’interesse a livello professionale, fino a fondare una società di comunicazione e marketing – TIF creativehub s.r.l. Oggi svolge prevalentemente consulenza aziendale, aiutando aziende e professionisti a rafforzare la loro immagine, attraverso la presenza online e offline.