La Storia che vive due volte / 2. Ri-generare la memoria. Lo sguardo delle registe

Frame tratto da “Un’ora sola ti vorrei” di Alina Marazzi, (2002)

«Tu non hai visto niente a Hiroshima… niente.»
«Ho visto tutto… tutto.»
(Marguerite Duras, Hiroshima mon amour, Alain Resnais, 1959)

«Chi non ha memoria vive nella menzogna»
(Adrienne Rich)

A conclusione della prima parte di questo contributo, accennavo a come, in questo inizio di millennio e in varie parti del mondo, i filmmaker abbiano fatto crescente ricorso alle pratiche del reenactment. Nella nostra lingua, si parla di ricostruzione o rievocazione. Accezioni differenti, ma in fondo complementari, a seconda che l’enfasi sia rivolta più alla dimensione performativa o a quella simbolica, di una ricerca di fatti del passato, spesso drammatici, che è scavo o inseguimento di tracce, spesso abilmente cancellate. Il regista cambogiano Rithy Pahn, sopravvissuto da ragazzo ai massacri di massa del regime di Pol Pot nella seconda metà degli anni Settanta, ci avrebbe insegnato che più che l’ossessione verso la ricerca dell’‘immagine mancante’ (titolo di un suo straordinario film del 2013) – immagine che spesso non esiste proprio perché cancellata, se non nella ‘memoria traumatica’ dei testimoni – è importante l’immagine stessa di quella ricerca che il cinema permette e offre a tutti noi, come forse nessun altra arte.
Ma riportare a noi la Storia – o ri-generarla – attraverso le immagini non vuol dire riprodurla come fosse un riallestimento (restaging) teatrale o una installazione artistica utile ad attirare, magari morbosamente, ‘turisti’ o spettatori distratti1. Che l’istanza di partenza sia o meno direttamente autobiografica, l’impegno degli autori e delle autrici richiederà una consapevole adesione, in primo luogo etica, a metodi di ricerca rigorosi e appassionati. Come abbiamo visto, sempre nella prima parte, da alcuni esempi recenti del cinema italiano, gli esiti potranno poi essere tradotti da una narrazione in tutto o in parte finzionale e che faccia anche uso di ‘effetti speciali’. Le capacità creative dei filmmaker, del resto, possono avvalersi oggi di prospettive narrative inedite, di pratiche intermediali ‘ibride’, di possibilità tecnologiche del tutto nuove. Sta a testimoniarlo anche il lavoro, sempre più diffuso e consapevole, di uso e ‘ri-uso creativo’ degli archivi pubblici e privati che aiuta a sviluppare quella ‘immaginazione storica’ studiata dai filosofi oltre che dagli storici e, in definitiva, a trovare i varchi o far riemergere gli strati più profondi della memoria, soprattutto nella sua dimensione pubblica.

La regista belga Chantal Akerman
Segreti di famiglia

«Ho avuto la sensazione per molto tempo – mia madre è stata prigioniera nei campi e non ha mai detto una parola al riguardo – che io dovessi parlare per lei, il che è assurdo perché non si può parlare per qualcun altro. Così ero ossessionata da questo, dalla sua vita”2. In queste parole di Chantal Akerman, regista belga ma in realtà spirito nomade e apolide, sta la chiave per capire il senso di quella lunga, inesausta ricerca di identità, individuale e sociale, che è stato il suo cinema, per quasi mezzo secolo: dall’esordio, appena diciottenne, in tutti i sensi ‘esplosivo’, di Saute ma ville (1968), sino a No Home Movie (2015), e in tutta la sua produzione artistica, di autrice totale. In questo film-testamento di una carriera artistica sempre rivolta al dialogo tra linguaggi e alle sperimentazioni, anche tecnologiche (come nella sue tante installazioni film-based che lavoravano sulla nostra percezione spazio-temporale), tornano i temi-guida della sua opera: il viaggio, l’assenza, la distanza, i confini – geografici, del corpo, dei generi, dei sentimenti. Ma il film è soprattutto l’atto estremo e conclusivo dell’ossessione verso la figura materna, di quella sua costante “presenza-assenza”, che è nella natura anche del cinema. Lo aveva detto lei stessa nel documentario di Marianne Lambert, sua antica collaboratrice, I dont’belong anywhere: The Cinema of Chantal Akerman (2015), un viaggio emozionante tra le città e i set della sua vita e della sua visione artistica: “mia madre è il centro del mio lavoro, ed è per questo che ho paura, ora che lei non c’è più, avrò ancora qualcosa da dire?”. La chiusura di No Home Movie (film che ebbe una lunga gestazione), il documentario della Lambert con quelle parole premonitrici: tutto corre in parallelo, nell’ultimo frenetico scorcio della sua vita. La regista filma la madre per l’ultima volta, in presenza, nel suo appartamento di Bruxelles, ma anche a distanza, dagli Stati Uniti, attraverso lo schermo del computer in ripetute conversazioni via Skype. Riprese che sentono e trasmettono la pressione del tempo che sta finendo (un’altra ossessione dichiarata dalla regista). La madre, ormai malata (morirà prima che il film sia ultimato) si offre alla camera come una bambina, ora allegra (in effetti vediamo spesso la madre ridere nel film, ma sappiamo che la risata può spesso essere una maschera), ora ribelle (“perché mi stai filmando?” chiede a un certo punto, stremata); la regista, anch’essa malata, non reggerà alla sua morte e si suiciderà poche settimane dopo l’anteprima mondiale del film al Festival di Locarno del 2015 e l’inaugurazione della sua installazione NOW alla Biennale di Venezia di quell’anno. Nella sua autobiografia, Ma mère rit pubblicata in Francia nel 2013 (e inedita in Italia) la Akerman ripercorre nei dettagli quel rapporto tormentato, che nasceva anche dalla volontà materna di occultare il suo passato, le sue radici di ebrea polacca per le quali fu deportata con i genitori ad Auschwitz, e perfino il suo nome (il cognome era rimasto quello paterno, che poteva essere scambiato per fiammingo e persino per tedesco).

I dont’belong anywhere: The Cinema of Chantal Akerman, regia di Marianne Lambert (2015)
Diari ritrovati

Il passato come segreto indicibile, avvolto dal silenzio delle convenienze sociali o politiche. Legato dalla medesima prospettiva fortemente autobiografica, ma specularmente opposto, rispetto alla Akerman, nel vissuto della relazione con la madre, è il film italiano, al quale avevamo già fatto cenno, Un’ora sola ti vorrei (2002). Un film divenuto in questi venti anni un’opera di riferimento, che riceverà numerosi riconoscimenti, anche all’estero, per la cura e il talento espressivo mostrati nel ri-uso dei diversi materiali d’archivio e per l’approccio senza schermi e coinvolgente con cui racconta la propria drammatica vicenda. Decidendo di prestargli la sua voce Alina Marazzi incarna il fantasma della madre Luisa Marazzi Hoepli, detta Liseli, morta suicida a soli 33 anni, nel 1972, quando lei era appena una bambina. Una madre, rimossa dalla memoria familiare, di cui lei non ricordava nemmeno il volto, ri-conosciuta solo attraverso i filmini girati dal nonno, il celebre editore milanese Ulrico Hoepli, attraverso quasi mezzo secolo, tra il 1926 e quel tragico 1972. Selezionando e digitalizzando le immagini di famiglia, la regista compie un gesto, doloroso e coraggioso a un tempo, di riappropriazione identitaria attraverso la macchina – per eccellenza nostalgica e fantasmatica – del cinema. Nella sua ricerca di verità, intima e collettiva, che smentisce l’idilliaco autoritratto borghese dei filmati, si servirà soprattutto delle parole materne, tratte dal suo diario semisegreto; ma anche delle sue lettere e di altri documenti esterni: ipocriti articoli di cronaca, pietosi necrologi, e, in particolare, i tanti burocratici referti medici delle diverse case di cura dove Liseli fu mandata sin dalla fine degli anni Sessanta e dai quali traspare chiaramente il forte stigma sociale attorno al tema della depressione e del disagio psichico, specialmente delle donne, in quel periodo che pure vedeva in Italia l’inizio di un chiaro cambiamento sociale e politico.

Un’ora sola ti vorrei, regia di Alina Marazzi (2002)
Lo sguardo che ri-media

In questi venti anni, diversi filmmaker italiani hanno portato avanti una ostinata e coraggiosa ricerca sui fatti storici del nostro passato, in particolare rispetto alla storia dell’intero Novecento: un ‘secolo lungo’, il secolo del cinema. Spesso, hanno potuto usufruire nei loro percorsi di ricerca del sostegno di iniziative specifiche (tra le quali citiamo, a titolo di esempio, il Premio Zavattini e le attività laboratoriali ad esso connesse), le reti di collaborazione instaurate tra gli stessi documentaristi e gli enti professionali e istituzionali, soprattutto a livello regionale, e le sinergie, spontanee o programmate, tra archivi pubblici e privati, specie rispetto allo sconfinato e magmatico giacimento dei ‘film di famiglia’ (sempre nel 2002, nasceva a Bologna l’associazione Home Movies-Archivio nazionale del film di famiglia e da allora numerosi altri archivi similari sarebbero sorti, anche su base regionale).
Sono state soprattutto le registe, in questi ultimi anni, a ingaggiare un confronto serrato con la memoria privata e collettiva, tra testimonianza e creazione, mostrando uno sguardo assai mobile e aperto alle innovazioni, sia rispetto alla narrazione e alla messa in scena che al montaggio di trame complesse, intessute dei fili e colori diversi di materiali provenienti da fonti eterogenee. Suscitando il coinvolgimento emozionale e riflessivo di noi spettatori, hanno offerto un riparo alla memoria: nel duplice senso di rifugio, di luogo protetto, fisico o ideale, ma anche di un’azione riparatrice, un rimediare e aggiustare cose e sentimenti. Dimensioni e azioni strettamente connesse alle capacità, fisiche e psicologiche, di gestazione, generazione, redistribuzione, attenzione, propri del femminile e del suo sguardo clinico, dunque curante, sul mondo e su tutti gli esseri viventi.
Voglio dunque ricordare e brevemente commentare qui alcune opere documentarie a regia femminile apparse nello scorso decennio, e anche all’inizio di questo. Titoli scelti in base a motivazioni personali, dunque del tutto parziali, legate a scoperte e incontri professionali in festival e rassegne di cinema, oltre che alla condivisione degli esiti di tali opere, sul piano estetico come su quello etico.

Tante vite, una sola morte

È ancora un diario nascosto, tenuto segreto per tutta la vita ma non distrutto, perché giungesse, integro attraverso il tempo, alla figlia, il fulcro narrativo di Tutte le anime del mio corpo di Erika Rossi, 2016 (la regista triestina, che aveva esordito nel 2011 con un documentario sul lavoro di Franco Basaglia, di recente ha firmato La città che cura, 2019, su un progetto di coesione sociale per gli anziani soli nelle periferie di Trieste). Nel diario3 destinato alla figlia – Lorena Fornasir, psicoterapeuta e attivista per i diritti umani, in particolare dei giovani migranti che arrivano in Italia dalla rotta balcanica – la madre, Maria Antonietta Moro, rivelava il suo ruolo di partigiana durante la seconda guerra mondiale, dapprima nei gruppi antifascisti jugoslavi operanti nel goriziano e poi nelle ‘Brigate Garibaldi’ italiane. Di fronte a una storia così potente, nel primo piano familiare come nello sfondo storico e geografico – gli anni tragici tra il 1943 e il 1945, il Friuli, terra di confini e intrecci di razze e culture – la regista opta per una drammaturgia domestica e quotidiana e pone la camera all’ascolto del fitto dialogo che la donna conduce, in piani ravvicinati, con se stessa, il marito (il filosofo Gian Andrea Franchi), gli spettatori, sul senso di quel lascito e del lungo silenzio che lo ha preceduto. Le spiegazioni, pur se a posteriori, emergono nella loro convincente semplicità: la madre voleva essere vista dalla figlia soltanto nella sua ‘anima’ di genitore, quella storia non poteva essere raccontata o capita per davvero a distanza di tanti anni, e, soprattutto, aveva voluto lasciarle la sua voce di allora, nei suoi 23 anni, quando era una giovane donna piena di ideali e di coraggio. Le parole (tra cui quelle riprese del titolo) dei diari materni – che la figlia legge in voice over – risuonano con grande naturalezza e impatto visivo – ed è un altro merito del film – con le immagini di found footage che la regista seleziona dagli achivi dell’ANPI di Torino e da quello fotografico delle Suore della Provvidenza di Gorizia. D’altra parte, i valori di giustizia e libertà ereditati rivivono fortemente nell’impegno professionale e umanitario della Fornasir4.

Tutte le anime del mio corpo, Erika Rossi (2016)

 

Anche per Marcella Piccinini, scenografa e costumista, assistente per anni di Marco Bellocchio, toscana ma bolognese d’adozione, una delle spinte più profonde per realizzare un film su Joyce Lussu (oltre all’incoraggiamento dello stesso regista piacentino) nasceva, per sua ammissione, dai silenzi familiari (la storia di un nonno partigiano, torturato dai fascisti, del quale dopo la guerra nessuno dei suoi voleva parlare). La mia casa e i miei coinquilini. Il lungo viaggio di Joyce Lussu (2016, che avrebbe vinto numerosi riconoscimenti), girato interamente in pellicola con preziosi inserti d’archivio, ricalca il graduale percorso di avvicinamento della regista a questa complessa figura di donna, militante, intellettuale: Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, coniugata Belluigi e poi Lussu, nata nel 1912, morta nel 1998, per l’anagrafe. Una vita lunga un secolo e più avventurosa ancora di quella del marito, il celebre scrittore e uomo politico Emilio, tra fughe, esilii, viaggi, con lui e senza di lui, dall’antifascismo militante, alle speranze del dopoguerra, e poi alla lotta anticolonialista. La storia della giovane partigiana si trasforma via via in quella della scrittrice e traduttrice di poeti e autori militanti come il grande poeta turco Nazim Hikmeth e l’angolano Agostinho Neto, primo presidente del suo Paese dopo l’indipendenza. Un flusso scandito dalla voce, assai particolare e intima, di Maya Sansa che legge le parole della Lussu, ma che ingloba anche brani di una celebre intervista fattale da Bellocchio nel 1994 e oggi custodita dalla Cineteca di Bologna. Il suo sguardo di scenografa porta la regista, nelle scelte d’archivio, a enfatizzare come elemento di contrasto narrativo la centralità della sua casa (a Fermo, nelle Marche) e a valorizzarne gli oggetti quotidiani e gli elementi di decoro che “parlano di lei” eppure sembrano creare una dissonanza e un anacronismo rispetto alla sua instancabile vicenda militante, sempre capace di traguardare, prima di altri, il futuro.

La mia casa e i miei coinquilini (Il lungo viaggio di Joyce Lussu), regia di Marcella Piccinini (2016)
Voi credevate

Le voci delle donne, ma questa volta pubbliche, sono le protagoniste di Libere (2017) di Rossella Schillaci, documentarista torinese di formazione, con studi di antropologia visiva, che sin dall’inizio della sua carriera, nel 2001, ha privilegiato i temi sociali e politici cruciali della contemporaneità (la difesa dell’identità culturale, ma anche il dialogo tra culture, i confini, le migrazioni, la condizione delle carceri). Le voci sono quelle delle donne partigiane, per lo più anonime (anche se alcune di esse giunsero dopo la guerra a far parte dell’Assemblea Costituente), che la regista estrae per frammenti da interviste filmate e successivamente trascritte lungo i decenni montandole poi come una guida sonora, narrativa e tematica, del film. Accompagnano le testimonianze rare immagini e brani di film d’epoca, il patrimonio prezioso dell’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza-ANCR, che produce il film; e ancora, sequenze di film amatoriali, documentari, cinegiornali, provenienti dal ricco archivio di Lab80 di Bergamo (che invece lo distribuisce). Materiali e fonti diversissimi (documenti ufficiali, fogliettini scritti in fretta a matita, foto, volantini, relazioni, veline, tessere, eccetera) per i quali resta fondamentale il lavoro di montaggio, quel ‘gesto delle mani’ paziente e delicato, con cui la regista apre il film introducendo lo spettatore proprio nel ‘santuario’, oggi sempre più tecnologizzato, degli archivi audiovisivi.
Il disincanto percorre però il racconto: le richieste di queste donne, il cui ruolo si era rivelato determinante per la vittoria finale, furono per molto tempo e per larga parte disattese nel dopoguerra («fu una restaurazione e non una liberazione», dice una delle testimoni; «Il fascismo è rinato subito», aggiunge un’altra). La loro lotta, fondata in primo luogo sugli ideali di giustizia e di libertà, era anche uno strumento di emancipazione, al pari di una sessualità “liberata”, e reclamava parità di diritti nel lavoro e nella famiglia. Invece, le donne partigiane dovettero lasciare nuovamente i posti di lavoro, conquistati e difesi con grande fatica, e far ritorno, almeno sino al ’68, al focolare domestico… Recensendo il film concludevo: «Come Noi credevamo di Martone ci ha fatto capire quanto il fallimento dell’epopea risorgimentale avesse le sue radici nel tradimento della “questione meridionale”, anche in questo film brilla l’assenza di una metà d’Italia, a sud di Roma, e questa assenza ci fa comprendere i limiti di fondo di una liberazione che per larga parte d’Italia non frenò il banditismo, le sirene dell’indipendentismo, il potere delle mafie, l’emigrazione».

Libere, regia di Rossella Schillaci (2017)
La memoria “in soggettiva”

Un esempio di successo5 si era avuto qualche anno prima con Terramatta (2012), intelligente e poetica trasposizione filmica operata da Costanza Quatriglio dei diari di Vincenzo Rabito, semi-analfabeta ma ostinato autodidatta. I diari avevano dato vita a un caso letterario dopo la vittoria postuma (nel 2000, quasi venti anni dopo la sua morte) del Premio della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano e la pubblicazione in volume per Einaudi6). Il torrentizio ‘flusso di coscienza’ dell’uomo, originario di un paesino della Sicilia sud-orientale, Chiaramonte Gulfi, attraversa quasi per intero il Novecento snodandosi per oltre mille pagine battute a macchina – per sette anni, tra il 1968 e il 1975 – con una vecchia “Lettera 22” a interlinea zero e senza lasciare alcun margine laterale sui fogli! Orfano e lavoratore precoce, ‘ragazzo del ’99’, richiamato in guerra nel 1915, Rabito è soltanto un minuscolo ingranaggio sul tapis roulant della nostra Storia nazionale e dei suoi tragici eventi cui pure drammaticamente, o picarescamente, partecipa: gli orrori delle trincee sul Piave, le guerre coloniali, la seconda guerra mondiale e l’emigrazione-deportazione nelle miniere di carbone tedesche, sino alla Liberazione, quando, con consapevole auto-ironia, si riscoprirà socialista pur di realizzare il sogno di diventare cantoniere («e da fascista della prima ora subito mi ho fatto partigiano e comunista»).
La Quatriglio, affermata documentarista palermitana attiva sin dalla fine degli anni ’90 e da sempre molto attenta ai temi sociali e politici (anche nelle sue incursioni nella finzione) crea un articolato dispositivo di rappresentazione, dietro cui si mimetizza efficacemente, per confrontarsi con l’opera di Rabito di cui rende più evidente la duplice dimensione, privata e pubblica, di sofferta confessione personale e di memoriale per i posteri, nonché la forza, simbolica e ancestrale, della sua figura umana. Nel continuo scambio tra i due piani temporali, quello della memoria scandito dalle immagini d’archivio e quello del presente, la Sicilia di provincia degli anni duemila, la regista, rileggendo il testo (con la voce narrante, dall’eco mitologica, di Roberto Nobile), assume il punto di vista dell’autore, scoprendo il mondo come “in soggettiva”. Una soggettiva fisica, toponomastica, un lento pellegrinaggio della memoria: «ho filmato i luoghi di Rabito, lui andava a piedi ovunque, ho filmato le strade immaginando il modo in cui lui le percorreva, in un continuo pellegrinaggio di case cantoniere, strade lunghe e polverose, vicoli dolci e silenziosi, la Chiaramonte notturna. Un incedere ostinato e solitario, proprio come il ticchettio della sua macchina da scrivere»7.
Ma soprattutto, l’autrice pone al centro della messa in scena una sfida espressiva tecnicamente rischiosa e che richiama precisamente la sfida forse più difficile per Rabito: quello di una lingua alla quale non era destinato, e che aveva dovuto, per riappropriarsene, reinventare. Se in quei diari ogni parola è “l’esito di una battaglia” e ogni pagina mostra cancellature, correzioni, esitazioni, il dattiloscritto si offre alla Quatriglio come paesaggio impervio o campo minato, da esplorare e da percorrere lentamente, con gli strumenti e la creatività del cinema. «‘La messa a fuoco è la nostra punteggiatura […] ho filmato parole e paesaggi usando lunghe focali e obiettivi che riescono a staccare la lettera dal foglio». Soprattutto nella prima parte – la Grande Guerra concepita quasi come un film muto – la regista (con l’aiuto di Sabrina Varani, direttrice della fotografia) scandaglia con un macro obiettivo le pagine bianche dei quaderni e mette “in rilievo” quelle parole inventate, quasi a farne didascalie: “terramatta” (che la regista ha voluto lasciare un’unica parola8), “madrepadre” per dire madrepatria, “vambadifuoco” per dire bomba, “inafabeto”, a veri e propri calembour come “tintura di odio”. Qualcosa che ricorda le lingue bastarde degli emigrati nei “nuovimondi”.

Terramatta, regia di Costanza Quatriglio (2012)
Memorie migranti

Cercando tracce e indizi delle memorie familiari, altre autrici riavvolgono il nastro del tempo e ripercorrono le rotte di altri viaggi, di sola andata, o anche di ritorno, di nonni, genitori, parenti lontani, ma anche di persone a loro formalmente estranee, ma non straniere. Trascendendo i vincoli di appartenenza alla famiglia di sangue, uscendo da casa, anche solo virtualmente, incontrano altre figure simboliche: nuovi fratelli, o nuovi amici, in un mondo non cosmopolita ma sicuramente globale, dove la tecnologia cancella velocemente le distanze ma non infrange le frontiere, visibili e soprattutto invisibili. Due film recenti creano una sorta di corto-circuito spazio-temporale e un ‘effetto specchio’ narrativo, disegnando nuovi tragitti, forward and backward, aprendosi alla finzione.
Come in ogni viaggio, e ancor più nei viaggi dei migranti (qualunque ne sia il motivo) imprevisti, detours, false piste, naufragi sono sempre in agguato. Il viaggio di Martina Melilli in My Home, in Lybia (2018), devia ben presto, e consapevolmente, dalla sua traiettoria originale, per creare un viaggio parallelo che più che al passato guarda al presente e all’incerto futuro che incombe, in particolare sulle generazioni più giovani, su entrambe le sponde del Mediterraneo. La Melilli, artista visuale multidisciplinare, formatasi tra Venezia e Bruxelles, lavora con il cinema così come con progetti fotografici, installazioni video, performance, e si era messa in luce con il video senza dialoghi Mum, I‘m Sorry che con la consulenza di Cristina Cattaneo, medico legale e antropologa forense, metteva a fuoco dettagli di storie e di effetti personali appartenuti ai corpi senza vita dei migranti annegati.
L’incipit di My Home, in Lybia, il suo ‘pretesto’, è una mappa assai precisa e dettagliata dei luoghi in cui avevano vissuto i nonni della regista, a Tripoli, dagli anni Trenta del secolo scorso sino al golpe di Gheddafi del 1970 e alla precipitosa cacciata dal paese di oltre 20.000 italiani (già dal 2010 l’autrice aveva dato avvio al progetto di archiviazione multimediale “Tripoitalians” sulla comunità italo-libica). Ma la ricostruzione, per forza di cose nostalgica, condotta tramite le testimonianze dei genitori (anche il padre era nato a Tripoli nel 1960) e dei nonni e i materiali dell’archivio di famiglia, cede via via il posto a una nuova storia, che corre su differenti dispositivi narrativi e strategie di visione. Attraverso i social media la regista entra in contatto con Mohammed, uno studente di ingegneria che vive a Tripoli e gli chiede di riprendere i luoghi della memoria della sua famiglia, così come appaiono oggi (quando ancora esistenti). La loro relazione a distanza tra Milano e Tripoli è scandita dalle notifiche delle chat sullo smartphone e riempie progressivamente – e letteralmente – lo schermo, mentre lo scambio di video e immagini, insieme agli squarci delle loro vite private, pur se filtrati da sensibilità culturali assai diverse, genera una tensione al movimento. La regista cercherà allora di raggiungere Tripoli più che per inseguire le ombre dei fantasmi di famiglia verso un desiderio nuovo, fraterno, amicale, o magari anche amoroso. Ma, in assenza di un visto che non arriva mai, dovrà accontentarsi di spingersi sino al punto più vicino alla Libia (Mohammed farà lo stesso rispetto all’Italia), la nostra Lampedusa, dove ogni giorno si ripetono, quasi sempre con ben maggiore tragicità, quegli approdi e quelle storie lontane che noi italiani abbiamo preferito dimenticare.

My Home, in Lybia, regia di Martina Melilli (2018)
Frame da My Home, in Lybia, regia di Martina Melilli (2018)

Ci porta ancora ai nostri giorni ma facendo risuonare il nostro passato, potremmo dire per ‘interposta memoria’, Era domani di Alexandra D’Onofrio, 2018, dove i protagonisti delle vicende sono sollecitati a vero e proprio reenactment delle loro difficili esperienze di migranti e aiutati a riattivare la propria ‘memoria traumatica’ e di liberare le emozioni anche grazie all’utilizzo di altri linguaggi, oltre a quello filmico. Il documentario, prodotto dall’Università di Manchester e distribuito da Gina Films pur se con scarsa fortuna rispetto alle sue qualità, era il frutto di un lavoro partecipato e di una ricerca antropologica durati tre anni (la D’Onofrio è una antropologa di formazione che vive in Grecia). Protagonisti della ricerca (e del film) sono tre giovani egiziani vissuti in Italia senza documenti per quasi dieci anni ma che, grazie a una sanatoria, riescono a regolarizzarsi e a immaginare per la prima volta un vero futuro nel nostro Paese. È allora che, insieme alla regista, decidono di tornare sui luoghi del loro approdo dopo la traversata del Mediterraneo in tre distinti ma altrettanto emozionanti viaggi a ritroso.
Nelle fasi di laboratorio, la regista coinvolge Ali, Mohamed e Mahmoud in processi creativi per esplorare e raffigurare i loro ricordi e sviluppare la loro immaginazione del futuro, servendosi dei linguaggi del teatro, della fotografia, dello storytelling e dell’animazione. In particolare, il ricorso all’animazione e al disegno su fotografie scattate da loro stessi (nel trailer del film si può vedere chiaramente un frammento del processo) rende i tre giovani di fatto co-ricercatori e co-sceneggiatori del film. A curare e facilitare il lavoro di animazione e le relative interazioni con i tre giovani la D’Onofrio chiama Francesca Cogni, a sua volta filmmaker e artista multimediale e performativa che in più occasioni ha usato in alcune sue opere video e documentarie l’animazione per illustrare i ricordi dei ‘minori stranieri non accompagnati’, come accade in Thiras e Neviario (entrambi del 2017). Proprio l’animazione, secondo la D’Onofrio, si rivela in quest’ottica, non soltanto un mezzo utile per riattivare i processi della memoria e della conoscenza ma fornisce anche una qualità estetica particolare, fedele all’evanescenza e al carattere a volte destabilizzante dei ricordi.

Era domani, regia di Alexandra D’Onofrio (2018)
Nouvelles vagues

Tra gli esempi più recenti nella prospettiva sin qui esaminata citiamo Il mare che non muore (2021, finalista al Premio Zavattini, era nel concorso “Prospettive” a Filmmaker Festival 2021 di Milano) di Caterina Biasiucci (napoletana, classe 1996). Nonostante la giovane età la regista aveva rivelato uno spiccato senso dell’inquadratura e del ritmo narrativo in Appunti sulla mia famiglia (2017) dove esplorava, in un gioco di specchi tra realtà e messa in scena, lo scorrere del tempo sui diversi componenti della sua famiglia allargata. Ma se questo lavoro restava confinato in ambienti domestici, 4 anni dopo, pur nella durata concisa di un cortometraggio (di 13’), la Biasiucci compie un deciso salto di qualità e di prospettiva, dal racconto esclusivamente familiare a un tentativo di interpretazione storico-sociale, che si fa notare sul piano formale anche per le modalità di assemblaggio e di condensazione delle diverse tracce narrative e dei materiali provenienti dalle fonti d’archivio (oltre quelle personali, l’Istituto Luce, l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico-AAMOD, Home Movies-Bologna, Lab 80-Bergamo).
Lo spunto iniziale è offerto ancora dal ritrovamento di un diario segreto, qua della nonna materna (morta nel ’79). Ma la volontà dichiarata dalla regista era quella di guardare oltre e di offrire, certo ambiziosamente, una immagine del femminile nel nostro paese attraverso epoche diverse. Se il diario fa da collante narrativo del cortometraggio, il corrispettivo visuale sono le immagini, riprese oggi con un semplice cellulare, del corpo di una donna anziana che nuota, quasi danzando, nel mare. Quel mare che sempre si rigenera, e quel corpo in movimento, appaiono come contenitori simbolici che filtrano e racchiudono in sé, come a unificarle, le tante immagini (in b/n e poi a colori) e i frammenti di storie selezionate da oltre 70 ore di materiale grezzo (di lei bambina e della madre, come delle bambine e donne di tutte le età che scorrono sullo schermo, in ambienti chiusi o negli spazi pubblici). Se il diario della nonna parla di rimpianti amorosi con parole di disincanto ma mai disperate, anche Caterina Biasiucci annulla il tempo delle generazioni: dopo aver pensato di coinvolgere una vera attrice, deciderà infatti di far dire (o ‘recitare’) alla madre le parole di quelle pagine lontane. Di più. Scegliendo dai tanti e differenti archivi consultati immagini girate tra gli anni Quaranta e i giorni nostri con diversi supporti e formati prova a restituire la dimensione profonda e la diversa ‘grana’ delle immagini in quel lungo passaggio di tempo, anche rispetto ai progressi tecnici nei mezzi e nelle modalità di ripresa. A questo corrisponde anche la volontà della regista, efficacemente realizzata grazie all’ottimo lavoro dei montatori del sonoro, di ricostruire, sui materiali originali, quasi tutti muti, suoni che fossero ‘fedeli’ e coerenti con il senso delle immagini e del loro montaggio.

Il mare che non muore, regia di Caterina Biasiucci (2021)

 

Frame dal film Il mare che non muore, regia di Caterina Biasiucci (2021)
A futura memoria

Tre registe con una forte inclinazione verso la sperimentazione visuale, tra le quali ritroviamo Martina Melilli, insieme a Irene Dionisio e Giulia Cosentino, firmano – insieme ai colleghi Daniele Atzeni, Marco Bertozzi, Claudio Casazza e Matteo Zadra – i sei brevi episodi che compongono il progetto collettivo Le storie che saremo, prodotto da Ginko Film (2021). Utilizzando unicamente materiali provenienti da diversi archivi dei film amatoriali di famiglia9, questi registi, diversi per formazione, ciascuno con il proprio sguardo e sensibilità, rielaborano e riportano a nuova vita materiali già esistenti messi a disposizione dagli archivi (film in pellicola 8mm, super8, 16mm e su nastro magnetico in formato VHS e video8). Un progetto che nasce in questo tempo pandemico come enfatizzano i curatori Marco Zuin e Chiara Andrich che hanno affermato: «In un tempo in cui assistiamo a una sovraesposizione di immagini prodotte nel presente, Le storie che saremo capovolge l’assioma e chiede di dare un nuovo messaggio artistico a partire da materiali amatoriali esistenti, per ritrovare nei riti comunitari una memoria collettiva. Il ricordo è una delle poche cose che non ci possono essere precluse, dobbiamo partire da qui per scrivere una nuova storia».
Non possiamo che condividere queste parole, sperando che sempre più autori e autrici aiutino a conservare, in una forma viva, i nostri ricordi e a preservare il nostro futuro da un oblio comunque per niente affatto rassicurante.

Le storie che saremo (2021)
NOTE

1Su questi temi resta fondamentale e paradigmatica, sebbene faccia specifico riferimento alla tragedia dell’Olocausto, un’opera come Austerlitz (2017) del regista ucraino Sergei Loznitsa (il quale nel titolo rende omaggio all’omonimo romanzo di W.G. Sebald, 2001, e al suo approccio narrativo), che ha suscitato in questi anni numerose interessanti analisi interdisciplinari, anche rispetto al fenomeno sociale noto come dark tourism.
2La dichiarazione della regista, tratta da una sua conversazione con David Kasman, è citata da Cristina Piccino in “No Home Movie, memorie sentimentali tra madre e figlia”, “Il Manifesto”, 30 dicembre 2021.
3Il diario era stato pubblicato già nel 2014: Maria Antonietta Moro, Tutte le anime del micorpo. Diario di una giovane partigiana (1943-1945), Iacobelli editore. La Moro fu anche crocerossina volontaria e ‘agente segreto’ della Resistenza (insieme ad altre colleghe volontarie, grazie alle informazioni di prima mano di cui potevano disporre, e a rischio della loro vita, riuscirono a salvare da morte certa diversi partigiani).
4Lorena Fornasir sarà protagonista anche di un episodio del film Dove bisogna stare, di Daniele Gaglianone e Stefano Collizzolli (2019), e del corto Umar di Francesco Cibati (2021). Di recente, è stato archiviato il procedimento avviato a carico della Fornasir e del marito, accusati, per la loro attività umanitaria per l’associazione “Linea d’ombra”, del reato di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” (cfr. il riformista).
5Testimoniato anche da premi come il Nastro d’Argento assegnato al film dal Sindacato Giornalisti Cinematografici italiani-SNGCI, dopo la presentazione nelle ‘Giornate degli autori’ alla Mostra del Cinema di Venezia del 2012.
6Vincenzo Rabito, Terra matta, (a cura di Evelina Santangelo e Luca Ricci), Einaudi, Torino 2007.
7I virgolettati sono tratti dal pressbook del film e da dichiarazioni dell’autrice in occasione di un incontro pubblico, insieme alla cosceneggiatrice e produttrice Chiara Ottaviano, al cinema Mexico di Milano nel mese di ottobre 2012. Ho parlato del film più distesamente in “Il secolo lungo. a storia del Novecento nel ‘cuntu’ di Vincenzo Rabito”, su Cineforum, n. 521, marzo 2013.
8A differenza che dell’edizione in volume, che peraltro resta fedele alle sgrammaticature e alle invenzioni linguistiche dell’autore.
9In particolare: 8mmezzo (Livorno), Cinescatti/Lab80 (Bergamo), Home Movies – Archivio nazionale del film di famiglia (Bologna), Paesaggi di famiglia (Cagliari), RI-PRESE (Venezia) e Superottimisti (Torino).