Moriamo per delle idee,
vabbè, ma di morte lenta…

© Carla Cerati, da Morire di classe. Courtesy Elena Ceratti

«Sono una solitaria, perdutamente individualista. Sono sempre stata guardata con un po’ di sospetto dalle femministe, invece, unite in un gruppo. Ricordo una recensione che mi riguardava, un po’ beffarda, apparsa sul Manifesto, diceva: “Carla Cerati col taglio Vergottini, eccetera”, come se io fossi la signora che si mescola agli operai, la cosa mi indignò. […] Avevo il taglio Vergottini e che sarà? È servito quando c’è stato il processo Calabresi/Lotta Continua che io con il mio taglio Vergottini, potevo entrare impunita a fotografare durante tutte le sedute, […] perché avevo quest’aria».1

La schiettezza non era certamente una qualità di cui era sprovvista, come non le mancava una disincantata consapevolezza della propria reale condizione. Nel Sessantotto Carla Cerati aveva quarantadue anni, due figli, un matrimonio in crisi e una breve esperienza di fotografa professionista.
Come spesso accade, aveva iniziato ritraendo i figli e le amiche, e poi aveva frequentato il Circolo Fotografico Milanese dal 1961 al 1963 e nel 1962 aveva tenuto la prima mostra.2
Ma quello che lei considera il suo esordio da professionista avviene quasi per caso. «Milano sembrava una città pacifica dove non succedeva un granché. […] E poi mi son detta: il dramma è più fotogenico della realtà, dove posso trovare il dramma? A teatro».3 Nel 1960 fotografa le prove di una commedia di Oreste Del Buono, Niente per amore, con la regia di Franco Enriquez, e l’esperienza è così convincente, che il regista vuole le foto per i giornali.
Il teatro le offre la possibilità di esaudire il suo desiderio di dramma, ed è sempre a teatro che accade inaspettatamente l’incontro della vita. Dal palco del Durini, durante uno spettacolo del Living Theatre, si fa chiara una consapevolezza che prende forma dal volto intenso di Antigone/Judith Malina.
Antigone è un alter ego, quel viso con gli occhi neri, pesantemente truccati in contrasto con il pallore del volto, la mano vicina alla bocca aperta, come a proteggersi dal suo tragico destino, è un doppio in cui riconoscersi. Vi scorge l’imminenza inevitabile della catastrofe, ma, assieme, la possibilità di una catarsi personale e di un mutamento sociale. Da questo spettacolo nascono le Elaborazioni sull’Antigone, ingrandimenti sgranati del volto di Judith Malina a cui la Cerati lavora a più riprese dal 1972 al 1983.

© Carla Cerati, da Morire di classe. Courtesy Elena Ceratti

Antigone è l’eroina che si oppone al potere di Creonte e alla legge della città. Incarna una successione di antitesi: l’individuo contro lo Stato, la legalità contro la giustizia, l’amore contro la morte. Un ben moderno destino, scrive Rossana Rossanda, se è vero che Antigone è definita dal Coro autónomos, come colei che da sola si dà la sua legge,4 al massimo della coscienza di una solitudine a nessuno imputabile se non a sé.5  È l’incarnazione di una non appartenenza, un corpo estraneo nel cuore della città. Per la Cerati, che sente di non appartenere né alla vita che aveva sino ad allora condotto, né a quella che stava vivendo, è una figura ideale a cui fare riferimento. «Una delle cose che mi fa maggiormente soffrire è il sentimento di non-appartenenza, però è il mio destino».6 Sentire di non appartenere, nel contesto storico e politico in cui si dipanano le vicende umane e professionali della Cerati, è inconsueto, se non singolare. Eppure, se si mettono assieme le tessere del suo mosaico, l’immagine che ne vien fuori è netta. Non appartiene al mondo artistico, nonostante abbia passato l’esame di ammissione a Brera per fare la scultrice, e non appartiene al mondo operaio, sebbene contribuisse al bilancio famigliare come sarta. Si sente, e lo dimostra nella pratica quotidiana, una donna diversa dal modello della tradizione patriarcale e clericale, eppure sceglie il matrimonio e di portare come un nome d’arte il cognome del marito, e non Tironi, il proprio. Si potrebbe parlare di atteggiamento ondivago o contraddittorio, ma si è più vicini al vero se si ritiene che Carla Cerati si nutre di idee, ma ha un naturale rigetto per le ideologie. Essere vicina a lacerti di umanità debole e dolente, per lei non significa issare vessilli o rimuginare ismi, recitando slogan come mantra. La sua insofferenza per le certezze e le verità rivelate è un’eco di quell’antidoto che prima Brassens e poi De André avevano poeticamente inoculato con l’ironia della canzone Morire per delle idee. L’emancipazione, per lei, sarebbe giunta attraverso altre vie, spesso deviando da percorsi che avevano un indirizzo prefissato. Si sposa, diventa casalinga e si dedica interamente alla famiglia, non ha ancora contezza di diventare una fotografa, anche se lo scalpello dello scultore verrà sostituito da una fotocamera, e le forbici della sarta renderanno il suo sguardo tagliente come una lama. Quello sguardo, simile alle ricette del tempo di guerra che aveva trascritto in un taccuino, poi pubblicato sotto il titolo Un uovo, una frittatona (2008), è composto da pochi ingredienti, spesso poveri, che rendono ciascuna pietanza sobria ed equilibrata, come l’attenzione che mette nella composizione delle sue immagini. Non si specializza in un solo genere di fotografia, ma sceglie di ritrarre la moltitudine di soggetti che osserva come fossero attori sul palco di un teatro. La Cerati non si pone dentro gli eventi, come fanno Tano D’Amico, Uliano Lucas, Lisetta Carmi, Letizia Battaglia, e tanti altri ancora, interpreti coscienti di una militanza di classe.
Per lei il reportage è una scelta di partecipazione politica, e fotografare significa credere al cambiamento sia riguardo alla trasformazione individuale che collettiva. Tuttavia, il suo sguardo si colloca al di fuori, come fosse ai lati della scena. La distanza non è indifferenza, bensì il suo modo di lambire la storia da un punto di vista eccentrico. Luchino Visconti, all’anteprima della Monaca di Monza di Giovanni Testori nel novembre del 1966, la ricordava come uno spirito dell’aria, un Ariele della Tempesta di Shakespeare, in grado di mimetizzarsi con assoluta naturalezza tanto sul palco quanto per strada.


© Carla Cerati, da Morire di classe. Courtesy Elena Ceratti

«Per me fotografare ha significato la conquista della libertà e anche la possibilità di trovare risposte a domande semplici e fondamentali: chi sono e come vivono gli altri? Lavorano? E se sì, dove lavorano? Quali sono i mestieri, le professioni e i luoghi in cui le svolgono? Come trascorrono il tempo libero?»7

Nel 1968 non è più l’Ariele di Shakespeare, adesso la Cerati è in bilico tra la Nora di Casa di bambola e l’Alice disambientata di Gianni Celati. Non le appartengono né il rassicurante mondo domestico, né il mondo quasi sconosciuto che la circonda. Come il personaggio di Ibsen, se ne sarebbe andata di casa chiudendo definitivamente la porta dietro di sé, e come Alice si sarebbe «infilata in un buco per terra, vagando per cunicoli oscuri, che non si sa dove portino ma che sono teatro di incontri meravigliosi».8
Il marito Roberto Cerati, grazie al ruolo di direttore commerciale della casa editrice Einaudi, la mette in contatto con Franco Basaglia e Franca Ongaro, che intendevano realizzare un libro fotografico sui manicomi, per mostrare la condizione di chi vi era segregato e favorirne la chiusura. Carla Cerati accetta la proposta e chiede all’amico Gianni Berengo Gardin di accompagnarla. Le foto saranno scattate tra l’aprile e l’ottobre del 1968 in tre diverse istituzioni: Colorno, vicino a Parma, Gorizia e Firenze. È così che nasce Morire di classe, pubblicato nel 1969. Sfogliarne le pagine, osservare le fotografie che compongono questo lungo flusso di corpi e volti senza identità, è cercare di fermare qualcosa che scivola via come una Narrenschiff di carta, un flusso composto di immagini sino allora inimmaginabili, persino per chi era rinchiuso. Come accade a una giovane paziente che si trova all’aperto e guarda all’interno dell’edificio attraverso le sbarre di una finestra.

© Carla Cerati, da Morire di classe. Courtesy Elena Ceratti

Il suo stare sospesa tra un fuori impossibile e un dentro desolato, rispecchia in parte quella della fotografa. Mai, come nelle foto di Morire di classe, si percepisce una vicinanza che va oltre la semplice solidarietà o la pura indignazione per le condizioni disumanizzanti in cui vivono gli internati. La Cerati si specchia in quel volto disperato come aveva fatto con Antigone. Si mette nei panni della giovane reclusa, e da quella reclusione scatta una foto che le parla anche della sua condizione. Ma c’è chi non ha nemmeno occhi per guardare. Un uomo seduto abbassa la testa rasata verso le ginocchia e la trattiene con le mani, nel tentativo di trattenere anche quel poco di umano che è rimasto. È un modo disperato per dire che essere rinchiusi corrisponde a non essere visti, e dunque a non esistere. «La testa che sarà cranio è già vuota. La follia è l’anticipo della morte»9, scrive Michel Foucault. Il teatro è lo strumento che può riportare l’oblio alle luci della ribalta. Nel luglio del 1968, pochi mesi dopo aver ritratto i manicomi, Carla Cerati scatta le foto di Paradise Now, rappresentato dal Living Theatre ad Avignone, e pubblicate nell’omonimo volume dato alle stampe da Einaudi nel 1970. Morire di classe e Paradise Now sono legati fra loro da una continuità che, pur poggiando su fondamenta completamente diverse, giungono alla medesima conclusione: bisogna abbattere le barriere di una istituzione chiusa, plasmata da una società altrettanto chiusa. Dalla morte al paradiso, dalla condizione infernale di chi è prigioniero alla realtà giocosa di un Eden terrestre messa in scena a teatro. Le sbarre del manicomio viste dal cortile dalla giovane internata sono le stesse a cui Julian Beck si aggrappa, ad Avignone, in procinto di uscire per strada.


© Carla Cerati, da Morire di classe. Courtesy Elena Ceratti

L’istituzione manicomiale fa dell’individuo un pazzo, perché vuole essere un individuo, mentre l’attore fa di sé un pazzo, perché rivendica la sua assoluta individualità. La Cerati, con la sua fotocamera, naviga tra manicomio e teatro, sfide concrete a riconsiderare il proprio modo di stare al mondo. Per questo condividere l’esperienza dei manicomi o quella del Living, non può prescindere dal mettere in discussione le proprie scelte.
Con la fotografia, uscire dalla gabbia ha voluto dire espandere le possibilità della visione. Nei numerosi romanzi, al contrario, la penna di Carla Cerati esplora il mondo domestico le trame delle relazioni famigliari. Dapprima evoca il rapporto con il fratello, al centro di Un amore fraterno (1973), archetipo di un sodalizio sottratto alle imposizioni e alle gerarchie; in seguito compie un’impietosa analisi del matrimonio e della vita fra le mura domestiche, in particolare nella trilogia Una donna del nostro tempo (1975-1983).
La sua scrittura, quasi interamente autobiografica, è una morbosa coazione a ripetere, come il gesto di chi continua a girare su sé stessa senza capire quale direzione prendere per uscire dal vortice. Ma è anche una incessante autoanalisi, una confessione davanti allo specchio della pagina, con l’intento di capire le ragioni delle proprie scelte. L’inarrestabile flusso di parole che la Cerati profonde nei suoi romanzi rappresenta un’alternativa all’afasia non solo di chi è destinato a Morire di classe, ma anche per chi, come lei, rimaneva costretta ad annegare in un mare di parole già scritte e già troppe volte pronunciate. Per questo, al vuoto, al silenzio, alla reclusione delle “teste pazze”, ha dato un volto; mentre al suo vuoto, al suo silenzio, alla sua reclusione, ha dato una voce.

© Carla Cerati, da Morire di classe. Courtesy Elena Ceratti

«Per anni ho sentito parole agitarsi dentro di me […]: ubbidienza, sacrificio, gratitudine, lavoro, onestà, castità, maldicenza, verginità, educazione […] mentre io sempre pensavo a una parola sola, importante: amore. Amore materno, amore filiale, amore spirituale, amore casto, amore legittimo, amore carnale, amore sbagliato, amore malato. […] Ora questa montagna di parole si è condensata ed è esplosa: non sarò mai più la stessa, ma voglio essere me stessa».10

Questo testo è pubblicato in: Carla Cerati, La classe è morta. Storia di un’evidenza negata, Mimesis Edizioni, 2023. Si ringrazia l’Editore per la gentile concessione.

NOTE

1 C. Cerati, Intervista inedita di Giovanna Gammarota, maggio 2013.
2 C. Sorrentino, Gli esordi di Carla Cerati fotografa, 1960-1964, Rivista di studi di fotografia. Journal of Studies in Photography, 5(9), 2019, p. 121.
3 Carla Cerati, Intervista inedita di Giovanna…, op. cit.
4 R. Rossanda, Antigone ricorrente, in Sofocle, “Antigone”, Feltrinelli, Milano 1987, p. 16.
5 Ivi., p. 19.
6 C. Cerati, Oltre la soglia. Conversazione con Carla Cerati, L’uomo in bianco & nero, anno IX, n. 9, 2012, p. 237.
7 C. Cerati, Scritti, in M. Mussini, Carla Cerati, Catalogo a cura di G. Bianchino, Skira, Milano 2007, p.161.
8 G. Celati, Alice, Doppiozero, 28/02/2018, (ultima consultazione 27/02/2023).
9 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (1961), Bur Rizzoli, Milano 2011, p.116.
10 C. Cerati, Un matrimonio perfetto (1975), Marsilio, Venezia 2005, p. 354.