Nello specchio dell’ultima scena
di Marx può aspettare

Frame da Marx può aspettare, regia di Marco Bellocchio, 2021, 01 Distribution

I morti si aggrappano alla memoria dei vivi per non essere del tutto morti.

Javier Cercas, “Soldati di Salamina” 

«Sai il tempo, tutto il tempo,
tra questa parola e il tuo tempo»

Juan Gelman, “Dice la parola poesia per la prima volta”

 

Lasciando la casa del padre (e i suoi fantasmi)

Nell’ultima scena di Marx può aspettare di Marco Bellocchio scorgiamo il regista, inquadrato in campo lungo, avanzare a piedi, lentamente e tranquillamente, verso lo spettatore. Ha appena varcato il lungo ‘ponte gobbo’ (detto anche ‘del Diavolo’) sul fiume Trebbia, in uscita dal paese natale di Bobbio, provincia di Piacenza. A un tratto, dal fuoricampo, una figura irrompe sullo schermo in senso opposto: è un giovane dal fisico aitante che di corsa attraversa il ponte in direzione del paese e indossa una tuta con la scritta ISEF che campeggia ben visibile sul dorso (lo vediamo solo di spalle). La luce del crepuscolo, il cielo nuvoloso, quell’uomo in cammino verso di noi, ci avevano rimandato alla memoria la straordinaria sequenza finale di Buongiorno, notte (2003), quella passeggiata-sogno nella libertà di Aldo Moro (uno strepitoso Roberto Herlitzka). In effetti, quella scena si svolge all’alba, non al crepuscolo, ma è un’alba livida, intrisa da una leggera pioggerellina (proprio il tipo di atmosfera che Bellocchio desiderava, come ebbe a dire); ma insomma, le tonalità di luce e l’inquadratura (o almeno questo abbiamo voluto credere…) accostavano nella memoria due scene distanti tra loro 18 anni e tanti altri film, lunghi e corti, diretti dal regista piacentino (classe 1939).

Nel tempo che rimane

Si tratta comunque dell’unico momento di ‘finzione’ di tutto il film, quello in cui riappare, come fosse ancora vivente (o piuttosto come revenant), il fantasma del fratello gemello Camillo, suicidatosi il 27 dicembre del 1968, a 29 anni. Peraltro, Bellocchio lo fa ricomparire (ma non come semplice ‘comparsa’) nelle vesti di insegnante di educazione fisica, quale egli era davvero (anche se era stata una scelta un po’ di ripiego, così come la ‘carriera’ sindacale per l’altro fratello Alberto).
Appena dopo, con fluido stacco, iniziano i titoli di coda del film che, nel montaggio sempre preciso di Francesca Calvelli, ne rappresentano quasi il distillato emozionale. Vi scorrono infatti, sul piano visivo, le fotografie dei due gemelli, colti in diverse epoche della loro infanzia e giovinezza, insieme a un fotomontaggio che incrocia i loro sguardi dissolvendo il tempo nel qui e ora dell’invenzione cinematografica.

Frame da Marx può aspettare, regia di Marco Bellocchio, 2021, 01 Distribution

Su quello sonoro, ci trasporta invece ‘in crescendo’ la partitura (purtroppo incompiuta) di Ezio Bosso (per tanti di noi una figura familiare, come un fratello o un ‘amico fragile’, come la sua passione, destinata anche qui a bruciare verso una morte prematura). Finalmente, il film si libera del peso delle parole, tante, che lo hanno attraversato. E soprattutto dell’ambiguità di tante domande e risposte che lo affollano, a volte ambigue, imprecise, ripetitive, interlocutorie, come se ancora ci fosse tanto tempo… e invece “abbiamo poco tempo”, come ricordava anche il Tarkovskij de Lo specchio.

Marx può aspettare è del resto un’opera che sino alla fine cambia di frequente ritmo e forma. Dopo un incipit decisamente teatrale (la sequenza del pranzo di famiglia girato nel 2016 a Piacenza che ne conteneva l’idea di fondo), il film – pur raccontando vicende assai intime – utilizza forme di rappresentazione che rimandano quasi a un ‘processo popolare’ o a una seduta di psicoanalisi ‘collettiva’. Oltre ai familiari e agli amici stretti Bellocchio convoca un folto collegio di ‘giudici’ e terapeuti (tra questi Luigi Cancrini), ma anche un sacerdote (l’amico Don Virgilio Fantuzzi, da poco scomparso, attento esegeta, da una prospettiva di fede, del suo cinema). In ogni caso, tutto si svolge ‘a porte aperte’, con noi spettatori chiamati a testimoni (della difesa o dell’accusa, a scelta), o quantomeno a decifrare, insieme all’autore, le ragioni nascoste di traumi, conflitti, enigmi di una famiglia della buona borghesia piacentina così segnata dal dolore, ma anche dalla notorietà (sua e del fratello maggiore Piergiorgio, l’artista e l’intellettuale). Un ruolo che svolgiamo in parte con distacco e in parte proiettando quei conflitti sulle nostre vite, come solo il cinema, da sempre, ci consente di fare.

Frame dal film Marx può aspettare, regia di Marco Bellocchio, 2021, 01 Distribuzion
Attraverso lo specchio (del cinema)

Per giorni infatti, dopo la visione del film, ero rimasto molto emozionato, anzi perturbato, come immagino sia accaduto, più o meno, a tutti gli spettatori. Ripensavo in particolare a quell’ultima scena, a cosa avesse voluto dire – a se stesso, a noi, a me – Bellocchio. E anche al perché di quella mia immediata associazione al finale di Buongiorno, notte.

Era una scena che segnava un break-through, la trasformazione del ‘copione’ di vita del regista e dunque anche del suo cinema per il futuro1? Era la sua liberazione, come se, terminato questo film, forse a lungo rimandato, dove ha affrontato a viso aperto quel trauma, ma lo ha anche ‘condiviso’ con il pubblico, si fosse guadagnato la libertà, quella di uscire finalmente fuori, anche simbolicamente, dalle mura strette del paese e, soprattutto da quell’incantesimo familiare? Aveva finalmente attraversato lo specchio – lo schermo del cinema – quello che rifletteva lui stesso insieme al suo doppio gemello? O era piuttosto un altro maleficio del diavolo, che su quel ponte alberga da secoli, l’apparizione di quello spettro fraterno che rientra in città e di fatto interrompe il suo cammino verso l’uscita?Sappiamo solo che il cinema di Bellocchio ruota da decenni, inesausto, intorno a questo tragico evento. E infatti tornano in questo film, come squarci violenti di memoria, passaggi delle diverse ‘messe in scena’ dei fatti di famiglia (in particolare da Gli occhi, la bocca, 1982, il lavoro che più esplicitamente rievoca quella disgrazia2). Trame di finzione parallele e speculari a quelle (condite da pietose bugie) imbastite nella realtà, insieme a fratelli e sorelle, per alleviare la disperazione della madre.

Marco e Camillo Bellocchio

Ho iniziato allora a cercare le risposte nelle parole dello stesso regista, tra le diverse interviste rilasciate, in video o per i quotidiani, da Cannes e poi nelle settimane a venire. Spesso, pur parlando di un film appena finito, si avvertiva ancora una sofferta reticenza, un’autocensura, anche lessicale, un ammettere in modo graduale ma sempre titubante la verità (come accade del resto anche nel film). Bellocchio dice di sentirsi “liberato, ma non assolto”, di “aver capito… di non aver capito”, precisando che usa il termine “capito” per indicare “sentito”; alla fine riconosce che il problema più profondo era quello “di non avere sentito… che quest’uomo (sic) stava male”. Per contro, in un’altra intervista dice assai più apertamente: “Mi piacerebbe rivedere mio fratello, e la fine del film lo indica. È l’unica finzione, quell’attore che indossa la stessa tuta che indossava Camillo”. Qualche settimana dopo l’uscita del film, sarà l’intervista non di un giornalista ma di un autore (per il cinema e la tv, oltre che scrittore), Massimo Coppola (classe 1972) a estrarre dall’ombra (parlando di un “assassinio”)  la figura del padre – citata solo poche volte, all’inizio del film, rispetto alla mancata confessione in punto di morte e al suo funerale, ma anche per le decisioni senza appello sull’educazione del gemello Camillo. – Bellocchio risponde che si tratta piuttosto di “una liberazione dal padre, non di un assassinio” (in effetti il padre muore per un tumore quando Bellocchio è ancora molto giovane e, in ogni caso, lo aveva già ‘ucciso’ da tempo andando contro, lui sì, ai suoi voleri). Ma aggiunge: “devo dire che quando mio padre morì – di malattia – sottovalutai interamente il peso di quella perdita, l’annullai, vado avanti, mi dissi… non a caso ho dedicato Buongiorno, notte a mio padre perché proprio facendo quel film vidi nella figura di questo pover’uomo di Aldo Moro una versione di mio padre come se avessi intuito solo allora che non era soltanto un borghese campagnolo, seppur avvocato di successo, ma che era qualcosa di più e che quindi fu una vera perdita”. Forse per questo il regista usa più volte nel film la parola ‘sopravvivenza’ riferendosi alla sfida esistenziale (inevitabilmente individuale) che ciascuno dei fratelli, senza più padre, doveva fronteggiare, in “una casa che sembrava un manicomio”. E, più di tutti, quel “secondo” gemello, fuoriuscito dall’utero materno ben tre ore dopo il primo e al quale per tre volte la madre, notoriamente molto devota, fa impartire la benedizione.

Camillo Bellocchio

Dunque, compariva un ulteriore fantasma – quello paterno – con cui fare i conti. Non meno difficili. E questo cominciava a chiarire qualcosa dentro di me, chiamava in causa anche un mio vissuto e altre domande, più personali… In quegli stessi giorni poi, mi avrebbero particolarmente colpito alcune dichiarazioni di Andrej Tarkowskij jr. Sollecitato da Giovanna Gammarota (nella conversazione apparsa di recente su questa rivista) sul rapporto con la figura paterna e sul lungo progetto di documentario a lui dedicato (Andrej Tarkowskij. Il cinema come preghiera, 2019), il figlio del grande regista russo così rispondeva: “Credo di aver detto ciò che volevo dire, sono contento perché sono riuscito a riconciliarmi con lui. Il film è più importante per me che per lo spettatore, per il mio ricordo di lui (corsivo nostro).  Ne avevo bisogno in quanto mi mancava il dialogo con lui e ho cercato di ricostruirlo. È stato un momento importante, per capire come andare avanti, cosa fare. Mi ha aiutato molto in questo senso. […] Per il cinema ora ho altri progetti, credo di poter fare altre cose.”

Marco e Camillo Bellocchio da piccoli
Sognare, guarire

Resta spesso così poco tempo per dialogare davvero con il proprio padre in vita. Quando vi si riesce. A volte Dio, o il destino, o la volontà umana non ce lo fanno ‘riconoscere’ (perché morto, o fuggito per sempre, o magari in perenne “viaggio d’affari”). Padri assenti da sempre o da quando comunque si è troppo giovani (come nel caso di Marco Bellocchio), o per tanti lunghi anni, quelli decisivi della nostra infanzia (come accadde ad Andrej Tarkowskij, che con il padre, il poeta Arsenij, mantenne poi per tutta la vita un rapporto assai travagliato). Eppure, una forza incredibile può sbocciare dalla ferita dell’assenza paterna, da quella condizione di ’”orfanità” del padre, che non a caso è tema forte e ricorrente nel cinema di Tarkowskij continuamente segnato da figure di puer – bambini e adolescenti – “feriti”, impegnati a sopravvivere, in pace come in guerra, a riacquistare la parola da un iniziale balbettio, a riscattare e onorare il “nome del padre” che non c’è più attraverso il segreto della loro capacità ‘creativa’3.
E se al cinema (come in altri linguaggi dell’arte) non sono molti gli autori capaci di “rappresentare” i propri traumi, rendendoli al tempo stesso universali e comprensibili a tutti, tutti noi possiamo riviverli, in parole e immagini, anche in asincrono, in un turbine di ellissi e sovrapposizioni temporali, nei nostri sogni, sempre così “cinematografici”. È là che rincontriamo i padri (e madri e fratelli e sorelle), anche a distanza di tanto tempo dalla loro morte. Il tempo che occorre. I sogni come una “seconda occasione”, per fare quello che non abbiamo mai fatto: trovare il coraggio di perdonare i padri, per amor nostro, o anche di ucciderli, per amore altrui (come Kafka “sognava” di fare per amore di Mìlena4).
Anche io, da alcuni anni, sogno spesso mio padre, a volte giovane (e in tenute sportive, un’altra casuale associazione…) e dialogo con lui, dopo tante cose non dette, o non comprese. Mi piace ritrovarlo in età diverse della sua vita. Forse, ma sarà solo una suggestione, ho iniziato a sognarlo dopo aver letto quel bellissimo, vibrante racconto-saggio di Antonio Tabucchi “Un universo in una sillaba. Vagabondaggio intorno a un romanzo”5.
Il grande scrittorericostruisce il sogno raccontato nel quarto capitolo del suo straordinario Requiem. Un’allucinazione (Feltrinelli,1991), scritto in lingua portoghese. Un sogno, ambientato a Lisbona in una camera d’albergo, che coincide del resto con la genesi stessa del romanzo. È un dialogo tra padre e figlio (il padre vi appare ventenne, lo scrittore cinquantenne, l’età che aveva all’epoca del romanzo) che prende avvio dalla voce del padre (morto anni prima per un tumore alla laringe che lo aveva reso muto), e in particolare da una strana domanda rivolta al figlio in portoghese, benché il padre, come Tabucchi precisa, “non conosceva nessuna lingua straniera”. “All’improvviso la voce di mio padre, che avevo nettamente sentito in sogno e che il risveglio sembrava avermi fatto dimenticare risuonò di nuovo ai miei orecchi: e risentirla con chiarezza mi ricondusse al sogno. Obbedendo al mio istinto presi il taccuino e cercai di riprodurre il sogno, nel modo in cui è possibile ricordarsene.”7

Marco e Camillo Bellocchio

Bisogna essere infatti pronti, pur non essendo romanzieri, a trascrivere i sogni. E a scambiarsi i sogni come fossero lettere, come per tanto tempo i nostri padri (e noi stessi) abbiamo fatto, rendendoci disponibili a quel “contatto fra fantasmi, e non solo col fantasma del destinatario, ma anche col proprio”, come sempre Kafka scriveva a Mìlena in una assai celebre missiva. Soprattutto col proprio. E in Marx può aspettare l’ultima – inascoltata e senza risposta – lettera del gemello, quel suo confuso grido d’aiuto, era di sicuro il macigno più pesante… Insieme a quelle tre parole (“cristallizzate” attraverso i decenni nel titolo del film), pronunciate da Camillo nel loro ultimo dialogo, e che gridavano, pur dietro un velo di ironia, il desiderio angoscioso di una salvezza personale, prima che collettiva. Tre parole che, a posteriori, confermano l’amara illusorietà, nonostante la buona fede di tanti in quegli anni, che l’istanza ideologica di “servire il popolo” potesse “guarire” il mondo, già allora assai malato di ingiustizia, e noi stessi insieme ad esso.

Riconciliarsi con il padre, interrompere catene che spesso si ripetono per generazioni, liberarsi (per poter creare) dall’ombra di eredità sempre pesanti, di assenze o presenze comunque ingombranti o ‘castranti’… forse era questa laguarigione (proprio attraverso la separazione dal padre, l’assunzione di una responsabilità autonoma, la fine delle finzioni) che Bellocchio indicava come tema centrale anche per Marx può aspettare? A tale riguardo, egli ricordava la lunga esperienza dell’”analisi collettiva” condivisa per lungo tempo, anche sul piano artistico e tra infinite e quasi sempre strumentali polemiche, con uno psichiatra e terapeuta assai poco ortodosso come Massimo Fagioli, da cui pure aveva finito per “separarsi”, senza però rinnegare mai l’importanza di quel rapporto.

Nuovi padri, per nuovi figli

Ma di quale padre parliamo? È chiaro che dovremmo abbandonare senza rimorsi il modello di padre “edipico” con cui lottare fisicamente, prendendosi persino a schiaffi e pugni, come nella sequenza (forte davvero come un cazzotto in faccia) che apre Nel nome del padre, che Bellocchio diresse giusto mezzo secolo fa8.
Uno psicoanalista molto acuto, e anche molto “telegenico”, come Massimo Recalcati ha dedicato negli anni scorsi importanti riflessioni (utilizzando in modo efficace anche gli spunti offerti dalla letteratura e dal cinema), all’evoluzione dei modelli di riferimento paterni giungendo a parlare di “tramonto” e addirittura di “evaporazione” della figura – tanto reale quanto simbolica – del padre e, sul piano più specificamente politico, di una “patria senza padri”9.

Sull’altro fronte, quello dei figli, lo studioso vede una evoluzione in parte speculare, che asseconda le mutate aspettative da parte delle nuove generazioni “non tanto di un padre-eroe, quanto di un padre-testimone”.  Individua quindi il modello filiale del futuro nel personaggio mitologico di Telemaco che, staccandosi dall’ombra di Narciso e del narcisismo dilagante anche tra i “padri che si confondono coi figli”, “insiste nel porre la differenza tra le generazioni e nell’attendere il padre, nel voler essere un giusto erede. È questa la sua aspirazione. Essere un giusto erede. Per questo non attende passivamente il padre. Si muove, lo cerca, compie degli atti. E soprattutto, quando il padre torna, non lo riconosce… Il padre ha un aspetto totalmente diverso da quando è partito. Ora è un mendicante. È solo il figlio che può ricostruire l’’incontro col padre, che può renderlo di nuovo possibile”.10

Final Cut

Torniamo, in chiusura di queste riflessioni e divagazioni, a Bellocchio. Il cinema del regista piacentino rappresenta per l’Italia un caso esemplare. Quello di un percorso, artistico ed esistenziale, che ha sempre toccato tutti i vertici di quella “trimurti” di istanze – private e pubbliche, politiche e spirituali – di salvezza o riscatto: la religione come fede, la politica come ideologia (entrambe, sotto questa luce, con non pochi aspetti in comune), infine la psicoanalisi (una scienza e una pratica che come ben sappiamo ha la stessa età del cinema) nelle sue varie correnti di pensiero e di intervento.
La religione come la politica come la psicoanalisi si nutrono e a loro volta modellano i legami familiari e tutte rimandano al tema centrale (certo non l’unico) della paternità, dunque, almeno rispetto ai nostri antichi paradigmi culturali, all’autorità (formale), nella famiglia e nella società. È questo, in tutta evidenza, il “filo rosso” bellocchiano sin dai folgoranti esordi, con I pugni in tasca (1965) e ancor più con la sua più matura, anche stilisticamente, “opera terza”, il già citato Nel nome del padre in cui rivisita, con toni ora drammatici ora grotteschi e visionari l’esperienza giovanile del collegio cattolico (il film, come si sa, è ambientato nel 1958, l’anno della morte di Pio XII).

Marx piò aspettare, di Marco Bellocchio, 1965. Clip I pugni in tasca

A proposito di questo film, in occasione del Leone d’Oro alla carriera ricevuto a Venezia 10 anni fa, il regista realizzò una nuova versione (ora disponibile su RaiPlay), più corta di circa 20 minuti rispetto all’originale del 1971. Un Director’s cutin questo senso assai raro, che non aggiunge ma toglie. Un lavoro di sottrazione, non certo di superficie, una censura qua priva di costrizione11, che dice molto rispetto alle consapevolezze maturate in termini di percorso umano, politico e cinematografico dal regista. Lasciando spazio alle sue parole: “…in questi quaranta anni mi è tornata in mente, a intervalli vari, anche lunghissimi, l’idea, la convinzione che Nel nome del padre non avesse ancora trovato la sua forma definitiva. In quegli anni si usciva da un’illusione e da una sconfitta ancora senza morti e feriti, ma che preparava a una profonda generale depressione con esiti diversi: il terrorismo, la droga, la psicanalisi, il ritorno all’ordine. Per me, dopo la negazione della mia identità di artista (borghese) nei mesi della militanza marxista-leninista, ritornare al cinema fu, in un certo senso, una salvezza personale… raccontando però, per il mio stato d’animo di allora, una società finita, nella metafora di un’istituzione chiusa. Per quel sentimento, per quella inconsapevole disperazione volli dire tutto. Troppe parole. Concetti, messaggi… Immaginare liberamente allora era proibito, inconcepibile, per cui oggi, che sono molto più libero di allora, tante immagini piene di parole che giudicavano, che spiegavano, ripetevano le spiegazioni, citavano, sono cadute. Molta cultura, figlia di quegli anni, in quest’ultima versione è stata almeno contenuta a favore della storia, dei personaggi, dei loro rapporti sentimentali… Ho tagliato, accorciato, non ho aggiunto nulla. Il film, per quei pochi che si ricorderanno della prima versione italiana, non è cambiato nei contenuti o nei significati, non è stato addolcito in alcun modo, non è meno violento, si può dire soltanto che in questa versione definitiva Nel nome del padre fa pensare un po’ meno a Brecht e un po’ più a Vigo, ben lontano comunque dalla sua innocenza”.

Parole che forse spiegano, in bocca a un Bellocchio allora settantenne – e certo non più ‘innocente’ come Camillo, che sognava solo confusamente di fare il cinema, o come il grande cine-poeta Jean Vigo, che morì anche lui a 29 anni (e forse Bellocchio non ignorava questo dettaglio…) – come dopo questo lavoro di “sgombero” in casa sarebbe stato pronto ad assumere l’onore e l’onere di un ultimo saluto, di un gesto di omaggio, di un atto di perdono verso il fratello, e verso il padre. Per se stesso, per tanti di noi.

Marco Bellocchio
Camillo Bellocchio

Il film: Marx può aspettare, regia di Marco Bellocchio, 2021 – 01 Distribution Cinema.

Note

1Nel frattempo Bellocchio, un ottantenne che incarna una stupefacente e affascinante vitalità, ha terminato di dirigere una serie televisiva ispirata proprio al sequestro Moro e sta preparando un nuovo film ispirato a una storia vera e ambientato a metà del XIX secolo.

2Per una disamina approfondita dei diversi rimandi alla filmografia del regista, oltre che per la puntuale analisi del film si rimanda a Bruno Roberti “Ritratto di famiglia in un inferno”, su Fata Morgana web.

3Per un esame compiuto di questi ed altri aspetti simbolici del cinema di Andrej Tarkovskij rimandiamo al capitolo “Fratelli-Ombre: il limo salvifico di Andrej Tarkovskij”, in Paolo Mottana, L’opera dello sguardo. Braci di pedagogia immaginale, Moretti & Vitali, 2002.

4“…infine, rosso di collera, gridavo: «Se qualcuno nomina Mìlena con cattive intenzioni, per esempio il padre (mio padre) – così tra parentesi – ammazzo anche lui o me». Poi mi svegliai, ma non era stato un vero dormire né uno svegliarsi”. È la parte finale di un breve sogno datato 7 agosto 1920 compreso tra le Lettere a Mìlena, pubblicate parzialmente per la prima volta solo nel 1952.

5Con cui Tabucchi apre Autobiografie altrui. Poetiche a posteriori, Feltrinelli, 2003.

6Del quale nel marzo prossimo ricorreranno i 10 anni dalla morte, che mi auguro venga degnamente ricordata, anche se non ne sarei così sicuro: era un uomo che non amava, ricambiato, il Potere…

7Autobiografie altrui, cit. p. 30.

8Il film ebbe le sue prime uscite nel 1971, anche se molti siti lo datano 1972.

9Tra il 2011 e il 2013 escono infatti Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, 2011; Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana (una conversazione con Christian Raimo), minimum fax, 2013; Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, 2013.

10Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana, cit. pag. 115.

11Fa un po’ specie, al riguardo, rileggere, nella lunga e appassionata intervista di Goffredo Fofi al giovane regista (in Nel nome del padre, volume della celebre collana “Dal soggetto al film”, Cappelli editore, 1971), il punto in cui Bellocchio rievoca le pesanti censure imposte negli anni 1969-70 dai dirigenti dell’“Unione dei Comunisti Italiani” ad alcune opere ‘militanti’ da lui dirette in quegli anni.