L’arte come “verità ultima”
Conversazione con Andrej A. Tarkovskij

Andrej Tarkovskij con il figlio Andrej jr, in Russia. © Guerogui Pinkhassov / Magnum Photos, 1979

Firenze. Sulla soglia di casa, il volto semicoperto dalla mascherina, mi accoglie Andrej Tarkovskij jr e subito mi colpisce questa somiglianza con il nonno Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, il poeta, che salta una generazione, come a saldare la continuità con il passato ancora così presente tanto da manifestarsi nel corpo.
Entrare nella casa che fu abitata da Andrej Tarkovskij, permettetemi, è come varcare la soglia di una chiesa. Ed ecco di nuovo un richiamo, questa volta al film che Andrej jr ha dedicato a suo padre presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2019: Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera. È bene però precisarlo subito: tutto questo non ha nulla a che fare con la “religione” in senso stretto, piuttosto con una spiritualità antica che appartiene alla “natura” dell’uomo.
I suoni e i colori avvolgenti dell’ambiente in cui Andrej mi introduce mi parlano, senza inutili preamboli, di un mondo che potremmo definire “scomparso”. Tranne che, a volte, lo si incontra e si comprende, improvvisamente, che così non è, esiste, in una condizione nascosta, intima. Può essere in ciascuno di noi, tanto da risvegliarsi e riaffiorare prorompente appena se ne presenta l’occasione. Come ora, nel salotto di una casa che possiamo definire ottocentesca, trasportata nell’oggi occidentale. La finestra aperta sul cortile da cui salgono le grida di fanciulli che giocano beati, forse a scuola durante una qualche attività all’aperto. L’interno profondo della casa (invisibile e dunque subito preda dell’immaginazione), da cui arriva il suono di un violino, una melodia che aleggia, lieve. Qualcuno studia, forse preparandosi per un concerto. Il mondo in questa casa pare essersi fermato eppure è più vivo che mai.
Questi pensieri mi portano a porre ad Andrej la prima domanda di questa nostra lunga e piacevole conversazione, una domanda che mi pare d’obbligo fare su un uomo che è nato in un luogo così lontano dall’Italia e così diverso.

Andrej Tarkovskij, Il cinema come preghiera, di Andrej Andreevič Tarkovskij, Distribuzione Lab 80 Film, 2019

Andrej Tarkovskij è nato in quella che conosciamo come Unione Sovietica ma aveva un’anima profondamente spirituale, riflessiva, sostanzialmente l’anima della Russia di fine Ottocento. Mi chiedo come si conciliava questa sua anima russa con il materialismo sovietico. Che cosa è la Russia per un russo?


Intanto in Occidente usiamo dire Patria una parola che ricorda il “padre”, mentre invece in Russia si dice Rodina, una parola femminile che suggerisce il legame viscerale, più che intellettuale, con il luogo d’origine, con la “madre”. È qualcosa che agisce sul concetto di legame ad un livello subconscio. Un russo rimane russo ovunque. I russi sono cattivi migranti, non tendono a sciogliersi nel mondo, creano delle isole, dei poli di immigrazione come in Francia o in America. Bisogna poi sempre precisare che il potere e il popolo sono due cose distinte. Nell’Unione Sovietica esisteva il materialismo storico come base portante del regime ma questo non significa che la cultura russa sia stata sradicata completamente. Era nascosta ma sempre presente.
Mio padre comincia a lavorare e a creare dopo la morte di Stalin anzi nel periodo che risale al ventesimo Congresso del Partito Comunista quando Chruščëv annuncia la destalinizzazione, portando una ventata di libertà. Siamo negli anni Sessanta considerati i migliori della storia dell’Unione Sovietica, in cui grandi artisti hanno potuto crescere e anche ideologicamente si è potuto osare di più, c’era questo grande slancio. Quindi Tarkovskij cresce culturalmente in un ambiente tutto sommato abbastanza libero.

Andrej Tarkovskij con suo padre, il poeta Arsenj, in Russia.
© Guerogui Pinkhassov / Magnum Photos, 1979

E poi, c’era mio nonno. L’eredità culturale di mio padre ha origine in mio nonno, l’ultimo grande poeta del Secolo d’argento. La poetica, l’interpretazione dell’arte mio padre l’ha assorbita da Arsenj. Anche se la famiglia era separata, mio nonno era un riferimento puntuale nella sua vita. Era il primo a cui mostrava i suoi film e la sua opinione era molto importante. Sua madre si è sacrificata affinché potesse studiare e diventare un artista. Suo padre, amico di Pasternak e di Achmatova, ha infuso in lui la visione poetica del mondo, una realtà  che aveva vissuto in prima persona e che portava dentro sé. Quindi, anche se dopo la rivoluzione del 1917 tutto questo apparentemente finì, in realtà è continuato nella filosofia, nella scrittura, nei poeti. L’anima russa non è stata distrutta. L’anima russa è indistruttibile.

In effetti  forse il periodo di maggiore repressione nei confronti dell’arte fu proprio quello staliniano.

Le cosiddette purghe staliniane contro i dissidenti del regime repressero molti artisti. Nonostante ciò alcuni, pochi purtroppo, sono riusciti a sopravvivere. È stato il periodo peggiore ma la cultura è sopravvissuta, come pure la fede. I russi hanno questa visione messianica della propria cultura fin dall’Ottocento e ancora oggi, secondo il comunismo era proprio questa visione cristiana ortodossa della propria storia, del destino della Russia, nonché la conservazione di valori spirituali, importantissimi a dover essere cancellata. Valori universali che contengono sia il bene sia il male ma che un russo vive molto più intensamente. Non esiste una comunità o anche un solo russo che si preoccupi di vivere l’adesso. Un russo vive del domani, nel sogno della Gerusalemme Celeste in Terra, dove Mosca era la terza Roma. Per un russo vivere per un ideale è più importante della vita e del benessere quotidiani. Questo credo sia ciò che è successo nella storia russa di tutto il Novecento. In Occidente non sarebbe potuto accadere.

Questa visione un po’ estrema dell’arte, in una persona come mio padre, gli ha permesso di vivere riuscendo a fare progetti di film impossibili per quei tempi, non solo in Unione Sovietica ma, credo, anche in Occidente.

Andrej Tarkovskij in Russia.
© Guerogui Pinkhassov / Magnum Photos, 1979

Questo è forse uno dei significati della verità in Tarkovskij. Nei testi che ha lasciato scrive di questa verità. Che cosa intendeva quando parlava di verità nel suo lavoro?

La verità di cui parlava, secondo me, è la verità ultima, spirituale, divina. La vita dell’artista è al servizio di questa verità, al servizio di Dio (Tarkovskij era credente), non a caso mio padre parlava dei suoi film come di una “preghiera”. È un dono che ricevi e che devi in qualche modo restituire. Un’artista è una specie di schiavo, vincolato al servizio di questa verità, deve offrire ciò che ha ricevuto agli altri. In questo era molto categorico. Credeva nella assoluta libertà dell’artista, necessaria, ma anche nella responsabilità di avere questa libertà. Sì è liberi in quanto creature di Dio, creature divine,  quindi si nasce e si rimane liberi nonostante le condizioni sociali o culturali nelle quali ci si trova. Ma la libertà è una condizione imprescindibile proprio perché sei un essere spirituale e non semplicemente il cittadino di uno Stato, più o meno bravo e corretto. Possono privarti dei diritti ma non della libertà, nemmeno in una prigione, come citava Šalamov1.

Andrej Rublëv (1966), regia di Andrej Tarkovskij

Tarkovskij ha scritto molto sul cinema perché, come hai detto in diverse interviste, la sua vita era il cinema. Ma anche le parole che ha usato nei tanti testi che ha lasciato, sono altrettanto pregnanti delle immagini di cui sono composti i suoi film. Cosa significa esattamente far coincidere la vita con il cinema: vivere una costante vicinanza con i concetti che avrebbe rappresentato nei suoi film?

Io credo che il cinema per lui fosse un mezzo. Non possiamo nemmeno dire un linguaggio perché nel cinema il linguaggio dal punto di vista semiotico non esiste, è diretto, per questo gli piaceva così tanto, non ha nessuna mediazione: stai operando con la realtà.
Credo sia l’unico regista che abbia fatto questo ed è quasi impossibile paragonare in qualche modo Tarkovskij ad altri registi perché ha fatto cose completamente differenti, in modo differente. In Russia è stato classificato come postmodernista ed è sicuramente sbagliato, lui appartiene al “Secolo d’argento” e anche se detestava essere chiamato filosofo è stata una persona che con la sua arte, il suo cinema, ha fatto della filosofia. Era più un pensatore, un poeta. Ha creato immagini che parlano e agiscono sullo spettatore in modo completamente differente da altri film e registi. Come se la percezione della realtà, nella sua opera, fosse “vera”. Di conseguenza lo spettatore è immediatamente coinvolto in questa logica tanto da esserne commosso. È una logica che ci cambia. Pochi altri registi sono così.

Andrej Tarkovskij sul set del film Lo specchio (1973), foto © Vladimir Murashko

Possiamo dire che nella maggioranza dei film vediamo più elementi, diciamo così, di finzione mentre nel cinema di Tarkovskij forse anche l’elemento finzione è reso in modo reale.

Sì, è reale e quindi ci spiazza perché, ovviamente, la realtà ci coinvolge. È difficile spiegare la presenza del cinema nella vita di Tarkovskij. In quanto creativo viveva il cinema come mezzo di conoscenza anche per se stesso, credeva nella conoscenza attraverso l’arte. Era convinto, e anch’io lo sono, che l’arte non è altro che un mezzo per trovare le risposte ai quesiti della nostra vita, come possono esserlo la filosofia o le scienze. L’arte però è più immediata, non c’è bisogno di avere delle competenze specifiche per comprenderla. Il cinema di mio padre è comprensibile sia dai bambini sia dagli adulti. Ricordo che faceva sempre un esempio in cui diceva che il suo cinema arrivava molto prima alle persone più umili, più semplici perché non agivano a livello intellettuale in quanto non ne avevano motivo, non si costruivano un significato “altro” rispetto a quello che era. Nessun simbolo, solo immagini e le immagini, se sono vere e non artefatte, provocano emozioni primordiali.

© Andrej Tarkovskij, San Gregorio, 24 novembre 1983

In effetti la questione dei presunti simboli nel cinema di Tarkovskij mi ha sempre colpita. Molti esponenti della critica spesso hanno cercato di trovare un simbolismo all’interno del suo cinema domandandosi il perché di determinate scene o di elementi con i quali costruiva la storia, mentre invece, probabilmente, metteva semplicemente in scena i sentimenti, il sentire delle persone. Per esempio capita di vedere sui social, dove si trovano parecchie pagine dedicate a Tarkovskij, come gli utenti, quasi in maniera ossessiva, cercano delle comparazioni tra lui e altri registi mettendo a confronto fotogrammi che, secondo loro, si assomiglierebbero anche solo per l’inquadratura, la messa in scena. Dopo un po’ ci si chiede perché ci sia bisogno di trovare a tutti i costi un significato simbolico o una similitudine.

Credo che la struttura e la curiosità umana portino a cercare di capire i motivi per i quali questi film colpiscono così tanto. Creano un impatto emotivo talmente forte nell’individuo da indurlo a chiedersi perché accade. Come per tutte le opere d’arte è difficile che ci si fermi ad ammirale quando ci si trova in uno stato che ti cambia dentro, si cerca di trovare delle risposte e da lì nasce poi tutto quello che è l’analisi e la critica. Ma non è comparando Tarkovskij ad altri registi che si può capire il suo cinema. Ci sarebbe più bisogno di ricercare una vicinanza con Florenskij2 per esempio, o comunque con la filosofia russa. In quell’ambito si possono trovare dei paralleli. Quando un artista crea non pensa certamente agli innumerevoli possibili simboli che altri possono ricercare, partendo da questo presupposto sarebbe impossibile completare un’opera. Tarkovskij aveva semplicemente una grande intuizione, un talento nel percepire la realtà e nel rappresentarla nella sua totalità. Difficilissimo, con i pochi mesi che aveva a disposizione, catturare e mantenere l’assoluto, ancora di più riprodurlo. Per questo si infuriava quando qualcuno tirava in ballo i simboli.

© Andrej Tarkovskij, Andrej Tarkovskij jr con un amico, Miasnoe, 1981

Parlando di realtà rappresentata, Tarkovskij si è però, a volte, riferito ad altre opere. Per esempio in L’infanzia di Ivan o in Solaris, a delle opere letterarie preesistenti e dunque di “finzione”.

Dopo Andrej Rublëv, un film piuttosto osteggiato in Unione Sovietica perché ispirato alla vita di un pittore di icone venerato dalla Chiesa ortodossa, con Solaris prese spunto dal testo di uno scrittore polacco, Stanisław Lem3, classificato come genere di fantascienza, per far passare un progetto che altrimenti non avrebbe potuto realizzare. La stessa cosa accadde con Stalker, un altro film tratto da un libro di fantascienza4. Un pretesto per mettere in scena quella realtà esistenziale, quella ricerca interiore che conduce all’assoluto, totalmente distante dai dettami dell’ideologia di regime.

Olga Barnet e Andrej Tarkovskij sul set del film Solaris, foto © Vladimir_Murashko, 1972

E come reagì, per esempio,  quando si parlò di Solaris in termini di “risposta russa a 2001: Odissea nello spazio”?

La riposta russa a 2001: Odissea nello spazio è un’invenzione. Il primo incontro di Tarkovskij con Lem avviene nel 1966 mentre il film di Kubrick esce nel 1968 se non ricordo male. In un’intervista rilasciata a una rivista russa Lem dice “ho incontrato un giovane regista che vorrebbe mettere in scena Solaris”. Non credo sapesse nemmeno che Kubrick stesse producendo il suo film. Non amava molto Solaris perché era troppo fantascientifico, ma anche in quel film i temi sono sempre gli stessi, ha soltanto usato un’ambientazione differente per aggirare la censura. Per me ogni suo film è come se fosse lo stesso film. Raccontare quei temi, in quel modo, era l’unica possibilità che aveva per poter lavorare.

Quando poi è uscito dall’Unione Sovietica si è sentito più libero di lavorare ai suoi film?

© Andrej Tarkovskij, Bagno Vignoni, 1979

È difficile da dire. Nostalghia era una coproduzione già programmata, mentre Sacrificio è forse l’unica e anche l’ultima opera che lo vede libero in quanto scrive la sceneggiatura che è completamente sua ma fatica a trovare i fondi per realizzare il film. Mentre conosceva bene i metodi di produzione sovietici e come fare per aggirarli, in questo caso non fu semplice perché, come ebbe modo di dire nell’83 in un’intervista, il cinema stava prendendo una deriva commerciale tutta a discapito di un certo tipo di film che erano quelli che lui faceva.

Oggi poi con le piattaforme digitali che sostituiscono le sale cinematografiche in quale direzione si sta andando per il cinema?

Un tempo per fare un film ci volevano budget molto elevati, con soglie altrettanto elevate di accesso alla distribuzione quindi distributori e produttori dettavano un po’ legge. In ogni caso per mio padre se prima l’ostacolo era l’ideologia in seguito lo sono stati i soldi. Non è molto diverso. Quello che è strano – e mio padre lo affermava già nei primi anni Ottanta:  “più i mezzi saranno accessibili e più facile sarà fare film” – è che oggi un regista in teoria ha bisogno solo di un oggetto, una camera, può fare cinema con molto meno rispetto a prima, paradossalmente però non ci sono film buoni. Perché si è disimparato il cinema che ormai si insegna e si fa solo in una logica commerciale. Nonostante ci siano degli esempi isolati, nessuno osa più fare il cinema di prima. Questo comunque fa parte della crisi dell’arte in generale. È cambiata proprio la prospettiva.

Questo allargamento molto vasto della possibilità di creare qualcosa di artistico, non soltanto in ambito cinematografico ma, per esempio, anche in fotografia o in arte contemporanea, per limitarci alle arti che usano l’immagine, questa possibilità appunto di “farsi” da sé il proprio lavoro corre il rischio di portare l’arte verso un’altra deriva che è quella di un appiattimento non solo formale ma anche rispetto alle tematiche stesse che emergono dai lavori di autori che la critica, a volte, considera “emergenti”. Quando poi però si va a vedere questi lavori si nota una certa ripetitività in tutto ciò che viene proposto. Anche nel cinema è così? In sostanza adesso tutto si riduce a Netflix e Amazon Prime?

Indubbiamente questi sono format che fanno “apparire” l’immagine artistica, certo non tutto è così omologato. Personalmente non vado più al cinema, sono stato ormai disilluso così tante volte che preferisco non avere un’altra delusione. Si va al cinema con una aspettativa, con un ricordo ben preciso di un certo cinema e si finisce con il vedere film che la stessa critica celebra magari soltanto perché riprendono temi già affrontati da altri, o perché fanno dotte citazioni. Sono privi di originalità, ma vengono trasformati in grandi film. Nel mondo dell’arte, in generale, c’è molta auto celebrazione.

© Andrej Tarkovskij, Anagni, ottobre 1982

In effetti spesso all’autore viene attribuita molta importanza. Si parla, forse troppo, della vita dell’autore quando invece è l’opera che va nel mondo e che dovrebbe parlare al pubblico.

Sì ma ci sono anche autori che hanno parlato di se stessi creando dei capolavori. Prendiamo Bergman per esempio. Pur non amandolo molto credo si possa dire che ha realizzato film difficili e importanti, che affrontano temi esistenziali personali ma anche universali. Oggi nessuno vuole rischiare, si costruiscono personaggi che alimentano la macchina produttiva di una cultura basata sull’apparire, quanto più sei visibile tanto più successo hai. Poi non importa ciò che dici o fotografi o quale film stai girando. La cosa più terribile è che anche quei registi, ormai piuttosto anziani, che prima creavano delle opere di un certo spessore adesso non le realizzano più con lo stesso rigore, come se anche loro fossero stati in qualche modo influenzati da questa deriva e avessero paura. Certamente i tempi cambiano ma alcuni continuano a girare facendo dei film terribili. Insomma, credo che a un certo punto ci si possa anche fermare.
Mio padre era molto creativo, avrebbe potuto girare cinquanta film invece dei sette che ha fatto, un film però lo faceva nel momento in cui lo sentiva maturo. Come si diceva prima, quando parlavamo della simbiosi tra vita e cinema in Tarkovskij, mio padre viveva in uno stato creativo perenne, sempre concentrato su cosa stava facendo, non si lasciava distrarre dalla mondanità. Era così quando stava a tavola a cena con noi e quando stava sul set. Per lui era la stessa cosa.

Andrej Tarkovskij e Alexandr Kajdanovski sul set del film Stalker, 1978

Questo è in qualche modo visibile e percepibile nel suo cinema. Anche la modalità con cui filmava, per esempio quell’indugiare, a volte piuttosto a lungo, su alcuni particolari quasi come se volesse in qualche modo condurre lo spettatore a osservare meglio qualcosa che non è immediatamente visibile ma che può esserlo soltanto se ci si ferma a guardare più a lungo.

Sì, rendere visibile ciò che non è visibile. Lui aveva, come  tutti i grandi artisti, questo raggio di visione molto più ampio della normalità. La realtà è molto più complessa, di quella che vediamo e percepiamo nella nostra vita quotidiana. Infatti una cosa molto bella di lui era proprio osservare come, standogli semplicemente accanto, ti apriva gli occhi. Non solo perché era un artista ma perché poteva parlarti di cose che tu non notavi. Un mio caro amico ora scomparso, il pittore fiorentino Americo Mazzotta, una volta mi raccontò di quando mio padre venne in Italia per la prima volta e lo portarono a vedere l’Adorazione dei Magi di Leonardo, mi disse di come commentò il quadro per una mezz’ora lasciando tutti stupefatti. Questo è un po’ il segreto di questi grandi poeti.

Parlando invece di immagine fotografica, Tarkovskij ha scattato anche molte fotografie utilizzando il formato Polaroid. Che relazione aveva con la fotografia?

A dire il vero nessuna. Questo lo so perché ha ripetuto più volte anche a me che il regista deve fare il regista e il fotografo deve fare il fotografo, sono due professioni distinte. Anche se aveva occhio e, con tutto il rispetto per i grandi direttori di fotografia con i quali ha lavorato, l’inquadratura la costruiva sempre lui.
La Polaroid che usava poi non aveva nessuna regolazione, come facesse a fare le foto non lo so, sia l’inquadratura ma anche tutto il resto. Il libro Luce istantanea sul quale ho lavorato assieme al fotografo Giovanni Chiaramonte si basa su quella che potrei definire una coincidenza fortuita. Si trovava qui, a Bagno Vignoni, stava cercando le location per Nostalghia e Tonino Guerra portò una Polaroid. Mio padre in seguito la usò principalmente nei cinque anni di lavorazione di quel film, dal 1979 al 1984. La maggior parte delle foto riguardano la fine del viaggio (narrato in “Tempo di viaggio”, 1983, ndr.) con Tonino per la ricerca dei luoghi in cui ambientare il film e furono quasi tutte scattate tra Bagno Vignoni e San Quirico. Poi venne a Mosca e portò con sé la Polaroid che nel frattempo Tonino gli aveva regalato. Ricordo che passeggiavamo in campagna e scattavamo fotografie. Si giocava insomma, io da ragazzo ne ero molto incuriosito. Fu l’unica libertà che si concesse con la fotografia. Molte polaroid non le ha tenute, le buttava via, la collezione conservata nei nostri archivi ne conta circa 340.
Ma ha fatto anche altre foto molto interessanti, in archivio conserviamo una dozzina di stampe originali, perlopiù paesaggi, che sviluppò quando aveva 16 o 17 anni. Sono poche ma mostrano già l’impostazione dell’immagine, quella che sarebbe diventata la sua visione, il suo modo di concepire l’inquadratura. Le scattò molto probabilmente durante i suoi studi che includevano la pittura dove i soggetti erano nature morte, ritratti, qualche paesaggio. Si può dire che furono come delle prove in preparazione di ciò che avrebbe fatto dopo. Di tutto questo ho intenzione di realizzare, spero presto, una monografia completa.

© Andreij Tarkovskij, Anagni, ottobre 1982

Recentemente ho letto che stai lavorando a un nuovo lungometraggio. Puoi raccontarci qualcosa?

Sto lavorando a un’idea cui tengo molto che riguarda la storia russa, il rapporto con la natura e la relazione con ciò che ci circonda, un sentimento che in noi è molto profondo, arcaico, ha a che fare con il mondo dei racconti di Turgenev come Memorie di un cacciatore, con il legame molto forte che noi russi abbiamo con la nostra terra, come si diceva prima, molto presente. Sono convinto che la cultura venga influenzata sia dal paesaggio sia dal tempo inteso come meteorologia in rapporto allo spazio che ci circonda. Gli spazi italiani e quelli russi, per esempio, sono completamente differenti e la cultura di questi due Paesi è infatti molto diversa. Purtroppo questi due anni di pandemia hanno arrestato tutti i progetti che si sono inevitabilmente spostati in avanti e ora devo dedicarmi al restauro della casa di campagna in Russia dove sorgerà una Fondazione, poi, sempre in Russia, ho in programma un altro progetto editoriale che prevede la pubblicazione di alcuni libri tra cui i Diari e Scolpire il tempo. Devo quindi trovare un momento di pace per dedicarmi a questo nuovo film che per me adesso non c’è.
Non si tratterà però di un documentario, sarà una fiction e penso di utilizzare il punto di vista dei bambini, ma è troppo presto per dirlo. Ci vorrà un po’ di tempo, occorre trovare i finanziamenti. Sono convinto però che le cose accadono quando devono accadere. Per il film su mio padre, per esempio, ho cominciato a lavorare alle prime riprese all’inizio degli anni Duemila, poi, per un problema di finanziamento, tutto si è rallentato per riprendere, infine, molto velocemente. La sua conclusione, nel 2019, è stato per me il momento giusto, per la mia maturità su questo progetto. Poco dopo siamo stati purtroppo travolti dalla pandemia e mi sono ritrovato con un film che, dopo un travaglio apocalittico, è uscito in una  situazione di per se stessa altrettanto apocalittica! Forse un segno del destino. Il film deve ancora uscire in molti Paesi perché i cinema sono stati chiusi ma nonostante tutto ha avuto una accoglienza molto buona e sono contento. Ad ogni proiezione abbiamo sempre avuto due ore di dibattito e mi fa piacere aver notato la presenza di molti giovani, ragione per cui una volta di più ho compreso come l’opera vera, la vera arte, nonostante tutto non muore mai. È sempre attualissima, sempre necessaria. Oggi forse di più perché c’è un evidente vuoto e i giovani non sanno dove sbattere la testa, alcuni di loro restano completamente fermi, altri invece vanno a cercare i maestri provando a trarre ispirazione. In realtà non credo ci siano state epoche in cui sia accaduto diversamente, forse la nostra è solo più sfortunata perché non c’è proprio niente, ormai, da quasi trenta o quaranta anni.

© Andrej Tarkovskij, Andrej Tarkovskij jr con il suo cane Dak, Miasnoe, 1981

Con il film suo tuo padre pensi di avere in qualche modo suggellato il debito di riconoscenza nei suoi confronti? Mi viene in mente perché è come se dopo questo film e avendo poi saputo che stai pensando ad un’altra storia diversa, completamente tua, tu avessi in qualche modo concluso un periodo cinematografico e che adesso se ne apra uno nuovo.

Sì, questo è vero. Credo di aver detto ciò che volevo dire, sono contento perché sono riuscito a riconciliarmi con lui. Il film è più importante per me che per lo spettatore, per il mio ricordo di lui. Ne avevo bisogno in quanto mi mancava il dialogo con lui e ho cercato di ricostruirlo. È stato un momento importante, per capire come andare avanti, cosa fare. Mi ha aiutato molto in questo senso. Ho cercato di rappresentare il più possibile ciò che era, il ricordo di un padre, di un’artista, di una persona che mi era vicina. Per il cinema ora ho altri progetti, credo di poter fare altre cose. So che può essere problematico perché lui rimane per me un maestro dal quale è difficile distaccarsi e perché dal punto di vista artistico mi ha insegnato molto, mi ha “impostato”. Sono come sono perché in me c’è la sua impronta e non vorrei nemmeno tanto cambiare. Giunto a cinquant’anni mi trovo in assoluta  sintonia con i suoi pensieri e il suo modo di vedere le cose, non perché sono influenzato a tal punto ma perché comparando, riflettendo e mettendo insieme le cose ho visto che, alla fine, ci troviamo d’accordo su molti argomenti.

Quindi proseguirai i suoi intenti, naturalmente nel tuo modo perché è giusto che tu sia te stesso ma lo spirito, possiamo dire, con cui andrai avanti nel fare cinema appartiene a un flusso che da tuo padre si sposta verso di te e prosegue. Un’eredità che si trasforma in qualcosa che appartiene di più a te, come fu per tuo padre con tuo nonno.

Credo che bisogna sempre studiare e imparare per poi dimenticare e ripartire, però con questo background alle spalle, tagliare le proprie radici culturali sarebbe sbagliato. Ciò che si impara rimane in un substrato conscio, questa è la cultura e solo così si può andare avanti. In questo senso mio padre ha preso molto da mio nonno, si trattava di due geni, io non sono un genio, non mi considero assolutamente tale, ma posso dire di essere in grado di vedere la direzione in cui andare. Certo ci sarà sempre il confronto, sarò per sempre il figlio di Andrej Tarkovskij, ma questo non vuol dire che devo stare fermo e non fare nulla. Ho scelto di fare cinema perché sono nato nel cinema. Girare, montare è qualcosa che mi piace molto, mi viene naturale. Poi si deve avere anche un certo equilibrio, consideralo un lavoro intellettuale ma anche pubblico e mi accorgo che in questo conta molto l’intuizione. Quando si va in una buona direzione ci si fa trasportare dal flusso e ogni cosa avviene molto intuitivamente. Tenere a mente tutto è impossibile e poi ci sono gli spettatori, i critici che vedono i collegamenti e a volte si è sorpresi dalle loro interpretazioni.

Penso che l’artista molto semplicemente faccia confluire nell’opera una serie di elementi della propria vita. La cultura che ciascuno ha, la sensibilità, tutto quello che è il substrato che gli deriva dal vissuto, quello che impara strada facendo e da altri e una buona dose di intuizione che, forse, a volte viene un po’ troppo ingabbiata, soffocata se non addirittura cancellata. Non è una ricetta, non è scontato che facendo questo si manifesti il mistero dell’arte ma sono tutti elementi necessari.

L’intuizione è un elemento fondamentale. Si ha paura dell’intuizione perché non è immediatamente governabile ma è potente. Ritengo che più grande è l’artista e più forte sia il suo intuito. Si possono imparare tutte le tecniche del mondo, nel cinema puoi diventare un tecnico favoloso, e non creare niente. Diventa un metodo scientifico per costruire un lavoro già previsto che mostra tutto perfettamente.

In questo senso molti danni purtroppo li fanno le varie scuole, i corsi eccetera, nel cinema come in fotografia.

Assolutamente, le accademie sfornano ogni anno migliaia di pittori e cosiddetti artisti a molti dei quali si dovrebbe dire che è meglio se intraprendono un’altra professione ma non si può, nessuno ti può dire una cosa del genere a scuola. In altri periodi le selezioni per entrare in certe istituzioni erano molto più severe ed era l’insegnante a fare la scelta. Alla scuola di cinema che frequentò mio padre fu l’unico ad essere selezionato assieme ad un altro candidato. Ne entravano pochissimi, solo sei o sette. Gli esami erano difficilissimi ed era più una bottega, un rapporto tra maestro e allievo, come nel Rinascimento. In questo senso l’arte non è affatto democratica, ed è in queste situazioni che viene fuori veramente chi ha la stoffa. Oggi invece tutti studiano arte e realizzano progetti ma quanti veri artisti ci sono? Questo crea un danno, false aspettative, false speranze e anche una cattiva interpretazione dell’arte.

Penso che così si finisca per vanificare il contenuto dell’arte stessa, l’apporto che l’arte può dare alla vita di tutti. Si pensa sempre (a partire dai governanti) che l’arte sia qualcosa di poca importanza mentre invece serve a vivere.
Quando sono entrata in questa casa, per esempio, già solo questo affaccio, i suoni e i colori mi hanno mostrato la “bellezza”, e l’arte, al di là di quando mette l’accento su questioni sociali difficili, importanti, ma forse in qualche misura anche in quei casi, quello che fa è mostrare la bellezza. Quanto di questa bellezza riusciamo a cogliere nel mondo contemporaneo?

La realtà nel Medioevo non era certamente molto “bella” eppure si parlava di bellezza. Adesso c’è la rete ci sono gli influencer persone, perdonami, che molto spesso sono “ignoranti” nel senso che non hanno studiato eppure hanno un’opinione e la trasmettono ad altri creando una catena di persone che continua a ignorare. Nel mondo dell’arte conta sempre di più chi sei, come ti presenti, quanto è strana la tua storia piuttosto che ciò che proponi e bisogna sempre distinguersi per emergere. Difendersi da tutto questo può avvenire soltanto se si hanno i mezzi per farlo, se si sviluppa cioè la conoscenza, se si studia.

L’immagine dovrebbe restituire ciò che ha preso e permettere a chi la guarda di coglierla nella sua essenza ma è veramente molto difficile trovare immagini di questo tipo. Nel web ne vengono immesse milioni ogni giorno, raccontano storie o narrano pensieri tutti molto simili ed è come se questo mondo fosse caduto dentro un buco all’interno del quale tutto si è mescolato ed è difficile estrarre da esso qualcosa che ci colpisca non tanto perché è “strano” ma perché è vero, semplice. Ci sono immagini di Tarkovskij iconiche che sono entrate nell’immaginario, non soltanto cinematografico, ma cosa hanno di speciale queste immagini, viene da chiedersi. Sono immagini che ritraggono la nuca di una donna presa di spalle, una ciotola con una mela accanto che è stata morsa, abbandonata su un tavolo sotto la pioggia. Sono istanti molto semplici.

È vero, però, in qualche modo, sono nostri sappiamo che ci appartengono, ci rappresentano. C’è empatia totale con l’immagine. Prima si parlava dell’anima russa, non solo i russi, come spesso mi dicono, possono capire le immagini di Tarkovkij, l’uomo non è diverso in Russia o in altri luoghi, le anime si rassomigliano e vanno oltre le diverse culture. Ho partecipato a tanti incontri sul cinema di mio padre e ho spesso sentito gli stessi commenti, uguali dappertutto. Questo è incredibile ed è una grande speranza.
È la sua visione personale e intima eppure è diventata universale. Questo evidenzia un aprirsi dell’autore, un mettersi a nudo in modo tale da poter essere compreso e percepito dagli altri. Trakovskij non ha nascosto nulla, mai, e questo fa paura. Sapeva di dover prendere delle decisioni, non ha mai accettato compromessi. Era così anche nella vita ma soprattutto nell’arte dove si hanno tante persone intorno che ti danno continuamente consigli mentre tu devi cercare di mantenere la tua idea pura. Non è facile.

Sei sicuro di voler fare il regista? (sorridiamo).

Non so, sai, in qualche modo bisogna anche rischiare. Spero che il cinema ritrovi un po’ quello che ha perso. Rimane comunque forse l’arte più potente che esiste, nonostante le tecnologie. Alla fine è sempre lo schermo, la sala del cinema che crea la magia.

Uno schermo che è quasi sempre il riflesso di te stesso, un po’ come guardarsi allo specchio, quello specchio tanto presente nei film di Tarkovskij. Che cosa viene fuori da quello schermo che è come uno specchio? Alla fine vieni fuori tu perché ti immedesimi talmente tanto in quello che sta accadendo da essere proprio lì dentro.

Eppure, vivendo lì dentro soltanto due ore, il tempo di un film, si ha l’impressione che questo tempo diventi eterno. Soltanto il cinema può offrirti questo.

Ancora un’ultima domanda, di rito: quale sarà il prossimo progetto su Andrej Tarkovskij dell’Istituto che presiedi5?

Oltre al già menzionato restauro della casa di campagna in Russia che vogliamo trasformare in un museo interattivo, stiamo lavorando al restauro anche della pellicola  Andrej Rublëv per il quale intendiamo ripristinare le scene tagliate dalla censura russa, circa quindici minuti. Vorrei far coincidere l’uscita della versione restaurata con il novantesimo anniversario della nascita di Tarkovskij che cadrà il prossimo anno. Questo è l’obiettivo, spero di riuscirci.

Andrej Tarkovskij jr., Anton Tushin/TASS
Note

1Varlam Tichonovič Šalamov (1907 – 1982), scrittore, poeta e giornalista russo. È stato prigioniero politico per lunghi anni. Sopravvisse all’esperienza del gulag.

2 Pavel Aleksandrovič Florenskij  (1882 – 1937), filosofo, matematico e presbitero russo. A partire dal 1991, in seguito all’apertura degli archivi del KGB, fu riscoperto il suo contributo alla letteratura e alla filosofia contemporanea. Irriducibile, difficilmente etichettabile sotto una disciplina e un pensiero sistematico e preconcetto, morì fucilato per ordine del regime sovietico l’8 dicembre 1937.

3 Stanisław Herman Lem (1921 – 2006), scrittore polacco, autore prolifico e brillante che coniugò il genere della fantascienza con il romanzo filosofico. Uno dei suoi romanzi più celebri è Solaris. Il trattamento cinematografico ad opera di Andrej Tarkovskij, nel 1972, lo rese popolare al di fuori della sua patria.

4 Il film Stalker (1979) fu liberamente tratto dal romanzo Picnic sul ciglio della strada (1971) dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij. Come già per Solaris, la pellicola rappresenta una personale interpretazione di Tarkovskij dello scritto originale.

 5 L’Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij è presieduto da Andrej A. Tarkovskij, figlio del regista, e le sue attività si svolgono nelle tre sedi di Parigi, Firenze e Mosca grazie ai contributi e alle collaborazioni di molti enti. In Italia l’Istituto è sostenuto dal Ministero della Cultura e dalla Città di Firenze, tra gli altri. In Francia dal 1999 è in corso un’eccezionale iniziativa volta al restauro delle pellicole dei film per la produzione di nuove copie di essi destinate ai festival e agli studiosi.