Se fosse una favola tramuteremmo le tue ferite in arte, poesia, teatro.
Le muteremmo in ulteriore luce. Ma questa non è una favola. O forse sì.
(da Il mare nascosto)
La pacata immagine di un uomo immobile sull’estremo confine del mare, come dire del mondo, un ragazzo in fuga fra tenebre e lampi di luce. Poi un paesaggio di desolate rovine, tracce dimenticate del passaggio di esseri umani, e altri uomini in cammino fra esse e oltre ancora. Il volto mite del narratore che parla a qualcuno che non vediamo e che proprio per questo può essere ognuno di coloro che ascoltano. E qualcun altro, quel sottovalutato personaggio cinematografico che è lo sguardo dell’autore incarnato nella macchina da presa, che si innalza a seguire in volo, come da una realtà ulteriore, coloro che tracciano coi loro passi il cammino del proprio viaggio, di ogni viaggio, ma soprattutto li accompagna mescolandosi a loro, occhio fra gli occhi e immaterialità immersa in una realtà fin troppo materiale. Comincia così Il mare nascosto, primo lungometraggio di Luca Calvetta, che ho incontrato a Roma per parlare del suo film e far sì che dalle sue stesse parole emergesse il terreno culturale ed esistenziale da cui è nata quest’opera estranea a ogni tentativo di classificazione e indifferente a ogni confine.
Il mare nascosto, trailer
Filippo Schillaci – E vorrei cominciare il nostro dialogo dai tre elementi che tu hai fatto convergere nel soggetto di questo film e che hanno un ruolo importante nel determinare la sua indefinibilità: da una parte quella tragedia storica che è la fuga dall’Africa, dall’altra una favola che tutti conosciamo: Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupery. E tra l’una e l’altra, come fulcro narrativo, ma soprattutto visivo, la terra cui ti senti legato, la Calabria.
Luca Calvetta – Questo è un discorso complesso: mio padre è calabrese, è nato e cresciuto lì, mentre io non ho mai vissuto in Calabria e per me è sempre stato un luogo di villeggiatura, per così dire. La mia vita si è svolta invece fra Roma, Parigi e Bruxelles, e anche la mia formazione intellettuale è molto francofila: ho imparato, ad esempio, a scrivere prima in francese che in italiano e per tutta la vita ho fatto riferimento ad autori europei che molto spesso – questo l’ho capito solo a posteriori – erano figure a cavallo fra più culture, autori come Gary, Derrida, Hannah Arendt, Cioran, che nella propria chiave di lettura del mondo, nella propria opera e soprattutto nella propria biografia erano sempre appunto al confine fra diverse lingue, diversi luoghi, spesso anche diverse discipline. A un certo punto io queste identità multiple, che sento molto mie, le ho ritrovate in Calabria attraverso l’opera di Vito Teti, antropologo calabrese, che ha studiato molto approfonditamente la sua terra, e nel descrivere lo spirito calabrese ha rintracciato, ridefinito queste stesse identità multiple che io avevo invece cercato in figure straniere. E ciò mi ha permesso di riconnettermi a uno dei luoghi di origine della mia vita, e in qualche modo a chiudere un cerchio. Portiamo tutti dentro uno spirito nomade… Nel Mare nascosto questo elemento autobiografico, identitario si connette con il territorio, e infatti, almeno nella volontà, i luoghi sono per me il personaggio principale del film. Una molteplicità di luoghi, luoghi feriti, luoghi plurali; e per me in un certo senso la storia che parte dal Piccolo principe era un pretesto narrativo per poter far parlare invece i luoghi ed i personaggi che in quei luoghi vivono, che quei luoghi esprimono. I territori sono quindi il protagonista del film anche se non hanno un nome, non vengono mai nominati, perché allo stesso tempo, pur parlando di luoghi specifici, l’idea era di aprirli al mondo: che quel sud fosse al contempo ogni altro sud e che ogni sud fosse in qualche modo una condizione interiore prima ancora che un luogo geografico. Perché siamo tutti in viaggio, siamo tutti migranti. Anche i luoghi viaggiano.

…poter far parlare invece i luoghi…
F.S. – «Il sud è ovunque qualcosa si interrompe» dice il narratore all’inizio.
L.C. – Per me questa definizione è uno degli elementi fondamentali del film. Ed è una frase cui io tengo molto perché non è solamente una descrizione fattuale – in Calabria tu hai letteralmente strade che si interrompono nel nulla, il famoso non finito calabrese –, ma anche culturale, esistenziale, e allora nel film io cerco di spostare quel non finito verso qualcosa come l’infinito, per aprirlo su una dimensione universale perché ovunque qualcosa si interrompe, dentro e fuori di noi, ovunque la realtà è frammentata, incoerente, ferita, siamo di fronte a qualcosa che ci riguarda tutti, a prescindere dal luogo in cui siamo nati e cresciuti, a prescindere dalle nostre aspirazioni, dalla classe sociale, dall’identità che appunto è sempre qualcosa di aperto e in costruzione, e questo è uno dei temi fondamentali del film. In questo senso Il mare nascosto è per sua natura poetico nella forma ma politico nella sostanza.

F.S – Mi sembra che a quanto tu hai detto si connetta un aspetto fondamentale del film: il superamento dell’idea di confine.
L.C. – Sì, io ho cercato di giocare sull’idea dei confini, di aprirli, e parlo non solo di confini in senso stretto, dunque geografici poiché si parla di migrazioni, ma soprattutto di confini interiori, simbolici, e tra le discipline. Questo intento si estende fra l’altro al fatto che nel film c’è una trama, una temporalità frammentata e non lineare. Vorrei citare a questo proposito Lo Specchio di Tarkovskij, autore che per me è stato, e continua a essere, un riferimento. Nello Specchio c’è un gioco di sovrapposizioni tra temporalità diverse: ricordo, presente, realtà, sogno, lo stesso gioco che ho tentato, in modo diverso, nel mio film, dove pure si passa senza interruzione dal ricordo all’immaginazione, al sogno, al presente, i piani si sovrappongono in modo da creare un corto circuito tra narrazione, rappresentazione, realtà, cui sovrintende una chiave poetica che accompagna ogni frammento del film. E dunque siamo nel documentario, poi si va a teatro, poi si va in una sorta di videoarte, quindi anche sotto questo aspetto i confini vengono sfumati proprio perché forma e contenuto siano in qualche modo coerenti tra loro in questo tentativo di varcare i limiti in cui si trova imprigionato il protagonista e forse lo spettatore stesso.

F.S. – Un protagonista che però è tutt’altro che solitario nell’essere tale, essendo piuttosto circondato da una molteplicità di personaggi che lo sono a loro volta.
L.C. – Sì, questo è di fatto un film corale, ci tenevo che anche i personaggi apparentemente secondari avessero parola, e tutti infatti hanno dei monologhi. Anche questa è una scelta estetica e insieme politica: tutti sono soggetti. E lo stesso interrogare la forma dell’opera è parte dell’opera. A un certo punto Ascanio Celestini, che è il narratore, discute e mette in dubbio il proprio narrare, cioè le implicazioni di potere che il proprio narrare può o meno avere, specie quando si raccontano i subalterni, che è quanto l’occidente ha fatto per secoli con l’altro, il non occidentale, ma anche con le donne. Allora, quando tu racconti l’altro lo stai liberando o lo stai imprigionando in una narrazione che non è sua? Per me era importante raccontare dei soggetti che non hanno voce, ma anche interrogare la narrazione stessa, proprio per rompere i confini tra rappresentazione e soggetto rappresentato, e confondere i piani, le gerarchie.

…una molteplicità di personaggi protagonisti a loro volta…
F.S. – Una cosa che mi ha subito colpito nel film, e che ritrovo in quanto mi stai dicendo, è la sua inclassificabilità, cioè il fatto che raccoglie interazioni fra diversità su più livelli, dal soggetto fino alle scelte formali che rendono impossibile dare risposta alla domanda: cos’è questo film? È un film narrativo? Poetico? Un documentario? Non è nulla di tutto ciò e ne è l’insieme, la fusione. Ciascuna di queste cose è una sorta di nodo all’interno di una rete che tu hai tessuto.
L.C. – È esattamente questo. E fra i nodi di questa rete vorrei citare quello geografico, l’insieme dei luoghi, i luoghi che non hanno un nome, anche luoghi che nella realtà sono distanti tra loro e non comunicano e che io volevo connettere. Tu hai nel film delle scene in cui si passa dalla montagna più sperduta dell’Aspromonte al mare rompendo le distanze, anche qui perché volevo che i luoghi, così come i personaggi, il narrare, le temporalità, si sciogliessero tutti insieme, malgrado le differenze, in una voce sola, in una dimensione sola. Questo può essere un limite naturalmente, se si cerca una narrazione più classica e lineare, però per me era importante giocare su questo aspetto anche perché io stesso sento di essere un’identità frammentata per il percorso fatto, per il tipo di formazione, di riferimenti filosofici che ho. Sento casa mia Parigi, Roma, sento casa mia la Calabria, il francese è casa mia, l’italiano, e nessuna di queste identità esclude le altre, perché tutte sono compresenti, e questo a maggior ragione credo sia importante rivendicarlo in una fase storica come la nostra, in un momento di chiusura identitaria: credo che tentare di mantenere aperte le frontiere e le identità sia importante.
F.S. – Continuando in questo discorso della pluralità, vorrei rivolgerlo per un momento anche al versante filmico, che è anch’esso, diciamo, molteplice. Qualcuno ha scritto che questo è un film dominato dalla parola ma è sbagliato. La parola è importante sì, ma ci sono anche l’immagine, il suono, in particolare la musica che non è soltanto un commento sonoro ma aggiunge una terza dimensione tutt’altro che trascurabile.
L.C. – È vero, l’elemento visivo per me è fondamentale. Nonostante la povertà di mezzi imbarazzante con cui è stato fatto il film…
F.S. – …che non si vede…
L.C. – Ti ringrazio… lo dicevo perché nonostante ciò ogni inquadratura per me è stata importante, nessuna, letteralmente nessuna è stata casuale, ho voluto concentrarmi in profondità su ognuna di esse. Molte scene nascevano da una visione, da una immaginazione che poi cercavo naturalmente di realizzare per quel che si poteva con gli strumenti a disposizione.
Detto ciò, io non riesco a separare immagine, suono e parola, cioè per me queste dimensioni sono un’unica dimensione, e non saprei rinunciare a nessuna di esse. Pur essendo molto presente il testo – e io tengo molto al testo – per me è quasi secondario che tu lo ascolti intellettualmente, cioè quella voce è un accompagnarti in una dimensione altra che è fatta di parola certamente, ma senza dubbio anche di immagine. A questo proposito, io ho un tatuaggio che è una frase, una citazione da un libro di Grossman, che dice: «che tutte quelle migliaia di parole diventino corpo». L’ho fatto da giovane, e dunque fin da allora in qualche modo c’era in me il desiderio che le parole, i pensieri, si tramutassero in qualcos’altro, appunto in una dimensione quasi corporea, e nel film c’è questo tentativo di trasformare la parola, il suono e l’immagine in una dimensione altra e unica.

F.S. – Nel tuo percorso narrativo, abbiamo detto, ti sei ispirato al Piccolo principe anche se hai di fatto fortemente riscritto la favola. Ora, io credo che il primo errore da evitare quando ci si avvicina a un’opera che trae ispirazione da una preesistente, sia impantanarsi in una ricerca puntuale delle analogie, dei riferimenti, degli agganci, impresa sempre sterile e soprattutto senza senso quando parliamo di opere appartenenti a due arti così lontane come letteratura e cinema. E dunque credo che non abbia senso cercare Saint-Exupéry nel tuo film come non ha senso cercare Omero in Joyce, anche se nel tuo caso i riferimenti sono molto più riconoscibili. Lo sono però secondo significati profondamene alterati rispetto alla favola. Ad esempio, il pastore (interpretato da Marco Leonardi) è una sorta di antitesi dell’affarista, è l’episodio dell’affarista visto dall’altra parte.
L.C. – Rovesciato, e infatti ho cercato in generale di operare un ribaltamento, quasi sempre, proprio per quel desiderio di cui ti parlavo all’inizio di dare voce ai senza voce e la Calabria è un luogo senza voce, il sud è un luogo senza voce. Il re della favola diventa quindi l’unica abitante di un paesino abbandonato, regina che finalmente raggiunge la propria libertà nel momento in cui rimane sola (Annamaria De Luca è stata premiata per questo ruolo). Tutti i personaggi del libro sono in qualche modo rintracciabili, però certamente c’è una riscrittura forte che mi è servita a trasformare la favola in una storia intima, perché credo che in un modo direi nascosto io ho raccontato me stesso, come sempre si fa nell’arte. E questa ricerca della propria identità, di quell’identità multipla e frammentata di cui ti dicevo prima, credo sia il tema principale del film. Si viaggia, si migra, nel mondo e dentro di sé, anche alla ricerca della propria identità.

F.S. – A un certo punto Celestini dice: «ricompongo la tua storia, o forse soltanto la mia».
L.C. – Io ho lavorato molti anni in televisione e ho fatto anche un dottorato; ho dunque una formazione che tende al discorso saggistico. Nel film ho fatto attenzione a che ogni elemento, anche teorico, fosse in qualche modo giustificato, connesso agli altri elementi, benché in una forma come dicevo frammentata e poetica. E come si fa spesso nei saggi, all’inizio del film c’è un manifesto in cui si rivendica e si denuncia, in un certo senso, ciò che si intende fare. E si dichiara. Quando appunto Ascanio Celestini all’inizio annuncia ciò che racconterà, ciò che farà, qual è l’approccio… probabilmente entriamo in quello che per molti è una sorta di anti cinema, perché dico ciò che accadrà, rompo la trama. Ecco, viene rivendicato tutto questo, e tutto questo è fortemente autobiografico. E politico.

.S. – Nonostante quanto ho detto prima, possiamo individuare una sorgente comune fra la narrazione di Saint-Exupéry e il soggetto del tuo film nell’idea del percorso della vita come viaggio, che è poi lo spirito forte del Piccolo principe.
L.C. – Era quello che mi serviva, ed esattamente per il motivo che ti dicevo prima: avevo bisogno di un pretesto narrativo, ovviamente dotato di una sostanza filosofica, che permettesse di raccontare diversi luoghi e una ricerca, esattamente come avviene nel Piccolo principe, anche se naturalmente in una chiave diversa. E poi c’è un altro riferimento importante per me a Saint-Exupéry, che è la Lettera a un ostaggio, che viene citata direttamente a un certo punto da Ascanio a proposito del sorriso come luogo di incontro al di là delle differenze, anche qui sul tema delle migrazioni, ma non solo.
F.S. – A questo proposito, ho notato che ci sono diverse citazioni sparse nel film.
L.C. – Sì, Pasolini, Darwish, Gary… però per me era importante che ci fosse una lingua mia, e infatti per lo più il testo è scritto da me e le mie parole si fondono a quelle dei ben più illustri scrittori.
F.S. – E c’è un ricorrere del tema dell’incertezza, intanto in quella sorta di ritornello verbale che è la frase: «questa non è una favola, o forse sì.», e anche altrove. Credo che se si facesse un’analisi computazionale del tuo testo si scoprirebbe che la parola che ricorre più spesso è «forse».
L.C. – Mi piace che tu dica questo. Assolutamente è così. Perché, a proposito di identità – e anche questo è da un lato una confessione autobiografica e dall’altro lato una posizione politica – nel momento in cui trionfano le identità monolitiche, definite, le frontiere chiuse o i sistemi di pensiero rigidi, rivendicare invece l’incertezza, per me ontologica, per così dire, delle identità, dei luoghi, delle culture, è una presa di posizione appunto politica, non solo in assoluto, e certamente per quanto riguarda il mio percorso biografico, ma a maggior ragione nel momento in cui si racconta un territorio come quello della Calabria che è per definizione incerto, dove cioè tutto ti dà una percezione di precarietà strutturale. E questo proprio l’opera di Vito Teti lo descrive molto bene: la stessa natura frammentata del territorio, la sua sismicità, per cui non sai se la casa, il luogo stesso in cui vivi sarà in piedi e integro il giorno dopo, e poi l’emigrazione – la Calabria è un luogo di partenza, ma è anche un luogo di arrivo oggi – danno ulteriormente una dimensione di indecidibilità. Oltre al fatto che poi – e questa è una riflessione sull’opera in sé – quello che a me interessava fare era rompere la certezza della posizione in cui ci si trova: stiamo raccontando un’opera teatrale, stiamo raccontando la realtà, stiamo raccontando un sogno, un personaggio o è il narratore che sta raccontando se stesso? Ecco, io volevo che anche queste diverse dimensioni fossero indecidibili e aperte. Per cui è effettivamente come dici tu, è il trionfo dell’incertezza.
F.S. – Incertezza che però non è necessariamente sinonimo di precarietà ma può anche essere vista come un riferimento a quella che Cacciari chiamerebbe l’infinità dei possibili, soprattutto se si guarda al futuro come tu fai, come quando parli della «parentela che si fonda sul futuro, non sul passato, sulla meta, non sull’origine», o anche il riferirsi alla «memoria del futuro».
L.C. – È esattamente così. Ritorniamo alla frase che tu hai ricordato, che per me è molto importante, quando il narratore dice che il sud è ovunque qualcosa si interrompe. Questo viene detto all’inizio del film. Alla fine invece quella frase viene ripresa dal narratore che la completa dicendo: «ovunque qualcosa si interrompe qualcosa può cominciare nuovamente». Ed anche il discorso che facevamo poco fa, di trasformare il non finito nell’infinito, riprende proprio questo gioco di apertura e di interpretazione di ciò che sono le ferite, le fratture, i frammenti come spazi in cui c’è un possibile che si dischiude. Quindi sì, c’è questa idea, questa lettura dell’incertezza come possibilità, senza dubbio.
F.S. – Nell’inquadratura in cui il ragazzo è acciambellato nella barca, quando il drone si solleva in verticale si scoprono due disegni sulla sabbia: a destra un solco la cui forma richiama quella di un fiore e a sinistra un disegno tracciato con dei ciottoli. Ha un significato?
L.C. – Sì. Nel girare quella scena ho chiesto al ragazzo che interpreta il piccolo principe, Mohamed Amine Bour, un giovane poeta marocchino che vive in Italia da molto tempo, di scrivere in arabo una parola, quella che tu hai visto (che tra l’altro non tutti notano). Quella parola significa assenza…

F.S. – Parola che in quel contesto mi pare importante.
L.C. – È importante, direi proprio di sì. Perché il discorso che facevamo poco fa sull’incertezza come apertura e come possibilità, vale anche per l’assenza. Senza voler essere retorico, l’assenza non è un vuoto, ma un pieno, c’è nel film una continua presenza dell’assenza, che tra l’altro, mi viene in mente in questo momento, è anche il titolo di una raccolta poetica di Mahmoud Darwish, poeta palestinese: In presenza d’assenza. Senza svelare troppo della trama, possiamo dire che il protagonista si confronta continuamente con un’assenza che però è molto presente nel suo vissuto, nella sua vita interiore. L’assenza tra l’altro per me è anche all’origine della scrittura; la parola è strettamente connessa con l’assenza, senza voler per forza richiamare Blanchot e vari autori francesi. Quindi l’assenza c’è ed è rivendicata. E anche i luoghi abbandonati sono molto presenti nel film, ma quei luoghi abbandonati sono davvero vuoti? Non portano piuttosto con sé tutta una serie di tracce, che sono sì frammenti di storie passate ma anche, come direbbe appunto Vito Teti, di suggestioni, di strade non percorse, in questo senso di possibilità aperte per un futuro forse diverso. Quindi c’è, come vedi, in generale sempre questa ricerca su più registri, questo gioco di rovesciamenti tra mancanza e possibilità, tra incertezza e definizione di sé.

F.S. – Ancora a proposito di assenza, ho notato che c’è una grande differenza fra i due ruoli principali, il narratore e il piccolo principe, se così vogliamo ancora chiamarlo. Il primo è totalmente immerso nella parola, il secondo al contrario, o meglio in maniera complementare, è quasi sempre silenzioso; possiamo dire che la parola si percepisce in lui per la sua assenza. E questo, unito al fatto che sua azione prevalente è l’ascolto, io credo che gli doni un senso.
L.C. – Si tratta del tentativo di rappresentare e interrogare le dinamiche di potere che hanno da un lato sovrinteso ai rapporti tra potenze coloniali e popoli dominati (parliamo di migrazioni, di Orientalismo…) e dall’altro a quelli tra il soggetto narrante e quelli narrati… volevo che questo gioco, spesso colmo di una violenza simbolica prima ancora che fisica, si vedesse, fosse parte del film e che nulla fosse “naturale”, ovvio, ma tutto fosse rimesso in discussione. Il ragazzo, in fin dei conti, lo straniero, assume quasi una funzione di specchio in cui i diversi personaggi finiscono col vedere se stessi e forse con lo scoprire, come dice la Regina, che siamo tutti stranieri…

F.S. – C’è un’altra importante presenza silenziosa nel film: la ragazza, la cui storia parallela sfiora ma non tocca quella del (co)protagonista. E che ci riporta, fra molte altre cose, anche al tema del sorriso, perché il film comincia e finisce con un sorriso: quello del narratore, che sorride prima di cominciare a parlare, e quello, appena accennato, tanto che sfuggirebbe a una visione non attenta, della ragazza alla fine.
L.C. – La ragazza, interpretata da Josephine Faraci, esordiente assoluta e molto intensa, è un alter ego vero e proprio del ragazzo che interpreta il “piccolo principe”, ne costituisce una dimensione speculare. I due percorsi infatti sono paralleli, ma hanno esiti molto diversi… e non è un caso che queste due linee del possibile, questi due diversi modi di affrontare il proprio passato, siano incarnati da un ragazzo e da una ragazza… la questione femminile è molto importante nel film ed è affrontata da diversi punti di vista e attraverso diversi personaggi…

…un alter ego del ragazzo, una dimensione speculare…
F.S. – Vorrei adesso che parlassimo della realizzazione del film. Quali sono state le difficoltà produttive? Hai fatto tutto coi tuoi mezzi però hai anche avuto tante persone attorno.
L.C. – Sì, è un film autoprodotto, a bassissimo costo rispetto ai costi del cinema, anche se naturalmente per un privato sono comunque costi importanti. Questo ha comportato dei limiti che ci hanno costretti a una dimensione veramente artigianale, fino a costruire materialmente gli strumenti; penso a scene che normalmente in un set cinematografico immagino siano banali e che a noi invece prendevano giornate intere. Tutti i mezzi tecnici sono stati messi a disposizione da amici; il direttore della fotografia (Massimiliano Curcio) è un mio amico d’infanzia che si occupa di reportage di matrimoni e per le riprese ha utilizzato la sua videocamera; le luci erano per la maggior parte dei faretti da campeggio. Per cui è stato molto faticoso, ma anche molto stimolante. E direi anche fonte di orgoglio, perché questi limiti, oltre alle scelte poetiche di base s’intende, mi hanno costretto a uscire dal seminato. Io mi ricordo quando ho cominciato a pensare a questo film, tutti mi dicevano che era una follia; questo perché non è il tipico film indipendente che fa della semplicità di mezzi tecnici alla Clerks un punto qualificante della sua poetica, piuttosto un film che rivendica una dimensione in parte anche estetizzante, nel senso che l’aspetto visivo, come dicevamo, è importante. Per cui sì, è stata una follia, ma che rivendico e di cui sono molto orgoglioso. E non sarebbe mai stato possibile senza tanti amici che sono stati assorbiti dall’idea e mi hanno fatto dono del loro tempo, anche persone che non hanno nulla a che fare col cinema e che si prestavano a questa esperienza. L’unico professionista presente sul set era il fonico di presa diretta, nei giorni in cui lo si poteva pagare, quindi non sempre, oltre alla maggior parte degli attori, ovviamente, che sono stati generosissimi nel credere a questa idea perché credo abbiano intuito quale visione c’era dietro e l’hanno sposata, per cui la dimensione umana è stata veramente centrale.

F.S. – Soprattutto, immagino, Ascanio Celestini perché lo vedo molto in sintonia con lo spirito del film.
L.C. – Totalmente. Tra l’altro Ascanio (premiato come miglior attore al Tropea Film Festival per questo ruolo) oltre a essere una persona generosa è anche un intellettuale fra i pochi in cui c’è una coerenza tra posizione rivendicata e comportamento quotidiano. E anche l’aver aderito a questo film con tanta generosità ne è un’ulteriore dimostrazione; del resto questo è certamente un film in piena sintonia con il suo sguardo sul mondo. Lui è in questo momento in libreria con un libro che si chiama Poveri cristi. Nel film in qualche modo si racconta di poveri cristi, di persone che non hanno voce, e infatti lui ha subito sposato questo progetto e io non gliene sarò mai abbastanza riconoscente.
Nei limiti in cui dipenderà da me, anche nel momento in cui dovessi avere mezzi più, per così dire, industriali, per me sarà importante che chiunque faccia parte del film creda nel film. A Il mare nascosto hanno contribuito solo persone che ci credevano, al di là del proprio lavoro, del luogo di origine, amici, estranei, professionisti del cinema o meno…
F.S. – Non so se è una sensazione soggettiva, ma nel vedere il film ho avuto la percezione di questa partecipazione. Che partecipavano perché ci credevano.
L.C. – Questo senza dubbio perché certamente non lo fai per soldi, sai che non è un film che andrà a Hollywood, quindi c’era una condivisione intima che è stato bellissimo percepire. Ed è probabilmente questa compartecipazione che ha permesso al film di esistere, come dici tu.

F.S. – Questo è poi un film girato in grandissima parte “sul campo”, cioè niente teatri di posa, ricostruzioni fittizie. È una scelta che comporta l’interazione continua con l’imponderabilità degli eventi esterni, e dunque un atteggiamento costante direi di ascolto e disponibilità verso il mondo.
L.C. – Questo effettivamente è vero. Il mare nascosto è stato un tentativo ininterrotto di catturare la realtà e non ricostruirla, di far parlare i luoghi… E ci vuole la pazienza dell’ascolto, come dici, dell’essere pronti: bisognava attendere ogni volta che accadesse qualcosa, che cambiasse la vegetazione, la luce, il vento, che passasse una barca ad esempio, ma quando tu hai questa pazienza, questa disponibilità ad accogliere il mondo, la realtà quasi sempre ti premia, quel che serve che accada, quando tu lo insegui effettivamente accade. È un lavoro lungo, ci ho messo infatti tre anni in tutte le fasi, con lunghe attese spesso, ma questo film è stato uno dei rari momenti in cui ho sentito che era per me il luogo in cui dovevo stare, quindi ricomincerei domani mattina.
F.S. – Un impegno che a quanto pare sta dando risultati perché mi sembra che Il mare nascosto stia avendo un certo riscontro.
L.C. – Sì, dove accede sì. Ma è sempre difficile entrare nei luoghi. E ho la sensazione che in qualche modo il fatto che sia totalmente auto prodotto e outsider, se da un lato è naturalmente un punto di forza, credo che in certi contesti sia problematico perché è un messaggio che smonta molte dinamiche, anche economiche. Però dove è arrivato, nei festival ad esempio, è andato molto bene. Ha ricevuto un numero di premi che non avrei mai immaginato. Ma al di là di questo, ciò che per me è importante è vedere come anche persone molto diverse tra loro, con formazioni molto diverse, ricevano qualcosa. Questo è emozionante e sta succedendo. Ora vedremo se si riuscirà a costruire una distribuzione un po’ più strutturata: qualche proiezione in sala e poi probabilmente in streaming. Però vorrei che fosse qualcosa di coerente con lo spirito del film. Tendenzialmente sale d’essai e, nel momento in cui dovesse arrivare allo streaming, ciò accada con dei costi che siano accessibili a tutti.
Si conclude così il dialogo con Luca Calvetta, ma c’è ancora qualcosa su cui è importante soffermarsi. Rimane infatti da rapportare ll mare nascosto alla realtà storica che sta a monte del suo soggetto, l’immensa e tragica fuga dall’Africa che rappresenta, dopo la devastazione del clima planetario, l’evento più macroscopico e terribile di questo secolo. È vero che il film tace sulla prima e più importante domanda che c’è da porsi su questa catastrofe: perché scappano? Da cosa? Domanda che nessuno, ipocritamente, si pone, come fosse normale che masse così enormi di persone abbandonino i loro luoghi, le loro case, il loro continente verso destini che non potrebbero essere più incerti. Anche Il mare nascosto, dicevo, tace su questo punto, ma non ipocritamente. Tace per due ragioni: perché non è compito dell’arte fare analisi storiche, che esigono altri e più adatti strumenti; e tace perché ciò che interessa l’autore, in questo film, è dirci una cosa non meno importante: che questa tragedia planetaria non è solo una traslazione di corpi da un continente all’altro, ma è anche e soprattutto, per ciascuno di coloro che ne sono coinvolti e, troppo spesso, travolti, un viaggio interiore che essi hanno avuto l’aspro privilegio di compiere fino agli estremi confini cui l’esperienza della vita può giungere, fino alla meta dell’esclusione assoluta da tutto, quella meta al di là della quale forse c’è solo l’annientamento. O forse qualcosa di ancora sconosciuto. Quella meta infine, verso cui ciascun essere, in altri modi, viaggia; perché il vero soggetto del Mare nascosto, infine, è il fatto stesso dell’esser vivi. Il che gli dona l’ulteriore pregio di mettere al sicuro dal dilemma di Tonio Kröger lo spettatore, che trova nel film allo stesso tempo un’opera d’arte di alto valore e un’opera dalla quale si ritorna con la certezza di aver vissuto per un’ora immersi nel respiro della vita stessa.
Il mare nascosto è un film di Luca Calvetta. Con Ascanio Celestini, Marco Leonardi, Anna Maria De Luca, Carlo Gallo, Carmelo Giordano, Nadia Kibout, Kento, Gioacchino Criaco, Mohamed Amine Bour, Josephine Faraci. Fotografia Massimiliano Curcio. Fonico di presa diretta Daniele Sciacca. Musiche di Agate Rollings e Ewa Dominika Lorek.