Lo spettatore incantato
Omaggio a Sergej Paradžanov

Un ritratto di Sergej Paradžanov

Raccontare Paradžanov (1924-1990) significa innanzitutto situarlo al centro del Caucaso, una regione attraversata nei secoli da guerre fratricide, che egli conobbe nella sua essenza frastagliata e multietnica. Era un “armeno-georgiano”, un paradosso, cresciuto in un mosaico di etnie tra i più ricchi della ex-URSS; un vero e proprio collage naturale di razze, lingue e tradizioni.1
Viveva in una casetta sbilenca a ridosso del monte Mtak-Minda, nel cuore della vecchia Tbilisi, la sua casa-bazar era un vero e proprio luogo di pellegrinaggio; pittori, poeti, artisti, curiosi di ogni luogo del mondo arrivavano per conoscere il regista di Teni zabytych predkov (Le ombre degli avi dimenticati, 1964), il film a cui dovette l’inizio della sua fama e, inspiegabilmente, l’inizio della sua rovina. Nel cortile e sul balcone, Paradžanov ammonticchiava scialli, cappelli, marionette, costumi, stoffe, tappeti, oggetti bizzarri, ciarpame e cianfrusaglie, con la curiosità e la solerzia di un alchimista.
Era nato a Tbilisi, fulcro di una terra che del cosmopolitismo aveva fatto la propria originalità e la propria forza. La città lo aveva abituato a una naturale commistione di forme culturali differenti, dalle suppellettili del folclore a una letteratura ricca e un cinema originale.
Tamasha-Alì, Tamashavàn, Tamashabàd: tre modi diversi per indicare Tbilisi nel Caucaso, vale a dire “città-spettacolo”, “città-baraccone”, quasi a evocare la polpa multicolore e danzante della città, il palpitante odore delle sue piazze; i georgiani la chiamano “la calda”, gli armeni “Tiflisi”. Ma anche città-bugno, labirinto di viuzze attortigliate sulle quali affacciano balconi di legno decorati di colonnine scolpite. Città liminale, un po’ Napoli, un po’ Palermo, che a noi mediterranei appare quasi familiare, ma irriconoscibile. Tra i solidi palazzi ereditati dall’architettura tardo ottocentesca dell’Impero russo, si profilano le basse cupole d’argilla dei bagni turchi; accanto ai grattacieli sonnecchiano bianche casupole con i patii, che a tratti ricordano Bucharà. Città sita all’incrocio geografico di Oriente e Occidente, serrata tra due mari di opposti continenti, circondata dal profumo dei vigneti e dalla roccia aspra del Caucaso, «Tbilisi è divenuta un’indicibile selva sonora nella quale fermenta l’ebbrezza dell’eurasismo».2 Non è solo il fiume Kura ad attraversarla, ma anche il ricordo ancora vivo delle grandi vie commerciali, la reminiscenza dei colorati kärwâ-särâi, i caravanserragli che hanno lasciato alla città pluralità di lingue e di costumi, di usi pacificamente convissuti per secoli, fino all’esplosione di nazionalismi seguita al disfacimento dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche che l’ha ridotta in macerie.

«All’incrocio di tre culture: georgiana, armena e turca; di tre religioni: ortodossa, armeno-gregoriana e musulmana, apparve un popolo con usanze proprie, con un codice morale peculiare, con propri canti e un folclore coreografico, con un lessico e una inclinazione appassionata per l’artigianato popolare e per l’arte applicata».3

Il culto dell’ospite e del convivio dei suoi abitanti ciarlieri e prodighi risale al tempo sorprendente in cui al pigia pigia della piazza cittadina «si mescolavano senza offesa una basilica medievale, una moschea azzurra e una sinagoga, quando ogni bambino imparava subito a parlare in tre lingue diverse: in georgiano, in armeno, in azeri».4 «Tbilisi-la-Bastarda, Tbilisi-la-Babele»5, ma anche sintesi architettonica di una cultura storicamente ibrida, isola poliglotta, quasi Sarajevo caucasica…
Sul terrapieno che sovrasta la città si erge la cattedrale di Nostra Signora di Metekì, curiosa erede dell’ascetismo paleocristiano, dove, all’interno delle facciate austere e nude si consumano i riti barocchi del cristianesimo armeno-gregoriano. Tbilisi è la città dell’artigianato più svariato: cappellai, tappezzieri, scalpellini, incisori, fino ai fornai che plasmano pani piatti come frittele sulle pareti ardenti dei forni tradizionali. E dietro le mura, brulicano i cortili interni, con le scalette e le verandine sghimbesce, con i veroni disordinati, che spesso diventano teatro per rappresentazioni di vita quotidiana.

Paradžanov nel cortile della sua casa di Tbilisi

In una di queste corti Paradžanov metteva in scena sotto gli occhi della strada e della polizia segreta i gesti iperbolici della propria leggenda. Recitò la propria esistenza all’insegna del gioco, accoglieva la gente come un imbonitore da barraccone, come un ammaliatore usava mascherare i suoi amici e conoscenti usando lembi di stoffe colorate come turbanti, cuscini come cappelli e tende come ricchi drappeggi. Era un ometto atticciato e panciuto, una barba scura gli incorniciava il viso largo, illuminato da occhi nero-ebano molto grandi, tipici degli armeni: una specie di Mangiafoco bonaccione ed eccentrico nel cuore di Tbilisi. Il suo vero nome era Sarkis Paradzanian6, prodotto egli stesso della tradizione culturale della città che diede i natali a innumerevoli armeni della diaspora. Prodotto tipico, in quanto ricettacolo degli stimoli molteplici della cultura popolare ibrida in cui era cresciuto. Amava circondarsi di gente occasionale, artisti, poeti, operai, gente di strada, delatori, sospetti funzionari segreti che presenziavano alle sue serate chiassose, dimenticando spesso lo scopo della loro visita.
La sua biografia è intrisa di verità incredibili e improvvisazioni mistificatrici; usava romanzare la propria storia con un candore quasi infantile, ma convincente.

«La mia biografia è confusa. Non so esattamente quando sono nato. I miei amici ne approfittano per festeggiare il mio compleanno tre volte l’anno. Questo dà loro tre possibilità in più di bere vodka».7

Foto-collage di Sergej Paradžanov composto di sue foto dall’infanzia al 1984 circa

In realtà era nato il 9 gennaio 1924, il padre di sua madre era un lottatore venuto a Tbilisi in cerca di fortuna, si esibiva sulla piazza del mercato per sostentarsi, sperando di diventare famoso; fu ferito durante un combattimento e divenne il protetto del suo avversario che finì col fargli dono della propria figlia e del proprio negozio. Suo nonno paterno costruiva faeton, landò, calessi e ogni sorta di carrozze. Suo padre, donnaiolo e bell’uomo, dilapidò l’eredità, entrò nel partito dei Cadetti e, dopo la Rivoluzione, si dedicò al commercio illegale di suppellettili antiche diventando un trafficante modello dell’era sovietica; apriva e chiudeva bottegucce e ristorantini, comprava, ricettava e rivendeva oggetti di valore e, soprattutto, trasmise al figlio una vera ossessione per gli oggetti d’arte, i quadri, i gioielli e l’antiquariato.8
Ma in tutto questo potrebbe esserci qualcosa di non vero.

«Ho passato l’infanzia a ingoiare gli anelli e gli orecchini di mia madre, poi li restituivo dopo tre giorni. Ma finché avevo i gioielli di mamma nei miei ‘fondali’ non potevo andare a scuola: avevano troppo valore».9

Autoritratto con bambola Paradžanov in paradiso, 1988 – Un ladro non diventerà mai una domestica, 1978 – Autoritratto con gabbia, 1988. Museo di Erevan (Armenia)

Tuttavia, la sua carriera di regista non debuttò nel Caucaso, ma in Ucraina, dove aveva seguito il suo Maestro Igor’ Savčenko10 sul set di due suoi film, e dove rimase una volta diplomato, nel 1951, per lavorare presso gli Studi cinematografici di Kiev. In quei suoi primi lungometraggi, a partire da soggetti spesso imposti dalla produzione, si accalcavano disordinatamente frammenti di folclore, rievocazioni di favole o di leggende frammisti a simboli e allegorie disorganiche che egli cuciva insieme in un’assoluta mancanza di controllo del materiale trattato. Infatti, se già traspariva in quei primi lavori il suo interesse per i costumi, la ritualità, i suoni, i gesti e l’estetica delle culture tradizionali, nulla lasciava presagire l’esplosione di talento del suo primo, vero capolavoro, Teni zabytych predkov (Le ombre degli avi dimenticati).

Manifesti de L’ombra degli avi dimenticati, ©kinopoisk 2003-2025

Era il 1964 quando lo schermo irregimentato e immeschinito della cinematografia sovietica si squarciò, aprendosi sui colori, i personaggi, i paesaggi, i canti e i gesti rituali de Le ombre degli avi dimenticati. Il titolo evocava reminiscenze misteriose, suggeriva la presenza di revenants arcani di cui si era scordata l’esistenza. La scelta di narrare una favola tradizionale ambientandola tra una sperduta popolazione dei Carpazi ucraini, gli Hutzuli, lasciando peraltro che in tutta l’URSS riecheggiassero i dialoghi in lingua originale (un dialetto ucraino comprensibile al pubblico russofono), attirò tuttavia l’attenzione delle autorità. Se il “colore nazionale” passava, ben altra cosa era mostrarsi così interessati alle culture “marginali” dell’Impero; fu così che sul regista caddero le pesanti accuse di essere un sostenitore delle spinte separatiste che crescevano silenziosamente ma sicuramente nell’Unione. Nel sottosuolo, infatti, covavano le insoddisfazioni sorde delle repubbliche che trattenevano sempre più a stento gli sbuffi di irrequieta insoddisfazione e le spinte decolonizzatrici.
Il film comunque uscì e lasciò attoniti spettatori e critica. Ne Le ombre, il lavoro del direttore della fotografia, Jurij Il’enko11, traboccava per bizzarria e audacia; non si erano visti piani così insoliti nel cinema sovietico dal tempo delle grandi sperimentazioni degli anni Venti. La densità immaginifica, le trovate audaci, la ricchezza dei colori e dei suoni, e la frenesia di una camera portata al limite delle sue possibilità colpirono molto anche la critica occidentale che poté vederlo e premiarlo in varie occasioni: al Festival del Mar de Plata, al Festival di Roma e di Salonicco e altri ancora.
La storia leggendaria che vi si racconta appartiene al folclore locale, era tramandata nei canti popolari della gente dei Carpazi e fissata in letteratura nell’omonimo racconto dello scrittore ucraino Mychajlo Kocjubynskyj da cui Paradžanov e Ivan Čendej12 ricavarono la sceneggiatura. La semplice storia d’amore contrastato – alla Romeo e Giulietta – tra Ivan e Maričko si trasformò tra le loro mani in uno splendido affresco colorato, in un film spettacolare dalle risonanze epiche. Era quanto mai insolito che un regista georgiano di origini armene girasse un film in una zona remota dell’Ucraina, riuscendo a cogliere i tratti peculiari a quella cultura apparentemente lontanissima dalla propria, eppure il regista seppe esaltare il proprio interesse per la tradizione storica, letteraria, iconografica e musicale locale, trasformandola al contempo in un’azione transculturale.
A partire da questo film Paradžanov, rifuggendo ogni forma di realismo riconsegna alla magia del cinema il linguaggio gestuale e l’arte popolare nella loro purezza originaria e assoluta, fuori dal processo storico, come temporalità immutabile, come assioma. Mette in scena la sua “giocosa etnografia”13, inaugurando un cinema della convenzione che sfugge a ogni naturalismo: il profilmico e la scrittura della cinepresa concorrono a creare delle illustrazioni animate, delle olografie audiovisive, dei tableaux vivants d’insolita bellezza; la sua è una visionarietà originale che risuona dei mille echi di un passato miracolosamente resuscitato e liberamente rivisitato. Un passato che, nel caso specifico de Le ombre, ha il sapore ambiguo del Medioevo slavo in cui convissero a lungo sciamani, riti magici, credenze, superstizioni e costumi ancora pagani, con l’ascetismo e le forme austere del cristianesimo ortodosso. La dvoeverie, la “doppia fede”, durò dei secoli, al punto che la liturgia, le celebrazioni e i culti cristiani s’impregnarono inevitabilmente della dionisiaca vitalità e della dirompente sensualità dell’epoca precedente e ciò traspare in ogni scena di questo incredibile film.

Le ombre degli avi dimenticati, sequenza della morte di Maričko, avviatasi in piena notte verso l’altopiano per raggiungere Ivan all’alpeggio

In quel suo primo capolavoro barocco, Paradžanov incardina nei movimenti della macchina da presa il fondamento dell’espressività cinematografica, ne fa il fattore linguistico-estetico principale: interviene sul ritmo, accelerando o rallentando la dinamica a seconda delle situazioni, tenta un montaggio quasi a contrappunto di piani-sequenza vertiginosi, oppure arresta repentinamente il movimento fino a fissare la composizione in un quadro pittorico, come atto significante a sé. In quel suo primo capolavoro, l’energia della sua regia si libera, dando vita a un turbine di movimento che verrà negato nel suo film successivo, Sayat-Nova, caratterizzato invece da una immobilità ieratica.

«Liberata l’energia, Paradžanov la spinge fino ad esaurirla. Allora può riprendere ad esprimersi, scartando agevolmente ogni tentazione, operando una sorta di transustanziazione dell’energia stessa. Quando la struttura-gabbia drammaturgica può essere abbandonata, vuota e inutile, smontata, ricostruita secondo tempi diversi, non fa più paura; l’energia-forma che racchiudeva si è emancipata».14

Tuttavia, la critica sovietica non seppe vedere al di là della spettacolarità di alcune scene, l’affermazione di principi espressivi innovativi per il cinema dei primi anni Sessanta, né l’originalità spiccata di questo nuovo autore: la composizione pittorica dell’inquadratura, l’uso polisemico del colore, l’affermazione della cinemetafora come verbo fondamentale della narrazione e non suo puro accessorio… Sfuggì altresì alla critica il superamento dell’uso naturalistico del suono e del colore e la sua volontà di fare dell’inquadratura – correlandone armoniosamente tutti gli elementi –, un’unità discorsiva autonoma del cinema. Infranta la barriera del naturalismo cinematografico, Paradžanov tuttavia non approda all’astrattismo di Tengiz Abuladze15, né al surrealismo filosofico di Andrej Tarkovskij; la sua drammaturgia si costruisce attraverso una dialettica interna a elementi dell’inquadratura propriamente legati allo stile: tra i colori e i suoni, tra l’ambientazione, gli oggetti e i corpi degli attori. Egli esalta il sincretismo espressivo connaturale del cinema, attua una ricerca “transdisciplinare” estremamente avanguardistica, che fonde in una nuova forma diversi generi d’arte: il teatro, il circo, le marionette, la giocoleria, la pittura, la scultura, la fotografia, l’arte decorativa. La sua regia giunge a tratti alla finitezza e alla complessità del racconto epico; mette a nudo quel sottotesto mitico e infantile che, per la natura stessa del cinema, scorre sotto ogni film.

L’ombra degli avi dimenticati, fotogramma finale

Lasciata la capitale ucraina dopo il rifiuto della sua sceneggiatura successiva, Gli affreschi di Kiev, Paradžanov approda a Erevan nel 1966, richiamato dal direttore degli Studi Cinematografici armeni per la lavorazione di Sayat-Nova. L’uscita del film, tre anni dopo, scatenò un vero e proprio terremoto negli ambienti ufficiali: la pellicola venne amputata di ben 20 minuti e ritirata dalla circolazione dopo sole due settimane dalla sua uscita, successivamente fu assegnato a Sergej Jutkevič16 il compito di rimontarlo completamente per farne una versione “più comprensibile” che soddisfacesse gli Studi e il pubblico. La nuova versione circolò a partire dal 1971 con il titolo di Il colore del melograno, peraltro in tiratura così limitata che Paradžanov non ne ricavò nemmeno una copeca.
Il film racconta la vita del famoso ashugh Sayat-Nova (1712-1795), un trovatore armeno del XVIII secolo che vagava nel Caucaso scrivendo versi e cantandoli in tre lingue diverse, in armeno, in georgiano e in azeri, accompagnandosi con il kamancià, lo strumento per eccellenza della lirica monodica arabo-persiana e caucasica.

Il poeta giovane con il suo kamancià, fotogrammi da Sayat-Nova (1969)

Orchestra perfetta, lodato fra gli strumenti, kamancià,
L’uomo da nulla non sa vederti, gli sei vietato, kamancià,
Tua meta sia giungere nei giorni migliori, kamancià,
Chi osa staccarci, sei tu il compagno del trovatore, kamancià.

La chiave, orecchio d’argento, la cassa gioiello di gemme,
sul manico avorio istoriato, sul ventre la madreperla,
nell’oro son tese le corde, si apre la rosa nel ferro,
nessuno sa dire il tuo pregio, rubino, diamante, kamancià.
L’archetto foglia d’oro, tramuta in mille colori,
Pelo fatato di Rakhsh, sa suggerirti rime soavi,
E fino al mattino son molti a vegliare e molti addormenti col tuo hascisc.
Sei tazza d’oro, ricolma di vino soave, kamancià.
Due volte tu servi il tuo suonatore, al tè e prima al caffè,
la sala risuona di elogi, tu cerchi le pause di quiete;
gioia e dolcezza se sali al convito, e in schiera le belle
ti stanno dintorno. Metà del convito sei tu, kamancià.
Tu volgi al sorriso il cuore più triste, plachi il tremore all’infermo;
se intoni la voce tua dolce, si schiude alla gioia il tuo suonatore,
rivolgi alla gente la tua preghiera, che dica: «Viva il tuo cantore!».
Finché vive Sayat-Nova, gioie t’attendono, molte, kamancià.

(dal Canzoniere armeno di Sayat-Nova)17

Lo strumento tradizionale a corde, diffuso in tutta la regione, accompagnava i versi d’amor cortese che egli andava declamando nei palazzi nobili della regione. Per un lungo periodo fu il poeta di corte di re Eraclio II di Georgia, ma finì per essere esiliato, forse per via del suo amore impossibile per la sorella del re, Anna Batonoshvili, a cui sono dedicate la maggior parte delle sue liriche.

Nel tuo seno nutri le rose, le viole, il giacinto e il giglio.
A che serve il giardino al tuo signore? Il tuo profumo è quello del basilico.
Hai spiegato come vela i tuoi capelli, e li attraversa il vento,
il mondo è un mare, tu la nave che lo percorre e si culla sulle sue onde.

Se pur ti lodasse il mondo intero, non direbbe di te che in minima parte.
Ninfea, fiore dei mari, viola che si dischiude al vento.
Come resistere al tuo amore? L’acqua si porti via Sayat-Nova.
Chi t’ha visto più d’una volta dissennato hai reso e demente.
(Ibidem)

Lasciato il mondo barbaro della pastorizia degli Hutzuli, con i suoi culti dionisiaci e la sua esplosiva vitalità, Paradžanov realizza un’opera agli antipodi, dove l’influenza persiana sulla civiltà caucasica si traduce in una sensualità fatta di metafore, di allusioni, di simboli poetici. In Sayat-Nova si celebra l’arte di suggerire senza rivelare completamente, l’ambiguità di desiderio e mistero, con la delicatezza dei tratti e l’armonia compositiva tipica delle miniature orientali. L’influenza persiana si rivela anche nell’ambiguità sessuale dell’essere amato, come avveniva nei ghazal (forma poetica lirica), dove il saqi (il coppiere, l’amato) è un giovane dalla bellezza efebica, la cui attrattiva trascende i confini di genere: egli è colui che “versa l’ebbrezza”. A prestare il proprio volto sia al poeta che all’amata è la bellissima attrice georgiana Sofiko Ciaureli, che sembra incarnare nella sua androginia l’intrinseca fusione dell’essere amato, dell’amante e del divino di cui riecheggiano i versi dell’ashugh. In realtà Sofiko Ciaureli, vera e propria musa del regista, interpretava ben cinque ruoli nel film: il giovane poeta, l’amata del poeta, la musa del poeta, il mimo, l’angelo della resurrezione.

Sofiko Ciaureli nei cinque ruoli interpretati per Sayat-Nova

Il film deluse gli Studi Armenfil’m che si aspettavano un’apologia di gusto classico su colui che si voleva celebrare come il maggior poeta della letteratura armena. La sceneggiatura di Paradžanov e il suo film, nella versione originaria, sottolineavano piuttosto lo spirito transnazionale del poeta e la sua appartenenza al popolo caucasico tutto. Infatti, Sayat-Nova costituisce di fatto il primo volet del suo trittico caucasico a dominante armena, a cui seguirà La leggenda della fortezza di Suram a dominante georgiana e Ashik-Kerib a dominante azera.
Il linguaggio di Sayat-Nova fu definito ermetico e incomprensibile dalla critica armena e sovietica, mentre in occidente lo si considerava come «il capolavoro assoluto del cinema armeno, un film maledetto, anzi ‘il film maledetto’ per eccellenza della cultura sovietica».18

A sinistra il manifesto del film rimontato da Jutkevič col titolo: Il colore del melograno. A destra il manifesto originale restaurato dalla Cineteca di Bologna nel 2014

Buona parte del film fu girata nello stupendo monastero di Haghbat (XI-XII secolo), nel montuoso nord dell’Armenia, dove si era ritirato dalla vita laica e aveva trascorso molti anni il monaco Ter-Stepanos, alias Sayat-Nova. Con questo film Paradžanov si staccò decisamente dall’esperienza del suo film precedente «tutto colori violenti e irrealistici, forsennati movimenti di macchina, un senso panico e dirompente della natura, una sensualità sfrenata»19, per le note ascetiche, quasi metafisiche di questo suo nuovo capolavoro.
Se ne Le ombre lo spazio-tempo viene dato attraverso una materia sensuale che coinvolge contemporaneamente vari livelli percettivi ed esplorato in tutta la sua tridimensionalità, l’inquadratura fissa di Sayat-Nova, la sua composizione simmetrica e frontale negano di fatto ogni profondità di campo. Lo spazio filmico viene compresso, gli oggetti e i corpi sono mostrati sull’avanscena dello schermo. Il movimento interno all’inquadratura non disegna l’illusione tridimensionale dello spazio filmico, ma quella orizzontale e verticale della superficie dello schermo. In tal modo, viene accentuata la convenzionalità dello spettacolo cinematografico, creando un effetto straniante nella percezione, amplificato dalla colonna sonora che esercita un vero e proprio effetto ipnotico. In questo film leggendario le nozioni di primo piano, secondo piano e sfondo sono negate: l’inquadratura si divide in “alto” e “basso” come in una tela pittorica. Qui lo spazio diegetico non conta, l’inquadratura diventa pura durata, espressa non dai movimenti di macchina praticamente assenti, ma dai gesti stilizzati degli attori e dalle microinfrazioni alla struttura simmetrica.

L’infanzia e la giovinezza del poeta cresciuto in una famiglia di tintori (montaggio)

Il presupposto tematico d’altro canto non era affatto per Paradžanov la biografia dell’ashugh, ma piuttosto la sua opera poetica, da qui il ricorso a mezzi stilistici più vicini alla lirica che al biopic: ripetizioni di inquadrature identiche (quasi delle rime), apparizioni-sparizioni à la Méliès, immagini sinestetiche, metonimie, sineddochi visive… Nel film, come nel canzoniere di Sayat-Nova, «la dimensione lirico-musicale si rivela come la prova più alta e insieme più lacerante della irriducibilità di certe esperienze all’ordine del discorso. L’evento erotico e quello mistico scandiscono gli spazi e i tempi di una parola che più si nasconde quando più sembra rivelare, di quel non-detto – l’ancora-dicibile e insieme l’indicibile – che la poesia accompagnata dalla musica, limite ultimo della proiezione dei significanti sui significati, sa dissolvere in pura sintassi canora».20
Questo film, così come i suoi altri tre capolavori, può essere “ascoltato” e non solo “guardato”; i dialoghi, le voci fuori campo, la musica e i puri suoni d’ambiente si fondono in una forma autonoma che non veicola significati narrativi, ma nuclei sinestetici autosufficienti. Il passaggio del tempo storico si intuisce solo perché il poeta è incarnato da attori di età diverse: un bambino, un adolescente, un adulto, un vecchio. Se Le ombre contrapponeva dialetticamente l’epos alla tragedia, ossia lo spazio-tempo corale-liturgico a quello intimistico-lirico dei due protagonisti, qui si introduce il mito, la cui atemporalità si realizza attraverso la negazione dello spazio filmico – essenzialmente incerto, immenso, centrifugo e multidirezionale – che viene chiuso, come in uno spazio teatrale, per non farlo essere più natura, ma santuario.
Malgrado i problemi incontrati, il film inaugurò un periodo di febbrile creatività del regista che però, nel 1974, venne arrestato a Kiev e condannato a cinque anni di prigione per commercio illegale di oggetti d’arte, ricettazione, traffico di valuta straniera, diffusione di malattie veneree, omosessualità e istigazione all’omosessualità. Girava persino la voce di una sua implicazione nel suicidio del figlio di un alto funzionario ucraino. In realtà si era “limitato” qualche tempo prima, durante un’assemblea pubblica a Minsk, a dichiarare che la direzione egli Studi ucraini era composta da perfetti imbecilli di cui si burlava allegramente. Fu l’intervento di Louis Aragon, sollecitato da Lili Brik, e la mobilitazione di intellettuali in tutta Europa che gli permise di uscire un anno prima del termine della pena dal campo a regime severo, salvo tornarci nel 1982 per una nuova condanna.

Foto di Paradžanov in arresto – Wikimedia Commons /&nbsp, KGB URSS

Complessivamente furono 15 gli anni in cui dovette sospendere ogni attività di regia, fino al 1984 quando, grazie a qualche piccolo escamotage, gli studi cinematografici georgiani accettarono una sua nuova sceneggiatura da cui nacque lo splendido film La leggenda della fortezza di Suram.

Manifesto de La leggenda della fortezza di Suram

Lo straordinario film fu girato in soli 29 giorni, con un budget praticamente ridicolo. La sceneggiatura questa volta traeva ispirazione da un’antica leggenda raccontata nell’omonima novella dello scrittore georgiano Daniel Čonkadze, nel 1860. La storia narra dell’impossibile costruzione di una fortezza che i georgiani cercavano di erigere per difendersi dagli invasori; ogni sforzo per finirla culminava inesorabilmente nel crollo della struttura al raggiungimento del tetto. Consultata una veggente, il suo responso fu inequivocabile: solo il sacrificio di un ragazzo innocente, murato vivo nelle fondamenta, avrebbe reso stabile l’edificio. Il ragazzo designato al sacrificio si rivelò essere il figlio dell’amante che aveva abbandonato l’indovina anni prima per rifugiarsi in Turchia sfuggendo alle autorità da cui era perseguitato. Suo figlio, il giovane Zurab, di ritorno in Georgia, s’immolerà volontariamente in nome della libertà della patria. In questo modo, il tema dell’amore tradito s’intreccia con il tema dell’eroismo sacrificale, un motivo ricorrente nei miti di costruzione di remota antichità: «abbiamo cercato ne La fortezza di Suram, di dare un senso filosofico all’eroismo e non di filmare la realtà dei fatti. L’epoca, gli elementi studiati, fondati sugli affreschi storici o semplicemente inventati da me, la plastica del film, l’immagine naturale, ci conducono nell’arcaicità».21 Come ben spiegato da Mircea Eliade, i miti di fondazione e i sacrifici umani ad essi connessi, presenti in molteplici religioni e culture, evocano una metafisica arcaica, si fondano sul principio, diventato archetipico, secondo cui «nulla può durare se non ha un’anima, se non è animato. Da questo presupposto partono pressoché tutte le leggende, i miti, le narrazioni che ci parlano del costruire. Troviamo lo stesso elemento in Europa, in Africa, in Polinesia, in Asia, nelle Americhe. Il tema ha due varianti, nella prima c’è una costruzione che non si regge fino a quando non viene fatto un sacrificio umano. Nella seconda, più numerosa, il sacrificio viene fatto all’atto della fondazione e spesso la vittima è sepolta viva»22.
Ne La leggenda, come nel suo terzo film caucasico, Ashik-Kerib (1988), riappaiono i piani lunghi e lunghissimi che abbondavano ne Le ombre, il racconto assume di nuovo i toni dell’epica, mentre la suddivisione in capitoli della narrazione si connota definitivamente come mezzo stilistico precipuo al modo di raccontare di Paradžanov. Persino le didascalie svolgono una precisa funzione drammaturgica annunciando, come cartelli esplicativi di un improvvisato spettacolo di strada, il susseguirsi degli eventi. Il linguaggio filmico a partire da qui si fa ibrido, in un certo senso sintetizza le forme estremistiche dei film precedenti pur conservando nella messa in scena e nella composizione una accentuata tendenza alla ripresa frontale e alla simmetria. In questi due film caucasici, è un nuovo immaginario a tradursi nelle immagini e nei suoni, scaturito questa volta dalle antiche cosmogonie delle popolazioni precristiane e preislamiche del Caucaso, quando l’influenza della Persia era tale da imprimere le proprie tracce nei motivi ornamentali dell’arte antica: dai fregi scultorei alle ceramiche, dai tessuti ai tappeti, dagli stucchi decorativi alle piastrelle, dove trionfa il bestiario fantastico e la vegetazione stilizzata delle antiche miniature. In quel tempo remoto, di cui non si conoscono i reali confini temporali, la terra era concepita come una sfera circondata dal mare o dalle montagne, al cui estremo limite si ergeva l’albero della vita, unica connessione tra terra e cielo, simbolo di fertilità e immortalità, che in Paradžanov assume le forme del melograno, vero e proprio mitologema della sua poetica. Poco importa per lui la fedeltà filologica, ciò che conta è creare un “oggetto audiovisivo” dal quale emani il sapore di un’arcaicità reinventata.

Spezzoni da La leggenda della Fortezza di Suram, 1984, montaggio

In quella cosmogonia antica sulla quale, a partire dal VII secolo, s’innestarono sia la civiltà cristiana che islamica, la realtà si divideva in un mondo superiore, un mondo terreno e un mondo infero, disposti lungo un asse verticale e integrati, in ordine al tempo, da un mondo anteriore e uno posteriore. A ognuno era attribuita una semantica e associato un colore: bianco il mondo superiore, abitato da divinità, uccelli ed esseri fantastici; rosso quello intermedio, abitato da uomini, vegetali e animali; nero il mondo inferiore, dove risiedono esseri ctoni, i defunti e le acque profonde. L’azzurro era e resterà, sia nell’islam che nel cristianesimo, il simbolo della purezza, della redenzione, della divinità e dell’infinito. I colori fondamentali della palette paradžanoviana, già predominanti ne Le ombre e in Sayat-Nova, si arricchiscono qui di ulteriori riferimenti culturali e segnano i momenti chiave della progressione narrativa, senza però scadere in semplice schematismo ma mantenendo la propria ambiguità, la propria capacità di evocare sentimenti antinomici – come il rosso che è eros e thanatos, paura e desiderio, passione e tormento –, uniti nel profondo della coscienza. L’immagine-colore non è solo l’organica realizzazione di un tema dal punto di vista della dominante cromatica, ma è anche il risultato di un processo nel corso del quale allo stesso contenuto di pensiero è restituita la possibilità di essere pensato o sentito come alcunché di ambivalente.
Se Sayat-Nova faceva rivivere l’elegante fattura dell’universo armeno, le sue due nuove pellicole fanno tornare in vita la civiltà pastorizia arcaica del Caucaso, le sue lotte contro gli invasori, il suo eroismo genuino, le lamentazioni, la magia primitiva, animandone alcuni elementi quasi fossero fuoriusciti da un affresco policromo, da un bassorilievo sasanida, da un racconto mitologico o da un’epopea totalmente reinventata, in cui gli archetipi collettivi vengono rielaborati dal regista in base alle proprie pulsioni.

«La pittura ha realizzato da tempo e alla perfezione tutta la drammaturgia del colore: la sua organizzazione, le sue possibilità di sviluppo. Rifiutare il colore oggi è, mi pare, firmare la confessione della propria debolezza… Noi cineasti dobbiamo prendere lezione da pittori come Bruegel, Arkipov, Nesterov, oltre che dai moderni e dai primitivisti. Presso di loro il colore non è solo ambiente, ma emozione complementare».23

Paradžanov riporta il mondo della coscienza a uno stadio “pre-etico”, a valori ancora non distinti in opposizioni binarie, cogliendo i momenti di frattura tra la mitologia e la tragedia come separazione tra una coscienza sociale unitaria cosmogonica e ritualizzata (forse anche idealizzata) e il tempo conflittuale dello sviluppo storico moderno, incarnato nel dramma individuale dei protagonisti.

«Ciò che lo attrae non è l’esposizione naturalistica di un processo psicologico, ma la sua trasformazione poetica, la sua, diremmo, spontanea o ‘imponente’ metaforicità».24

I suoi film sono realmente a colori e non semplicemente colorati, il colore parla allo spettatore dal profondo della sua coscienza, non ha una relazione naturale con gli oggetti, ma funziona come metafora emotiva, come avviene col volo dei cavalli purpurei ne Le ombre. Il colore nel suo cinema definisce quel sottotesto simbolico che instaura un rapporto emotivo con la linea narrativa principale, si presenta come un caso del tutto particolare di “montaggio interno all’immagine” e – forse per la prima volta nel cinema sovietico – questo principio, già teorizzato da Ejzenštejn, è praticato efficacemente da Paradžanov.

«Non usiamo il colore come una serie di differenti colori, lo percepiamo come un’emozione, come… come dire… una patologia. Non si tratta di malattia, è la parola patologia ed è la sola cosa che manca ai nostri film, soprattutto ai film sovietici. Non la patologia nel senso proprio del termine, la patologia sessuale, o quella di un malato di mente, ma la patologia che dobbiamo intendere come una città che, nella sua architettura, nella sua armonia può essere patologica».25

“Patologia” dice il regista, per noi piuttosto una “logica del pathos”, ovvero un percorso disseminato di tinte che costituiscono altrettante tappe della linea emozionale che attraversa i suoi affreschi cinematografici. Una logica basata sull’effetto emozionale del colore, che segue una propria linea drammaturgica parallela agli eventi narrati. Si potrebbero quasi ritrovare nel cinema di Paradžanov le tracce di una progressione stilistica propria all’arte figurativa: considerare “espressionista” Le ombre, “cubista” Sayat-Nova, “primitivisti” i film successivi. Lo spazio-tempo filmico nel suo film ucraino sembra colto da uno sguardo in movimento, le passioni deformano l’immagine, torcono le coordinate, fuoriescono dalla cornice dello schermo, mentre in Sayat-Nova lo spazio si frantuma, si disarticola in piccoli frammenti che si riunificano come un mosaico nella sintesi mnemonica che succede alla sua percezione, ne La leggenda e in Ashik-Kerib la prospettiva manca di ogni logica naturalista, le linee sembrano tracciate da una coscienza infantile, le forme non imitano la natura ma ne esprimono la forza vitale e spirituale.

«So che la mia regia si fonde volentieri nella pittura, e in questo, probabilmente, consiste la sua prima debolezza e la sua prima forza. Nella mia pratica molto spesso mi rivolgo alla soluzione pittorica, e non letteraria. E mi si confà molto di più quel genere di letteratura che per sua natura è pittura trasfigurata».26

Le due donne di Ivan: Maričko (a sinistra), la vera amata, evanescente, effimero simulacro, Palagna (a destra), la sposa imposta, carnale, smaliziata, ammaliatrice, fotogrammi da Le ombre degli avi dimenticati

La scelta di un cinema quasi muto fa dell’attore un elemento “profilmico” che richiede una stilizzazione da parte del direttore della fotografia per farlo “funzionare” senza bisogno di farlo parlare. La plasticità del corpo, la pregnanza del gesto, la mimica sono i soli mezzi di cui egli dispone per trasmettere i contenuti drammaturgici. Paradžanov sosteneva di avere lavorato con gli attori ispirandosi al «grande Pasolini, quando girava Medea, Edipo Re, le sue fiabe sull’Oriente o l’Occidente, [che] caratterizzava i propri personaggi e creava tutta una serie di variazioni intorno».27

Ne La leggenda della fortezza di Suram e in Ashik-Kerib la sua inclinazione primitivista si rivela in pieno nel ricorso a procedimenti direttamente attinti al cinema muto delle origini: il trucco esagerato, la mimica ipertrofica, l’uso metaforico del corpo attoriale stesso che evolve all’interno di una ritualità reinventata, in cui ogni gesto assume l’efficacia antica delle celebrazioni liturgiche, la complessa e raffinata prassi gestuale del teatro giapponese, la valenza simbolica e precisa della danza indiana o balinese.

Fotogrammi da La leggenda della fortezza di Suram

Paradžanov uscirà per la prima e ultima volta dall’URSS solo nel 1988, per recarsi a Monaco in occasione di una retrospettiva a lui dedicata, e poi a Venezia, dove presenterà il suo ultimo film, Ashik-Kerib, con la co-regia di David Abašidze, un film che dedicherà all’amico Tarkovskij, morto esiliato in Francia nel dicembre 1986 all’età di 54 anni e a cui era legato da una profonda amicizia.

I due registi Andrej Tarkovskij e Sergej Paradžanov con al centro l’attrice Sofiko Čaureli

Il progetto iniziale di quest’ultimo lavoro era di girare un film ispirato al poema di Michail Lermontov Il demone, facendone due novelle rispettivamente di 60 e 40 minuti. Il magro budget messogli a disposizione gli fece abbandonare il progetto iniziale e finì per girare un adattamento dell’omonima favola di Michail Lermontov, ispirata a un racconto azero molto popolare. Il povero suonatore di saz Ashik-Kerib commette lo sbaglio di innamorarsi perdutamente della figlia di un ricco mercante, Magul-Megeri e, per conquistarla, si mette in cammino per sette anni nella regione, ripromettendosi di diventare ricco e tornare a sposarla. Come in tutte le favole si mischiano personaggi favolosi, demiurghi, indovini, esseri fantastici, avvengono fatti miracolosi, si attraversano mille peripezie per poi tornare al punto di partenza e tutto termina felicemente. Il film resterà l’ultimo luminoso testimone della regia di Paradžanov, le sue numerose sceneggiature, molte a tema autobiografico, resteranno irrealizzate e raccolte in un volume uscito postumo che immalinconisce il lettore come una raccolta di occasioni mancate.28

Manifesto di Ashik-Kerib e fotogramma del film

Sergej Paradžanov è tra i pochi grandi registi sovietici a non aver lasciato scritti teorici: la sua voce mistificatrice e delirante trapela nelle varie interviste rilasciate nel corso della sua esistenza. La sua originalità lo situa al margine delle scuole che hanno fatto il cinema classico e rende impossibile ogni imitazione e ogni paragone; era un artigiano abile e versatile, i costumi, il trucco, la scenografia, la direzione degli attori, tutto passava sistematicamente per le sue mani, era un touche-à-tout di genio, affascinato dai materiali grezzi dell’arte cinematografica. Ha lasciato quattro splendidi film e una quantità immensa di disegni, collages, pannelli, mosaici, marionette, cappelli che costituiscono il museo di Erevan a lui dedicato, e tanto basta. In quei caotici pannelli barocchi trovano posto e unità i ritagli di materiali disparati e le testimonianze contraddittorie di culture ed epoche distanti. Lavorò con autentica passione alla costruzione degli insoliti oggetti che diventarono il mezzo d’espressione artistica prediletto durante i suoi lunghi anni di lontananza dalla regia.

Pesce azzurro, 1983; Madonna, 1971-1973; Schizzo per Il Demone, (l’indovina),1987. Museo di Erevan (Armenia).
Tre collage di una serie molto più estesa

I suoi larghi affreschi colorati ci giungono dal profondo dei secoli, investendoci di una ricchezza di colori, suoni, forme, che hanno la sensualità di una drogheria orientale; impossibile decifrarne il senso logico, il pensiero discorsivo non ha luogo di essere quando ci si ponga in ascolto di queste immagini sinestetiche. Osare un cinema dell’immobilità che sfida la pittura come in Sayat-Nova, lanciare la camera da presa nelle pericolose, estatiche circonvoluzioni dei rituali primitivi come ne Le ombre degli avi dimenticati, dimenticare il plot per fare dell’inquadratura e del montaggio il veicolo unico del testo filmico, liberare il colore dal suo referente oggettuale: queste sono le libertà che Paradžanov si è preso girando i suoi quattro film principali. La sua regia fa riemergere il patrimonio culturale e le forme primitive della cultura umana inghiottite nell’oblio dei musei, dà loro una nuova vita, più bella, non filologica, né etnografica, ma poetica, di quella stessa poesia istintiva e immediata che caratterizzava lo stile naïf della pittura di Pirosmani.29

Aia in un villaggio georgiano (a sinistra), Niko Pirosmani, 1915 – Fotogramma da La leggenda della fortezza di Suram (a destra)

NOTE

1 La regione del Caucaso è anche terra biblica, luogo in cui si erge il magnifico monte Ararat, montagna sacra degli armeni. Terra contesa tra Impero Romano, Persia, Impero Ottomano, arabi, mongoli e slavi, il Caucaso ha assorbito le influenze molteplici di civiltà e religioni diversissime.
2 L. Grigorian, Tri cveta odnoj strasti. Triptich Sergeja Paradžanova (I tre colori di un’unica passione. Il trittico di Sergej Paradžanov), Sojuz Kinematografistov, Mosca 1991, p. 11.
3 K. Cereteli, Introduzione a Sergej Paradžanov, Tri scenarija – Sayat-Nova-Ispoved’– Lededinoe ozero-zona (Tre sceneggiature: Sayat-Nova – Confessione – Il lago dei cigni-la zona), in “Kinoscenarii”, n. 1, 1990, p. 131.
4 Ibidem, p. 132.
5 A. Leduc, Les sept couleurs, in “Révolution”,  27/7-2/8, 1990.
6 Il nonno paterno di Paradžanov, un commerciante emigrato a Tbilisi alla fine del XIX secolo, fu costretto a russificare il suo cognome per entrare nella gilda dei commercianti e ottenere i titoli riconosciuti alla corte dello zar.
7 In P. Cazals e E. Waintrop, Paradjanov, le magicien de Tbilissi disparaît, “Libération”, 23 luglio 1990.
8 Cfr. P. Cazals, Paradjanov, la légende, “Libération”, 16 febbraio 1988.
9 Ibidem.
10 Regista teatrale e cinematografico ucraino, nato a Vinnici l’11 ottobre 1906 e morto a Mosca il 14 dicembre 1950. Fu autore noto in epoca staliniana per le opere storiche su personaggi celebri della natia Ucraina, caratterizzate da un giusto equilibrio fra toni epici, semplicità didattica di contenuti e sapiente coloritura storico-narrativa. Non vanno comunque dimenticati altri aspetti del suo lavoro: più volte attore, fu anche sceneggiatore, nonché popolare maestro di regia al VGIK, la storica scuola di cinematografia moscovita.
11 Jurij Il’enko (1936-2010), sceneggiatore, regista, operatore e uomo politico sovietico di origini ucraine. Diventò famoso nel mondo del cinema sovietico proprio per il suo straordinario lavoro con Paradžanov per Le ombre degli avi dimenticati.
12 Ivan Čendej (m22-2005), sceneggiatore e scrittore sovietico di origini ucraine pluripremiato in URSS, divise il proprio appartamento con Paradžanov per tutta la durata della stesura della sceneggiatura de Le ombre e il regista gli insegnò a fare gli involtini con le foglie di vigna!
13 L’espressione è di James Steffen, The cinema of Sergei Parajanov, The University of Wisconsin Press, Madison 2013 (ad oggi il più importante volume dedicato all’opera del regista).
14 G. Buttafava, Radici e un po’ di cielo, in AA.VV., “Tra passato e presente: cinema dall’Armenia”, Ufficio Attività cinematografiche, Tipo-Litografia armena di Venezia, 1983, p. 12.
15 Tengiz Abuladze (1924-1994), sceneggiatore e regista sovietico di origini georgiane, capostipite di una vera e propria “Nouvelle Vague” del cinema georgiano degli anni Sessanta. Si fa notare al Festival di Cannes nel 1956 dove riceve il Prix du film de fiction – court métrage per il film L’asino di Magdana, un’opera che rappresenta una vera rottura tematica e stilistica con le tematiche affrontate fino ad allora nel cinema georgiano. Lo stesso anno il mediometraggio vince anche l’International Film Festival di Edimburgo. È autore di film molto controversati dalle autorità sovietiche, tra i quali alcuni autentici capolavori, come L’albero dei desideri (1977). Con l’avvento della glasnost’, il pubblico occidentale poté apprezzarne il talento e l’originalità quando il suo film, Mol’ba (Pentimento) (1984), una narrazione in forma allegorica delle vicissitudini di un paesino sotto il regime dispotico di Stalin, vinse il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes.
16 Regista cinematografico russo (Pietroburgo 1904 – Mosca 1985). Autore ufficiale del cinema sovietico, si formò nel clima della cultura d’avanguardia, praticò la pittura, il teatro, passando attraverso l’esperienza del FEKS insieme a G. Kozincev e L. Trauberg. Esordì nella regia con Kruževa (Merletti, 1928), realizzando opere improntate al realismo socialista, per tornare alla matrice avanguardista nel 1962, realizzando due film ispirati a Majakovskij. Leone d’oro alla carriera a Venezia nel 1982.
17 Canzoniere armeno di Sayat-Nova (traduzione e cura di Paola Mildonian), Edizioni Ariele, Milano 2015, canto 42, p. 117.
18 Buttafava, cit., p. 23.
19 Ibidem.
20 P. Mildonian, …je vois une rose dans les ténèbres…, introduzione a Sayat-Nova, cit., p. XV.
21 S. Paradžanov (intervista rilasciata a Michael Varatanov nel 1985I, Les cîmes du monde, in “Cahiers du Cinéma”, n. 381, marzo 1986, p. 44.
22 M. Corrado, Lo spazio sacro e il sacrificio dell’architetto, Arianna Editrice  
23 S. Paradžanov (intervista rilasciata a Charles Tesson, Entretien avec Sergueï Paradjanov, in “Cahier du Cinéma”, n. 410, 1988.
24 I. Dzjuba, Otkrytye ili zakrytye “školy”? (“Scuole” chiuse o aperte?), in “Iskusstvo Kino”, n. 11, 1989, p. 64.
25 S. Paradžanov (Intervista rilasciata a Charles Tesson), cit.
26 S. Paradžanov, Vecnoe dviženie (L’eterno movimento), in “Iskusstvo kino”, n. 1, 1966, p. 60.
27 S. Paradžanov in Patrick Cazals, op. cit.
28 S. Paradžanov, Ispoved’ (Confessione), Izd. “Azbuka”, San Pietroburgo 2001.
29 Niko Pirosmani (1862-1918), pittore georgiano primitivista. I suoi dipinti hanno spesso come soggetto animali, persone che mangiano e persone che servono cibo. Le sue opere non sono molto conosciute fuori della Georgia. Paradžanov gli dedicò un cortometraggio nel 1984: Arabeschi sul tema di Pirosmani.